Rivoluzioni colorate. Genesi, applicazione e crisi di uno strumento di guerra ibrida

Rivoluzioni colorate. Genesi, applicazione e crisi di uno strumento di guerra ibrida

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Riproponiamo il testo integrale della relazione introduttiva sulle rivoluzioni colorate presentata il 29 giugno in Umbria.

 

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(Relazione presentata in Umbria, 29 giugno 2024)

Immagino che tutti voi sappiate che cosa si intende quando si parla di rivoluzioni colorate e possiate elencarne almeno alcune. In realtà la lista è molto lunga visto che uno dei teorici di queste rivoluzioni, Gene Sharp, scrive il suo libro The Politics of Nonviolent Action (La politica dell’azione nonviolenta) già nel 1973. Quel libro si basava su una ricerca che Sharp aveva condotto quando studiava ad Harvard alla fine degli anni Sessanta e che era stata finanziata dal Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti. A quel tempo l’Università di Harvard era l’epicentro dell’establishment intellettuale della Guerra Fredda — vi insegnavano Henry Kissinger, Samuel Huntington, Zbigniew Brzezenski. E anche la CIA era di casa.

A prima vista potrebbe sembrare strano che i temi su cui lavorava Gene Sharp fossero di grande interesse sia per la CIA che per il Dipartimento della Difesa. In realtà non è strano per nulla. Organizzare la società civile per usarla come un esercito irregolare avrebbe permesso di attaccare il nemico sul proprio terreno invece di scatenare un conflitto militare, opzione troppo pericolosa per gli USA dal momento che l’Unione Sovietica era una potenza nucleare. Un cambio di regime avrebbe permesso di raggiungere gli obiettivi desiderati ma senza il rischio di un’escalation militare. Ricordiamo che la sconfitta subita in Vietnam era ancora cocente e aveva lasciato una ferita profonda nella psiche degli americani, l’opinione pubblica era fermamente contraria all’idea di sacrificare in guerra un’intera generazione.

E così assistiamo ad un fenomeno interessante: dalla fine degli anni Settanta alla fine degli anni Ottanta il budget destinato all’intelligence cresce a ritmi ancora più sostenuti del budget militare.

Poichè l’immagine della CIA era sempre più compromessa — era noto il suo coinvolgimento in colpi di stato militari, omicidi e torture di leader e militanti comunisti — occorreva creare altre organizzazioni, legate alla CIA, ma con un’immagine presentabile, una sorta di restyling, in modo da attrarre nuove reclute. I giovani di talento che uscivano dai campus americani erano politicizzati, progressisti, avevano manifestato contro la guerra in Vietnam e volevano essere motivati da ideali. Lavorare per chi aveva le mani sporche di sangue non era una prospettiva attraente. Invece lavorare per ONG che asserivano di difendere diritti umani e civili avrebbe permesso a questi giovani di mantenere credibilità agli occhi dei loro gruppi di riferimento. La loro esperienza di attivismo politico era un bonus per la CIA in quanto avrebbero dovuto muoversi con disinvoltura e tessere relazioni proprio in ambienti anti-governativi. Non stupisce quindi trovare tra le nuove reclute molti giovani provenienti da collettivi di sinistra, soprattutto di ispirazione trotskista.

Un altro vantaggio della mimetizzazione della CIA è che organizzazioni cosiddette non governative avrebbero potuto operare in tutto il mondo senza suscitare eccessivi sospetti e senza compromettere troppo chi riceveva fondi e addestramento. E così nel 1983 assistiamo alla nascita del tristemente famoso NED, il National Endowment for Democracy (Fondo Nazionale per la Democrazia) organizzazione che riceve milioni di dollari dal governo americano e da vari “filantropi” e poi li distribuisce ad altre organizzazioni, movimenti, media, think tank, ecc. ma che si spaccia per ONG e che dichiara come sua missione difendere e diffondere democrazia. Come ammetteva il suo fondatore “facciamo alla luce del sole quello che la CIA invece faceva di nascosto 25 anni fa”. Chiaro riferimento ai golpe.

Allen Weinstein, co-fondatore del NED con Carl Gersheim, aveva accesso ai documenti riservati della CIA e dell’FBI, ma non solo. Aveva anche accesso a quelle spie russe che erano state arrestate negli USA o che erano passate dalla parte del nemico. È importante sottolineare il background di Weinstein: trotskista, professore universitario, scriveva articoli per il Washington Post. Ma sia il giornalismo che l’attività accademica offrono da sempre un’ottima copertura. Weinstein non solo era un trotskista, ma essendo figlio di ebrei russi, aveva a disposizione all’interno dell’Unione Sovietica una rete di contatti che avrebbe potuto essere ampliata in modo esponenziale come infatti avviene grazie ai fondi del NED. Nel 1980 organizza insieme a dei dissidenti russi un comitato di cittadini per monitorare gli accordi di Helsinki sui diritti umani. Un comitato tira l’altro, e ben presto amplia la sua rete di attivisti sia all’interno dell’Unione Sovietica che nei paesi del Patto di Varsavia. Nella rete finisce anche un pesce molto grosso, Boris Yeltsin, che sarebbe poi diventato presidente della Russia. Spiego meglio, i collaboratori più stretti di Yeltsin facevano parte della rete di Weinstein. (David Ignatius ne parla in un articolo del Washington Post del 1991) Weinstein spiegava, “Il networking, il fare rete, è una delle cose in cui ci siamo specializzati”. Infatti gli aderenti della sua rete agivano dalla Polonia al Nicaragua. In Polonia animavano il movimento Solidarnosc, che inizialmente viene spacciato come un movimento sindacale, in Nicaragua il movimento anti-Sandinista dei Contras invece non aderiva a nessun principio di non-violenza, era una brutale organizzazione paramilitare.

Sempre nel 1983 viene fondato l’Albert Einstein Institution (AEI) da Gene Sharp e Peter Ackerman che era stato suo allievo. Si tratta di una ONG che ha lo scopo dichiarato di studiare ed insegnare i metodi rivoluzionari più efficaci per abbattere dittature. E per dittatura non intendevano certo i sanguinosi regimi sudamericani, del sud-est asiatico, dell’Africa che invece venivano installati e sostenuti attivamente da Washington. L’obiettivo era quello di destabilizzare e abbattere dall’interno l’Unione Sovietica e i paesi socialisti in quanto rappresentavano un ostacolo all’espansione globale del capitale anglo-americano e dell’ideologia neoliberista.

L’esternalizzazione dei piani di Washington dalla CIA alla società civile si è rivelata un ottimo affare per gli americani — ha contribuito a far crollare l’Unione Sovietica prima che Mosca potesse implementare le riforme graduali che invece hanno permesso al partito comunista cinese guidato da Deng Xiaoping di trasformare la Cina in una potenza economica. Le fondamenta su cui si erge il successo della Cina sono state preparate da Deng nel decennio in cui ha guidato il paese, dal 1979 al 1989.

Sempre in quegli anni oltre a NED, Allen Weinstein fonda il Centre for Democracy (Centro per la democrazia) che viene poi assorbito dall’International Foundation for Electoral Systems (IFES). Dove ha il suo quartier generale? Arlington, in Virginia, esattamente come la CIA. IFES collabora con l’OSCE (Organization for Security and Co-operation in Europe) per ‘monitorare’ elezioni in tutto il mondo. E ovviamente copre o denuncia brogli a seconda della convenienza.

Ma ritorniamo all’Albert Einstein Institution di Gene Sharp e Peter Ackerman, il cui obiettivo dichiarato era quello di usare la non-violenza per abbattere regimi totalitari, vale a dire tutti quei regimi che costituivano un ostacolo all’espansione globale del capitale anglo-americano e dell’ideologia neoliberista. Il capitale anglo-americano era in una fase di trasformazione. Negli anni Ottanta infatti era iniziato quel processo di finanziarizzazione dell’economia a tutto vantaggio di Wall Street e della City di Londra. Quando mi riferisco al capitale anglo-americano non lo faccio a caso. Quello che ai miei occhi appare molto rivelatore è che Ackerman era un banchiere di Wall Street che aveva ammassato una fortuna con i junk bonds, i cosiddetti titoli spazzatura e poi dopo un crack si era trasferito a Londra. Ackerman era uno speculatore esattamente come George Soros che guarda caso negli stessi anni comincia a finanziare anche lui i dissidenti, in Ungheria e in altri paesi del Patto di Varsavia e subito dopo la caduta del Muro di Berlino, crea a Budapest l’Università dell’Europa Centrale per formare le nuove generazioni dei paesi post-sovietici.

Ora occorre fare una piccola digressione per spiegare come mai tra i principali sostenitori e finanziatori delle rivoluzioni colorate si trovino dei personaggi di spicco della finanza come Peter Ackerman e George Soros. Nel 1971 il presidente Nixon dichiara la fine degli accordi di Bretton Woods, accordi che dal 1944 legavano le valute mondiali al dollaro a tassi fissi e il dollaro all’oro. La fine di Bretton Woods spiana la strada alla fluttuazione dei cambi, accelerando la finanziarizzazione dell’economia e l’egemonia del dollaro, cosa che permette agli USA di poter poi accumulare tutto il debito necessario a sostenere la propria egemonia, economica, politica e militare. Ackerman e Soros speculando sulla fluttuazione dei cambi avevano accresciuto ricchezza e quindi potere. Ma non solo. I loro obiettivi strategici coincidevano perfettamente con quelli anglo-americani e una stretta collaborazione andava a vantaggio di entrambi. L’habitus mentale e ideologico della guerra fredda permea i fondatori e finanziatori di queste organizzazioni che diventeranno la scuola quadri della nuova classe politica. Dalle ONG e think tank finanziate da questi “filantropi” esce quell’esercito di attivisti che poi andrà a ricoprire incarichi importanti nelle organizzazioni internazionali, nei partiti, nei governi, nelle università. Li troviamo dapprima nei paesi post-sovietici e poi anche in Europa occidentale, negli USA e nel resto del mondo.

Con il finanziamento dell’US Institute for Peace (USIP), del National Endowment for Democracy (NED) della Ford Foundation, di Open Society di George Soros e di altre fondazioni, l’Albert Einstein Institution di Gene Sharp e Peter Ackerman diventa il nodo centrale di questa rete impegnata in cambi di regime.

Ackerman si vantava di aver fatto cadere Milosevic in Serbia nel 2000 mentre più recentemente il primo ministro della Georgia Irakli Gharibashvili ha accusato Ackerman di aver foraggiato la Rivoluzione delle Rose del 2003–04 e quei movimenti che da anni tentano di abbattere il governo georgiano. In Georgia si stima che operino ben 10.000 ONG!

Ackerman e Soros, insieme agli apparati anglo-americani hanno finanziato centrali di sovversione e addestramento come Otpor, il gruppo di attivisti anti-Milosevic che ha poi provveduto alla formazione di attivisti anti-governativi ovunque servano a Washington e Londra fondando un’altra organizzazione, CANVAS, finalizzata a insegnare le tattiche che si erano dimostrate efficaci in Serbia. Ma non organizzano solo seminari. Spesso l’addestramento passa da materiali audiovisivi e in anni più recenti si avvale delle piattaforme social.

Nel 2002 Ackerman produce un film documentario dal titolo “Bringing Down a Dictator” (Come far cadere un dittatore) che dimostrava le tattiche usate da Otpor contro Milosevic. E una volta montato, il film viene distribuito dove serve. Ad esempio in Georgia una TV privata finanziata dagli USA, Rustaveli 2, nel 2003 lo trasmetteva tutti i sabati, e la stessa cosa avveniva anche in Ucraina. La lezione fa presa. In Ucraina nel 2004 assistiamo alla Rivoluzione Arancione mentre in Georgia nello stesso periodo la Rivoluzione delle Rose, capeggiata da Mikheil Saakashvili, costringe alle dimissioni il capo del governo Eduard Shevardnadze, politico georgiano che aveva ricoperto il ruolo di ministro degli esteri in Unione Sovietica. La Rivoluzione delle Rose apre la strada alla banda di delinquenti atlantisti che per oltre un decennio ha spadroneggiato in Georgia. Quando l’elettorato ha mandato a casa il governo di Saakashvili e la procura ha potuto finalmente indagare sulla sua corruzione, fugge in Ucraina, dove grazie a protezioni eccellenti, quella degli USA in primis, viene nominato governatore di Odessa nel 2015. Coinvolto in altri scandali pure in Ucraina, viene poi arrestato in Georgia e si trova tuttora in carcere.

COME RICONOSCERE UNA RIVOLUZIONE COLORATA

Purtroppo non è sempre facile distinguere sollevazioni popolari autentiche dalle loro copie eterodirette. È possibile cadere in un errore di giudizio in quanto una delle caratteristiche tipiche di questi movimenti pilotati è proprio quella del loro mimetismo. Pur trattandosi di proteste finanziate e coordinate da organizzazioni riconducibili all’intelligence americana, agli occhi di un osservatore casuale possono sembrare proteste legittime in quanto i referenti locali dei manovratori occulti pescano a gran mano nel repertorio espressivo e performativo dei movimenti di protesta organici, mutuano ovviamente solo la forma dell’espressione, i contenuti veramente rivoluzionari sarebbero incompatibili con i fini dei loro finanziatori.

Il manuale delle azioni non-violente realizzato da Sharp e da Otpor viene adattato alla specificità del paese. Sanno toccare le corde giuste della sensibilità giovanile, dagli slogan all’iconografia, basti pensare al pugno chiuso simbolo di Otpor, o al noto inno L’Internazionale che echeggiava a Piazza Tienanmen. Qui si raggiunse il parossisimo dell’incongruità in quanto gli studenti la cantavano intorno ad una copia di cartapesta della statua della libertà di New York. Penso alla cosiddetta ‘rivoluzione degli ombrelli’ di HK del 2014 che portava il nome di Occupy Central, un chiaro riferimento al movimento Occupy Wall Street del 2011, o al simbolo delle tre dita che gli studenti di Hong Kong, Bangkok e Yangon agitavano nelle manifestazioni di piazza nel 2020. Il saluto delle tre dita ha la sua origine nella Rivoluzione Francese del 1789 ma è stato ripreso dal film Hunger Games, film del 2012 che ha fornito anche alcuni degli slogan e l’iconografia usata sia nelle proteste di Maidan a Kiev nel 2014 che a Hong Kong nel 2019–20.

Il 2014 è un anno importante. Gli agenti della sovversione internazionale sono impegnatissimi a coordinare i loro referenti non solo in Ucraina, ma anche in Cina, dove assistiamo a una rivoluzione colorata a Taiwan, nota come Movimento dei Girasoli e al Movimento degli Ombrelli a Hong Kong. Le rivoluzioni colorate sono un prodotto di marketing e il marketing come sappiamo ha bisogno di branding, un marchio di riconoscimento. Non stupisce quindi che vengano associate a colori o fiori. A Taipei ai manifestanti vengono distribuiti migliaia di girasoli per fornire un’immagine che possa ancorare la narrazione mediatica. Due rivoluzioni colorate in Cina e una al confine della Russia nello stesso anno non sono frutto di casualità. La Rand Corporation, think tank americana legata al complesso militare-industriale, già nel 2005 teorizzava attacchi di guerra ibrida simultanei e coordinati che facessero leva sullo swarming, quel fenomeno di emulazione naturale, di comportamento collettivo che si riscontra negli stormi di uccelli o tra gli insetti. E per gli psicologi comportamentisti della RAND, gli studenti non agirebbero in modo molto diverso dai tordi.

Il Movimento dei Girasoli di Taiwan, guidato da una coalizione di studenti e gruppi della cosiddetta società civile, protestava contro il Cross-Strait Service Trade Agreement (CSSTA) che il Kuomintang (KMT) partito che era al potere a Taiwan aveva siglato con Pechino nel 2013. Questa rivoluzione colorata serviva a bloccare la ratifica di questo trattato di scambi economici e commerciali tra la Repubblica Popolare Cinese e l’isola di Taiwan che prevedeva un libero flusso di investimenti tra le due sponde dello stretto. Appare strano, no, che degli studenti si infiammino per un trattato commerciale che non solo non li toccava da vicino ma che prevedeva investimenti di cui avrebbero beneficiato una volta laureati. Ma la comprensione profonda dei temi della protesta è l’elemento che generalmente manca in questi movimenti eterodiretti. Il trattato commerciale dava fastidio soprattutto a Washington, come dava fastidio anche il governo guidato dal Kuomintang, accusato di essersi avvicinato troppo a Pechino: un forte movimento di protesta di massa avrebbe aiutato il partito che era all’opposizione, il partito democratico progressista (DPP) controllato da Washington, a ritornare al potere per scongiurare qualsiasi riconciliazione tra Pechino e Taipei.

Qualsiasi pretesto è utile per scatenare una rivolta quando è stata preparata a tavolino per anni, quando i propri agenti provocatori sono sul campo da tempo, quando le ONG, i media finto-indipendenti, i gruppi della società civile, le organizzazioni studentesche e sindacali sono guidate da persone che collaborano con Washington e ricevono fondi da Washington, e quando i media mainstream di tutto l’Occidente amplificano e applaudono le proteste seguendo una narrazione predefinita. Avete mai visto studenti scendere in piazza quando il governo propone un disegno di legge per estradare un delinquente comune? È successo a Hong Kong. Nel 2019 un residente della città aveva ucciso la fidanzata mentre la coppia era in vacanza a Taiwan ma siccome tra le due regioni della Cina non esiste un trattato di estradizione, per estradarlo e processarlo era necessario modificare la legislazione. Per innescare la rivolta è bastato diffondere la narrazione menzognera che sarebbe decaduta l’autonomia giuridica di Hong Kong e a quel punto Pechino avrebbe potuto avanzare richiesta di estradizione nei confronti di quei dissidenti politici che da anni vivevano nella regione a statuto speciale. Ebbene, la legge prevedeva solo l’estradizione per reati gravi, ed escludeva quelli di opinione, ma come dicevo chi scende in piazza raramente conosce i dettagli. Una volta preparato il terreno, basta gettargli l’osso giusto. In questo caso ai manifestanti era stato raccontato che questa legge avrebbe violato i loro diritti civili e umani.

Avete mai visto gli organizzatori di una manifestazione distribuire gratuitamente migliaia di occhiali di protezione contro i lacrimogeni e bottigliette d’acqua? Succedeva sotto i miei occhi a Hong Kong. Gli organizzatori intendevano alzare da subito il livello dello scontro con la polizia, gli agenti provocatori erano pronti e in assetto di guerriglia, coordinati da contractors americani mescolati tra la folla. Gli slogan che venivano scanditi erano tanto fighi quanto vaghi, tipo “Se noi bruciamo voi bruciate con noi”, preso pari pari da Hunger Games, mentre davano fuoco alla città o cantavano testi del musical Les Miserables, tipo “Sentite il popolo cantare”. Cantare è facile, crea un senso di comunione con chi hai intorno e infatti la maggioranza delle rivoluzioni colorate ha il suo inno. Nei paesi baltici nel 1987 la rivoluzione colorata di matrice nazionalista fa leva proprio sulle canzoni del repertorio folclorico in lingua locale, che venivano cantate nelle catene umane. Ma gli organizzatori non brillano certo per originalità: nel 2019 “Gloria all’Ucraina”, viene riadattato in “Gloria a Hong Kong.” E i motori di ricerca americani come Google e le piattaforme come YouTube spacciano questo inno alla protesta e al separatismo come inno ufficiale della città. In vari eventi sportivi internazionali è stato addirittura trasmesso invece di quello ufficiale cinese, la Marcia dei Volontari, con grande imbarazzo degli atleti e delle federazioni sportive di Hong Kong. Il governo locale intima ai colossi del web di rettificare i risultati delle ricerche online ma le sue ragioni vengono ignorate.

Cantare e scandire slogan è qualcosa che può fare qualsiasi manifestante, argomentare in modo coerente i motivi per cui protesta non è necessario visto che i giornalisti mainstream si guardano bene dal fornire un contraddittorio. Esempio più recente, chi manifestava a Tbilisi in Georgia ripeteva come un mantra che la legge sulla trasparenza delle donazioni alle ONG era una legge russa, ma nessun intervistatore dei canali mainstream gli faceva notare che esistono leggi simili e addirittura più restrittive negli Usa, nell’Unione Europea e in Gran Bretagna. È l’apoteosi del doppiopesismo e dell’ipocrisia.

La mia personale cartina di tornasole per capire se una protesta è teleguidata da Washington, è proprio quella dei media mainstream. Se una protesta viene glorificata da CNN, BBC, RAI, ecc, allora ci troviamo senza dubbio dinanzi ad un tentativo di rivoluzione colorata visto che le proteste genuine sono censurate o mistificate da questi stessi media.

Un’altra tattica usata spesso dagli organizzatori delle rivoluzioni colorate consiste nel cooptare proteste legittime per poi controllare e manovrare a piacimento i loro leader per altri fini. Per farlo vengono usati i metodi classici dell’intelligence, come il dossieraggio, se si scoprono informazioni compromettenti su qualcuno, quell’individuo viene ricattato. Oppure vengono offerti soldi, visibilità mediatica, cariche politiche ecc. Come merce di scambio per tradire il movimento,

Oggi comunque è più facile riconoscere una rivoluzione colorata in quanto esiste una letteratura enorme su di esse. E chi continua ad applaudirle è ovviamente in mala fede o rifiuta di informarsi.

Anni fa era quasi inevitabile cadere nella trappola. Nel giugno 1989, quando vivevo ancora a Milano, ho partecipato a una manifestazione a sostegno degli studenti cinesi che protestavano in piazza Tienanmen. Non sapevo nulla della Cina, ma da studente e giovane attivista pensavo che tutte le proteste studentesche fossero legittime e degne di essere sostenute. Ovviamente non sapevo che Gene Sharp, il padre delle rivoluzioni colorate, era precedentemente andato a Pechino per istruire gli studenti e che NED e Soros avevano investito molto in queste proteste. Ignoravo anche che ai leader della protesta erano stati forniti passaporti americani, e che l’MI6 insieme alla CIA avevano predisposto l’Operazione Yellowbird (uccello giallo) per esfiltrarli. Vennero portati prima a Hong Kong e poi negli USA, dove tuttora lavorano contro la Cina. Dieci anni dopo, nel 1999 a Hong Kong, ho partecipato addirittura ad una veglia in cui migliaia di persone con canti e candele commemoravano il decimo anniversario di Tienanmen, un rituale che riceveva un generoso sostegno del NED e da altre organizzazioni statunitensi. In quell’occasione mi era capitato in mano un opuscolo pubblicato da Human Rights in China, un’organizzazione con sede a New York e finanziata dal governo statunitense, che aveva stilato un elenco di 155 vittime ma aveva opportunamente omesso di menzionare quante di queste vittime erano soldati. Molti di quei giovani soldati erano disarmati e non erano stati addestrati per sedare rivolte, molti di loro finirono bruciati dalle molotov lanciate sui camion aperti che li trasportavano. Negli anni 1980–90 in Asia altre proteste di studenti sono finite nel sangue, ma stranamente non ne parla quasi nessuno, mentre la protesta di Piazza Tienanmen a Pechino viene tuttora celebrata dai media occidentali che hanno completamente riscritto la storia per demonizzare il governo cinese. Nel 1980 il regime militare sudcoreano ha ammesso di aver ucciso 165 studenti, anche se l’opposizione stima che le vittime siano state oltre 600. Nel 1998, in Indonesia, il regime di Suharto fu responsabile del massacro di circa 1000 manifestanti. Molte persone in Occidente non hanno mai sentito parlare di ciò che è accaduto agli studenti in Corea del Sud e in Indonesia, per ragioni che si possono facilmente immaginare: i regimi di questi due paesi erano sostenuti dagli USA.

Negli ultimi anni ho avuto diversi scambi interessanti con diplomatici e giornalisti stranieri che si trovavano a Pechino nel 1989 e sono andata a rileggermi gli articoli pubblicati dai giornali occidentali in quell’occasione. È interessante notare che i loro resoconti dell’epoca sono molto più in linea con la versione ufficiale del governo cinese di quanto si possa leggere in anni recenti sui fatti di Tienanmen su quegli stessi giornali, su Wikipedia e altre fonti mainstream, che hanno gonfiato all’inverosimile il numero delle vittime per demonizzare il governo cinese.

Una rivoluzione colorata viene scatenata quando tutti i tasselli sono al loro posto. È necessario avere sul campo agenti provocatori addestrati per lo scontro fisico con la polizia, quelli di Hong Kong ad esempio erano stati addestrati in campi militari a Taiwan, ed erano coordinati da contractors della CIA mescolati tra i manifestanti. In piazza Maidan a Kiev alcuni cecchini erano addirittura stati reclutati in Georgia. Occorre avere media e giornalisti compiacenti in loco per diffondere disinformazione tra la popolazione e alimentare con queste narrazioni un sentimento anti-governativo, e contemporaneamente diffondere all’estero queste stesse narrazioni per demonizzare le autorità locali e invocare sanzioni. Ma bisogna anche preparare il terreno anni prima della rivolta eterodiretta. Ad esempio a Hong Kong la demonizzazione di Pechino e dei cittadini della Repubblica Popolare sui media di opposizione aveva raggiunto livelli parossistici, i turisti cinesi che arrivavano da oltre confine venivano paragonati a delle locuste, e nonostante la qualità della vita per i ceti popolari, i servizi sociali, i trasporti, e le infrastrutture fossero ormai migliori nelle città della Cina Popolare che non a Hong Kong, i cinesi d’oltre confine venivano costantemente dipinti come dei cavernicoli rozzi e incivili verso i quali gli hongkonghesi potevano solo manifestare disprezzo. Veniva costantemente coltivato un senso di superiorità verso di loro. A Hong Kong veniva anche alimentata la nostalgia per il passato coloniale, proprio quel passato che i giovani neanche avevano conosciuto e che quindi poteva essere riscritto a piacere. Gli abitanti di Hong Kong fin dalla scuola erano stati programmati per amare ed emulare gli inglesi, e più in generale gli occidentali, descritti come portatori di civiltà, legge, cultura, e buone maniere. Le classi dominanti scimmiottavano lo stile di vita delle elites inglesi, mandavano i propri figli a studiare nelle università inglesi o americane, e avendo fatto carriera in epoca coloniale, occupavano ruoli dirigenziali anche nelle istituzioni.

Nelle università docenti e ricercatori che si erano formati negli USA e in Gran Bretagna ne riproducevano l’ideologia, in un classico fenomeno di neocolonialismo intellettuale. Ma non solo. Usavano gli ideologemi del pensiero anti-coloniale e anti-imperialista per accusare di colonialismo e imperialismo non il governo americano ma bensì quello di Pechino e per incoraggiare un sentimento separatista. Le università giocano sempre un ruolo importante nella preparazione delle rivoluzioni colorate, e infatti a Hong Kong alcuni docenti ricevevano finanziamenti dalle ONG anglo-americane per formare i leader delle proteste e addirittura offrire incentivi economici a quegli studenti che avrebbero preso parte alle manifestazioni con il pretesto di svolgere una ricerca sul campo. Le informazioni raccolte dagli studenti venivano poi inviate dai docenti agli organizzatori delle proteste e servivano da feedback per capire quando e come alzare il tiro, cioè se i manifestanti erano pronti a prendere parte ad azioni violente e fin dove erano disposti a spingersi, quali nuovi contenuti aggiungere per ampliare il ventaglio delle rivendicazioni e quindi la portata e l’impatto delle proteste. Insomma venivano applicate le tecniche di ricerca di mercato e di psicologia del marketing alle proteste. In aggiunta ai dati raccolti sul campo, gli organizzatori si avvalevano anche di un accesso privilegiato alle informazioni e ai dati raccolti online dai social media e dai motori di ricerca americani. Le rivoluzioni colorate sono iper-ingegnerizzate.

CRISI DELLE RIVOLUZIONI COLORATE

Ma nonostante i potenti mezzi di cui si avvalgono i servizi anglo-americani, e la pioggia di soldi che alimenta le ONG ad essi legate, negli ultimi anni le rivoluzioni colorate che hanno orchestrato sono state un flop. Penso alle proteste capeggiate da Juan Guaidó in Venezuela nel 2019, a quelle di Hong Kong nel 2019–20, alla Bielorussia nel 2020, al Kazakistan nel 2022, alle recenti proteste di Belgrado e Tbilisi.

Che cosa è cambiato? Innanzitutto non c’è più il fattore sorpresa. Gli apparati di sicurezza dei paesi nel mirino degli USA ormai conoscono l’ABC delle rivoluzioni colorate e hanno adottato delle strategie di prevenzione e contrasto. Rientra tra queste strategie il mettere sotto la lente d’ingrandimento le ONG e i centri di ricerca ed elaborazione politica (think tanks) per scoprire chi li finanzia, scambiarsi informazioni su di essi, introdurre leggi sulla sicurezza nazionale e il divieto a fondazioni americane come Open Society di Soros di operare sul proprio territorio. Ad esempio, lo scorso ottobre il servizio di sicurezza georgiano sapeva, e ha rivelato al pubblico, che tre istruttori serbi (Siniša Šikman, Jelena Stojši? e Slobodan Djinovic), affiliati a CANVAS, erano stati portati in Georgia per partecipare a un programma finanziato da USAID. Hanno cercato di reclutare attivisti locali proprio in vista delle proteste che ci sarebbero state mesi dopo contro la legge sulla trasparenza dei finanziamenti stranieri alle ONG. Il governo georgiano non era quindi all’oscuro di quello che Washington stava architettando.

Ma vi è anche un’altra ragione, di natura geopolitica, vale a dire il rafforzarsi di quel blocco anti-egemonico guidato da Russia e Cina. I governi dei paesi bersaglio delle rivoluzioni colorate possono ora contare sul loro appoggio ed esperienza per contrastarle. Se una protesta fa leva ad esempio su una situazione oggettiva di crisi economica che colpisce i ceti popolari, il governo del paese in questione può ottenere prestiti e investimenti per migliorare le condizioni di vita di chi altrimenti fornirebbe la manovalanza per un cambio di regime. Può inoltre avvalersi dell’appoggio di Russia e/o Cina per contenere l’impatto di eventuali sanzioni, dei ricatti di Washington e Bruxelles, e dell’isolamento politico. Un governo senza appoggi internazionali è molto più fragile e facile da abbattere di uno che viene attivamente sostenuto da una potenza militare ed una potenza economica.

E’ possibile disinnescare la bomba di una rivoluzione colorata arrestando i referenti locali dei mandanti stranieri, in questo modo si interrompe la catena di comando e il flusso di denaro. Questo approccio chirurgico richiede un lavoro di intelligence e in alcuni casi i servizi di controspionaggio russi hanno allertato i governi sotto tiro che si stava preparando un golpe nel loro paese. Reprimere nel sangue una protesta è assolutamente controproducente in quanto infiamma gli animi anche di chi fino a quel momento non aveva preso parte alla rivolta.

A Hong Kong la polizia ha usato il guanto di velluto, lasciato che i manifestanti mostrassero il peggio di sè distruggendo negozi e stazioni della metropolitana, devastando i campus universitari, bloccando i trasporti pubblici, il traffico e persino l’aeroporto, che i rivoltosi minacciassero e picchiassero i cittadini che si opponevano alla loro follia vandalica, che l’esasperazione della popolazione raggiungesse un livello tale da giustificare i successivi arresti. A quel punto la polizia aveva la maggioranza della popolazione dalla sua parte e l’immagine sia delle forze dell’ordine che del governo ne è uscita rafforzata in senso positivo quando ha messo fine al caos. Le truppe dell’esercito cinese di stanza a Hong Kong non hanno mai lasciato le loro caserme, l’unica volta che lo hanno fatto era per ripulire le strade piene di pietre, mattoni, bottiglie molotov, transenne divelte ecc, e la cosa è avvenuta tra gli applausi e l’incoraggiamento della gente. Dipinti come dei mostri dalle forze anti-Pechino che da settimane diffondevano notizie false su un’imminente invasione di carri armati cinesi, l’esercito popolare di liberazione ha invece condotto una sofisticata operazione di PR. Dettaglio importante, i soldati erano mescolati tra la gente, senza la divisa, in maglietta e calzoncini esattamente come i tanti volontari che ogni giorno ripulivano la città dopo la devastazione del giorno precedente. E il giorno dopo i social media erano pieni di foto e selfies con questi bei ragazzi del nord con le scope in mano. Bel contrasto con i vandali vestiti di nero con i caschi e il viso mascherato!

Ovviamente la propaganda anti-cinese è continuata sui media occidentali come se nulla fosse, ma a Hong Kong faceva sempre meno presa — il divario tra quelle narrazioni di fantasia e la realtà era troppo ampio per essere ignorato. La sconfitta di quel tentativo di destabilizzazione in un anello debole della Cina ha sortito l’effetto opposto di quello desiderato da chi ha organizzato le rivolte del 2019 e Pechino non ha dovuto sparare neppure un colpo per riportare l’ordine e consolidare il controllo.

Alla luce di quanto osservato negli ultimi cinque anni, è possibile affermare che nell’arsenale della guerra ibrida le rivoluzioni colorate sono un’arma sempre più spuntata. Ma questo non significa che il loro modello verrà abbandonato completamente. Organizzazioni governative e paragovernative americane, e potenti gruppi di potere, hanno i mezzi, le risorse e l’esperienza per orchestrare e finanziare proteste di massa finalizzate a destabilizzare quei governi che rifiutano di cedere ai ricatti, insistono nel difendere la sovranità nazionale e intendono ritagliarsi spazi di autonomia strategica.

 

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