L''ingresso dell'Ucraina nella Nato visto con gli occhi di Mosca

L''ingresso dell'Ucraina nella Nato visto con gli occhi di Mosca

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di  Lorenzo Ferrazzano 

 

I fatti

 

«È la Nato che decide chi aderisce all’Alleanza, non la Russia». Parola di Jen Psaki, portavoce della Casa Bianca. Una dichiarazione, questa, che riflette la strategia statunitense di allargamento della Nato ad Est adoperata all’indomani del crollo dell’Urss, nel 1991. Facile a farsi con Paesi tradizionalmente ostili alla Russia, come quelli dell’Europa Centro Orientale, che per motivi storici e culturali si ritengono estranei agli slavi orientali; più difficile con quegli Stati storicamente più legati a Mosca, come la Serbia e l’Ucraina, per i quali l’adesione all’Alleanza risulta essere più problematica.

Proprio l’Ucraina è tornata al centro delle cronache internazionali in seguito ad un articolo del Washington Post in cui si paventa una prossima invasione del Paese da parte di truppe russe. Secondo il piano del Cremlino, sostiene l’intelligence statunitense, circa 175 mila soldati sarebbero pronti ad avanzare verso Kyiv. Obiettivo di Putin, secondo gli Usa, sarebbe quello di assicurarsi, anche attraverso l’uso la forza, che non venga superata la linea rossa imposta dallo zar, ovvero il dispiegamento sul territorio ucraino di sistemi missilistici puntati su Mosca, alle porte della Federazione.

Putin si augura che “prevalga il buon senso” e i suoi rappresentanti politici negano ogni piano d’invasione. La pretesa del presidente russo è che la Nato non si espanda ancora più ad Est. Una presa di posizione, questa, tuttavia rigettata da Biden, che ha già indirizzato al Cremlino la ferma volontà di «non accettare la linea rossa di nessuno». A  questo punto il dibattito pubblico si è scatenato e la guerra del Donbass, sistematicamente ignorata nonostante i suoi 14 mila morti e i milioni di sfollati, è tornata al centro delle discussioni. Al di là della cronaca, tuttavia, sembrano poche le analisi che contestualizzino in chiave storico-geopolitica il conflitto in corso in Ucraina orientale e le conseguenze dell’adesione alla Nato. Una guerra complessa che va al di là della semplice contrapposizione politica e giornalistica tra Impero del Bene e Impero del Male.

 

Origini del conflitto

 

La guerra del Donbass scoppia nella primavera del 2014, quando il governo di Kyiv dà inizio alla cosiddetta operazione antiterrorismo negli oblast’ orientali di Luhans’k e Donec’k, i quali avevano proclamato la secessione dall’Ucraina e la nascita di Novorossija, la Nuova Russia. Soltanto poche settimane prima, attraverso un controverso referendum, la Crimea era tornata a far parte della Russia dopo la parentesi sovietica e post-sovietica, quando – nel contesto dell’Urss - la penisola fu letteralmente regalata alla RSS Ucraina dal segretario del Pcus Chruš?ëv.

Le origini di questi eventi destinati a minare gli equilibri tra Occidente e Russia vanno tuttavia ricercati nell’inverno tra 2013 e 2014, quando a Kyiv si consuma la cosiddetta Rivoluzione della Dignità: una rivolta per la libertà secondo gli occidentali, un colpo di stato secondo i russi. Durante i mesi di Maidan - tra studenti pestati a sangue dai Berkut, violenze provocate dalle organizzazioni paramilitari ultranazionaliste, interferenze di potenze straniere e stragi compiute da cecchini nascosti negli hotel -, si radicalizza la frattura tra ucraini occidentali e ucraini orientali. Legati rispettivamente a Europa e Russia per diversi motivi storici, culturali e geografici.

Dalle macerie di Maidan, dopo la rocambolesca fuga di Janukovy?, emerge un governo nazionalista e filo-occidentale. Il quale, se da una parte promette di portare avanti i negoziati per l’ingresso dell’Ucraina nella Ue e nella Nato, dall’altra emana una serie di provvedimenti russofobi finalizzati a marcare le distanze da Mosca e ad enfatizzare il primato della lingua e della cultura ucraina su quella russa. La nascita di un fronte anti-Maidan nelle regioni sudorientali del Paese, dove la maggior parte della popolazione è di etnia e lingua russa, così come la preoccupazione del Cremlino di assicurarsi il porto di Sebastopoli, sono da individuare negli eventi di quell’inverno.

 

Il contesto geopolitico

 

Isolare il conflitto ucraino dal suo contesto storico-geopolitico non permette di cogliere le complessità di questa guerra. Uno scontro che non va analizzato soltanto nelle dinamiche interne ai due paesi slavi, le cui popolazioni sono considerate, a torto o a ragione, sorelle di sangue, ma anche e soprattutto nel contesto internazionale in cui è scoppiato. Una cornice, questa, definita dal crollo dell’Urss e dall’estensione della Nato ad Est, ovvero la causa dell’attuale inasprimento diplomatico tra Russia e Occidente. Da cui la domanda: è realisticamente possibile che Putin riesca a tollerare l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e l’installazione di missili nucleari a una manciata di chilometri da Mosca?

È un quesito che in realtà le diplomazie e gli analisti si pongono da anni, da quando George W. Bush, nel 2004, decise di installare missili balistici in Polonia e Romania da poco entrate nella Nato. Si trattava di una mossa difensiva pensata per Corea del Nord e Iran, disse il presidente Usa. Di parere opposto era Vladimir Putin, furioso per quella che considerava una minaccia diretta verso Mosca. Un pericolo inaccettabile per il Cremlino, reso possibile proprio dall’estensione dell’Alleanza Atlantica ad Est, in quell’Europa Centro Orientale fino a quindici anni prima zona d’influenza russa.

Con l’allargamento della Nato si crea quello che gli studiosi concordano nel definire un avamposto statunitense nell’ex Europa comunista. Paesi come la Polonia, ad esempio, sono in prima fila non solo nel garantire le distanze dalla Russia, cosa su cui il governo nazionalista di PiS basa parte della sua propaganda, ma anche nell’assicurare a Washington un notevole sostegno militare ed economico che mantenga salda l’Alleanza, essendo ormai in bilico la cieca fedeltà di Parigi e Berlino nei riguardi dell’Organizzazione. I Paesi dell'Europa dell'Est infatti contribuiscono maggiormente, in rapporto al Pil, al bilancio della Nato: su un traguardo fissato al 2%, l'Estonia spende il 2,14% del suo Pil, la Lettonia il 2%, la Polonia l'1,98%, la Lituania l'1,96% e la Romania l'1,93% . Fatta eccezione per la Grecia e la Gran Bretagna, questi Paesi spendono per la Nato più di tutti gli altri.

È in questo contesto che Mosca, ripresasi in parte dai “torbidi” dei drammatici anni '90, decide di mettere in sicurezza le sue frontiere occidentali, sentitasi circondata secondo la vecchia strategia occidentale del “contenimento”, e soprattutto dopo le chiare e documentate interferenze nelle cosiddette rivoluzioni colorate (specialmente Georgia e Ucraina)  da parte non solo della Nato e della Ue, ma anche di istituzioni private e organizzazioni non governative legate a gruppi di interesse occidentali. Un assunto, questo, che non vuole sottovalutare o ridimensionare le responsabilità di Mosca nell’aver esasperato popolazioni che le si sono rivoltate contro. Sarebbe tuttavia miope non riconoscere il peso delle interferenze straniere nel riequilibrio dei rapporti di forza nei territori dell’ex Unione Sovietica.

 

Esiti

Quali siano le intenzioni della Russia, scrive Oleksiy Bondarenko su East Journal, non si sa con certezza, dal momento che «questa nuova crisi non sembra molto diversa dalle numerose ‘invasioni’ preparate negli ultimi anni e mai avvenute». Si tratta del tassello di un mosaico di crisi complesso che, come abbiamo visto negli anni, sa esprimersi attraverso violenze e conflitti ma anche con proclami catastrofici, allarmismi gonfiati e relative propagande.

Come scrive Emanuel Pietrobon, analista di Inside Over, da un punto di vista politico questa escalation fa bene sia a Biden che a Putin. Al primo serve «tenere vivo il contrasto con la Russia», per «tenere buono il proprio elettorato e per rassicurare gli alleati orientali dell'Alleanza atlantica». Al secondo, invece, «agitare lo spettro della guerra» serve a «mantenere unito il Donbass, […] a trascinare l'elettorato nazionalista e […] certamente a ricordare all'Occidente che Donbass e Crimea non si toccano». Prudente sembra anche l’analisi di David M. Herszenhorn pubblicata su Politico, il quale scrive che l’intenzione di Putin potrebbe essere quella di congelare il conflitto nel Donbass ed assicurarsi che l’Ucraina non entri nella Nato piuttosto che pianificare un’imminente invasione del Paese.

Si confermano così due schieramenti che potrebbero essere semplificati in questo modo: da una parte l’Ucraina Centro Occidentale che annovera tra i suoi obiettivi primari l’ingresso nella Ue e nella Nato; dall’altra l’Ucraina Sud Orientale, russofona, che non si sente legata né a Bruxelles né tantomeno a Washington e che vive da anni il peso della precarietà dovuta a questa crisi geopolitica che nell’Est è anche umanitaria.

Del resto, la frattura interna al Paese era ampiamente prevedibile già all’indomani del crollo dell’Urss. Henry Kissinger nel 2004 scrisse sul Washington Post che «qualsiasi tentativo dell'Ucraina cattolica e di lingua ucraina di dominare l'altra Ucraina ortodossa e russofona» avrebbe condotto «necessariamente alla guerra civile e alla fine dell'unità nazionale». Un decennio prima, il professor S. Huntigton in quello che sarebbe diventato un classico, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, prevedendo tre diversi scenari per l'Ucraina aveva considerato anche la possibilità che questa avesse potuto dividersi in due entità separate: una occidentale e l'altra, orientale, annessa alla Russia, inclusa la Crimea.

Certamente Putin non potrà tollerare un avvicinamento tanto minaccioso dell’Alleanza lungo i suoi confini. Una strategia Nato che punti verso questa direzione non può che provocare, come di fatto fa, una militarizzazione delle rispettive frontiere e pericolose dimostrazioni di forza. Un braccio di ferro giocato sul dorso dei confini. Dove, nel totale silenzio, in dispregio del protocollo di Minsk, si continua a morire ammazzati dai colpi di mortaio.

Quel che è certo è che questa guerra, scatenata dall’alto e non certo provocata da rancori tra ucraini occidentali e ucraini russofoni, sembra purtroppo essere favorita  dalla stessa struttura fisica e culturale del Paese. Ucraina significa “terra di frontiera”, essendo considerata essa stessa un’immensa frontiera tra Europa e Russia. Secoli di dominazioni straniere hanno generato una società complessa che, pur parlando la stessa lingua, guarda oggi verso direzioni diverse, chi ad Ovest e chi a Est. Non resta che vedere chi prevarrà sull’altro.

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