Lenin, un patriota russo
Vladimir Lenin viene giustamente ricordato come colui che definì la produzione teorica marxista agli esordi della fase imperialista del capitalismo, permettendo una corretta comprensione di questa e gettando le basi per la necessaria saldatura tra le lotta delle classi lavoratrici occidentali e quelle dei popoli coloniali e semi-coloniali, come il grande rivoluzionario che, tramite la guida bolscevica dei contadini, dei soldati e degli operai, portò alla vittoria la Rivoluzione d’Ottobre, creando il primo Stato socialista della Storia e fornendo un esempio e un faro per le masse di tutto il mondo.
Vladimir Lenin fu tutto questo, una persona le cui gesta e i cui pensieri non possono essere sopravvalutati nell’importanza e nell’impatto nella causa dell’emancipazione umana. Ma Lenin, cosa che in Occidente -e soprattutto a sinistra- potrebbe scandalizzare i più, fu un grande patriota grande-russo. Ciò non si pone in contrasto con quanto detto in precedenza, ma in un rapporto d’identità. Amare la propria nazione, essere orgogliosi della sua Storia, delle lotte e dei successi del suo popolo, essere un patriota non significa allontanarsi dall’internazionalismo, ma è anzi un necessario completamento di una sua genuina applicazione. L’esempio di Vladimir Lenin lo dimostra.
Il marxismo non si oppone al patriottismo
“Gli operai non hanno patria”: queste parole del Manifesto del Partito Comunista scritte da Marx ed Engels spesso vengono citate con superficialità per dimostrare un preteso carattere “antipatriottico” dell’analisi marxista e la sua incompatibilità con qualsiasi forma di orgoglio nazionale. Tali ricostruzioni non solo sono superficiali, ma dimostrano una profonda ignoranza dell’attività rivoluzionaria dei due fondatori del socialismo scientifico.
Contestualizzare le parole del Manifesto nell’insieme del testo da cui sono tratte ne permette un’interpretazione scevra da deformazioni.
“Inoltre, si è rimproverato ai comunisti ch'essi vorrebbero abolire la patria, la nazionalità. Gli operai non hanno patria. Non si può togliere loro quello che non hanno. Poiché la prima cosa che il proletario deve fare è di conquistarsi il dominio politico, di elevarsi a classe nazionale, di costituire se stesso in nazione, è anch'esso ancora nazionale, seppure non certo nel senso della borghesia”: gli operai “non hanno patria” in quanto ogni paese è controllato politicamente dalle classi possidenti, le quali privano il proletariato di ogni “cittadinanza”, impedendogli di godere pienamente dei frutti del proprio lavoro e della totalità delle attività sociali. Il proletariato “non ha patria” nella stessa misura in cui potevano non averla i perieci e gli iloti sotto il dominio spartano: non si tratta di negarne la Storia, la cultura, il carattere nazionale, ma di sottolinearne l’estraneità alla gestione del potere. “Non hanno patria” indica l’essenza di potere politico, non di nazionalità, come emerge chiaramente dalle frasi successive, con l’invito al proletariato a “elevarsi a classe nazionale” conquistandolo, uscendo da quello stato d’asservimento e alienazione in cui l’ordine borghese lo condannava. Il proletariato lottando per la conquista del potere scopre il proprio carattere nazionale, che ha un “senso diverso da quello borghese”, in quanto superamento dialettico di questo. Sublazione del nazionalismo borghese, l’internazionalismo proletario non implica un’impossibile e imbelle rinuncia alle caratterizzazioni nazionali, ma le porta in nuovo contesto, dandogli un nuovo valore. E’ infatti una tendenza già espressa dal capitalismo quella dell’accorciamento delle distanze tra i vari popoli, una tendenza che, continua il Manifesto, sarà sempre più acuta sotto al socialismo, poiché “[l]o sfruttamento di una nazione da parte di un'altra viene abolito nella stessa misura che viene abolito lo sfruttamento di un individuo da parte di un altro. Con l'antagonismo delle classi all'interno delle nazioni scompare la posizione di reciproca ostilità fra le nazioni”[1].
La lotta di classe all’interno di un paese può essere quindi vista come una lotta tra due visioni opposte di questo, tra due opposti patriottismi. Uno è quello delle classi dominanti, che è rappresenta prima di tutto il proprio diritto indisturbato a sfruttare la nazione e gli eventuali possessi coloniali, l’altro è quello del proletariato che “non è semplicemente amore per la terra natia, per le sue bellezze e ricchezze naturali; il patriottismo dei lavoratori include l’idea e l’aspirazione che le bellezze e le ricchezze naturali cessino di essere una fonte di arricchimento e di piacere per un pugno di capitalisti e di grandi proprietari terrieri, e diventino una fonte materiale di benessere e progresso per tutti i lavoratori del paese”[2].
Questa visione sarà ulteriormente elaborata da Lenin, il quale parlerà dell’esistenza di “due nazioni” all’interno di ogni nazione moderna, che, rapportate al contesto grande-russo, egli riassume come “la nazione degli Purishkeviches, dei Guchkovs e degli Struves” e quella “dei Chernyshevsky e dei Plekhanov”[3], ossia da una parte la visione di una Grande Russia e di una cultura grande-russa fondata sugli interessi delle classi dominanti, l’altra su quelli del popolo lavoratore, sulla sua storia di lotte e dell’eredità di sviluppo progressivo che è chiamato a raccogliere e a portare avanti. E’ il sapere distinguere tra queste due “nazioni” e agire in maniera coordinata e unitaria con le classi lavoratrici degli altri paesi a distinguere il nazionalista borghese dall’internazionalista proletario, non già il rinnegare l’eredità storica nazionale.
Marx ed Engels dedicarono ampie attenzioni alla questione nazionale, sostenendo le lotte delle nazioni polacca e irlandese, la guerra dell’Unione contro il Sud schiavista negli Stati Uniti, oltre i processi di unificazione nazionale in Germania e Italia. La loro visione materialista dialettica li portava a ciò non in virtù di qualche principio astratto dogmaticamente applicato nella realtà, ma dalla concreta analisi dello sviluppo storico, del ruolo della borghesia emergente nella creazione dei moderni Stati nazionali, della loro necessità per lo sviluppo capitalistico e quindi anche del proletariato, e del ruolo di quest’ultimo nella lotta per la piena realizzazione del programma democratico, tappa essenziale per un avanzamento in senso socialista. La nazionalità non può essere negata: in quanto sintesi di un percorso storico, una sua negazione non sarebbe unicamente la negazione del passato anche delle classi lavoratrici, ma soprattutto del loro futuro, della loro possibilità di essere altro rispetto alla massa amorfa da gestire a colpi di bastone e di carota a cui lo vorrebbe limitare la classe borghese.
Il marxismo insegna che non esiste un “patriottismo” astratto, ma un patriottismo concretamente definito dal suo contenuto di classe, a seconda del quale può essere legato agli interessi delle classi dominanti o delle masse lavoratrici, può avere una funzione regressiva o progressiva, può essere una tendenza da combattere o una fondamentale risorsa per la lotta politica e lo sviluppo. Da ciò ne deriva anche che i “doveri patriottici”, primo tra tutti quello della “difesa della patria”, non possono esseri accettati, o respinti, in astratto, ma solo in relazione al loro contenuto concreto, ossia di classe: “Il marxismo deduce il riconoscimento della difesa della patria nelle guerre come, ad esempio, quella della grande rivoluzione francese e di Garibaldi in Europa, e la negazione della difesa della patria nella guerra imperialista del 1914-1916 dall’analisi dei particolari storici concreti di ogni singola guerra e in nessun modo da qualunque principio generale né da un qualunque punto del programma”[4].
Riconoscere la legittimità della parola d’ordine della “difesa della patria” significa riconoscere la legittimità di una guerra, significa giustificarla e prendere parte attiva in essa per la vittoria del proprio paese, inteso come delle istituzioni che in quel momento lo governano. Non si può quindi ammettere da un punto di vista marxista né la negazione della “difesa della patria” in sé e per sé, né tantomeno una sua accettazione decontestualizzata sulla base del principio “right or wrong, my country”. Il supporto a una guerra deve dipendere necessariamente dalla sua connotazione politica: non si può spacciare come dovere patriottico la partecipazione a una guerra imperialista, a priori dai risvolti bellici. Per questo motivo, saltando ai giorni nostri, nessun comunista ucraino dovrebbe sentire come “dovere patriottico” la partecipazione agli sforzi bellici del regime di Kiev, braccio armato della NATO, ma al contrario dovrebbe impegnarsi per sabotare questi sforzi e per favorire la più rapida vittoria dell’esercito russo e delle forze di resistenza ucraine.
Attorno alla questione della “difesa della patria” vi è una perfetta continuità tra Lenin e i fondatori del socialismo scientifico, i quali non esitavano a parlare di “guerra nazionale” e a riconoscerne la legittimità: “Marx ed Engels affermano nel Manifesto comunista che i lavoratori non hanno patria. Ma lo stesso Marx più di una volta invocò la guerra nazionale: Marx nel 1848, Engels nel 1859 (la fine del suo opuscolo Po’ e Reno, dove il sentimento nazionale dei tedeschi è direttamente in fiamme, dove essi sono direttamente chiamati a combattere una guerra nazionale). Engels nel 1891, di fronte alla guerra allora minacciosa avanzata della Francia (Boulanger) + Alessandro III contro la Germania, riconobbe direttamente la “difesa della patria”. Marx ed Engels erano dei confusi che dicevano una cosa oggi e un’altra domani? No. A mio avviso, l’ammissione della “difesa della patria” in una guerra nazionale risponde pienamente alle esigenze del marxismo. Nel 1891 i socialdemocratici tedeschi avrebbero dovuto realmente difendere la loro patria nella guerra contro Boulanger + Alessandro III. Questa sarebbe stata una varietà peculiare di guerra nazionale”[5].
D'altronde, lo stesso rivoluzionario russo affermerà, in piena Prima Guerra Mondiale, la presenza tra le masse del proletariato politicamente cosciente del suo paese di un forte orgoglio nazionale, di un amore per il proprio paese e per la sua cultura: “E’ il senso d'orgoglio nazionale alieno per noi, proletari coscienti della Grande Russia? Certamente no! Noi amiamo la nostra lingua e il nostro paese, è noi stiamo facendo del nostro meglio per far innalzare le sue masse che duramente lavorano (ovvero i nove decimi della sua popolazione) ad un livello di coscienza democratica e socialista. A noi è assai più penoso vedere e percepire le violenze, l'oppressione e le umiliazioni che il nostro amato paese soffre per mano dei macellai dello zar, i nobili ed i capitalisti. [...] "Nessuna nazione può essere libera se opprime altre nazioni", dicevano Marx ed Engels, i più grandi rappresentanti della coerente democrazia del diciannovesimo secolo, che divennero i maestri del proletariato rivoluzionario. E, pieni di un senso d'orgoglio nazionale, noi, operai Grande-Russi, vogliamo, qualunque cosa accada, una libera ed indipendente, democratica, repubblicana e orgogliosa Grande-Russia, una che basi i suoi rapporti con i suoi vicini sul principio umano di uguaglianza, e non sul principio feudalista del privilegio, così degradante per una grande nazione. Proprio perché noi vogliamo ciò, noi diciamo: è impossibile, nel ventesimo secolo ed in Europa (persino nell'estremo est d'Europa), "difendere la madrepatria" in altro modo che non sia l'utilizzo di ogni mezzo rivoluzionario per combattere la monarchia, i proprietari terrieri ed i capitalisti della propria madrepatria, cioè, i peggiori nemici del proprio paese. Noi diciamo che i Grandi-Russi non possono "difendere la madrepatria" in altro modo che desiderando la sconfitta dello zarismo in qualsiasi guerra, questo essendo il male minore per i nove decimi degli abitanti della Grande-Russia. Perché lo zarismo non solo opprime economicamente e politicamente i nove decimi, ma in più demoralizza, degrada, disonora e prostituisce essi insegnando loro ad opprimere altre nazioni e a coprire questa vergogna con frasi ipocrite e simil-patriottiche”[6].
La questione del patriottismo venne successivamente ancor più sviluppata alla luce della sempre più profonda saldatura tra il movimento comunista internazionale e la lotta antimperialista dei popoli oppressi, e anche in relazione al diffondersi del fascismo, che proprio sul recupero retorico dei temi patriottici e nazionali costruiva i propri progetti imperiali ed egemonici. Come sottolineato dal dirigente comunista bulgaro Georgi Dimitrov in occasione del VII Congresso dell’Internazionale Comunista, l’avvento al potere di partiti e formazioni fasciste era stato reso possibile anche da errori dei locali partiti comunisti, che non erano efficacemente riusciti ad opporsi ai fascisti, permettendo a questi di egemonizzare i temi patriottici e nazionali, facendo riferimento in particolare alla Germania: “I nostri compagni in Germania, per molto tempo non tennero nella dovuta considerazione il sentimento nazionale offeso e l'indignazione delle masse contro Versailles”[7].
Il riferimento è ai tentativi del KPD sotto la dirigenza di Ernst Thälmann di riportare il partito su una linea leninista rifiutando il compromesso con le forze socialdemocratiche, accusate di essere “socialfasciste” e di “tradire il paese” , e attaccando il crescente partito nazista mettendo in risalto le sue ipocrisie e la sua vuota demagogia sul terreno della questione nazionale. Sotto Thälmann il partito si oppose al Piano Young e al Trattato di Versailles, al pagamento delle riparazioni di guerra e del debito internazionale, mentre aprì alla volontaria unione di tutte le popolazioni di lingua tedesca in un solo Stato, nella consapevolezza che “[s]olo il martello della dittatura del proletariato può spezzare le catene del Piano Young e dell’oppressione nazionale”, e che “[s]olo la rivoluzione sociale della classe operaia può risolvere la questione nazionale della Germania”[8]. Prese di posizioni corrette e coraggiose, purtroppo in ritardo rispetto agli eventi e non condivise da quella parte di partito ideologicamente deviata.
Si potrebbe però citare anche il caso italiano come esempio, in quanto fu proprio certa miopia politica camuffata per “ortodossia” a spingere gran parte della prima dirigenza del Partito Comunist d’Italia a rimanere estranea al movimento dell’occupazione delle terre da parte dei reduci, alla lotta antifascista di formazioni quali gli Arditi del Popolo e di mantenere al minimo i contatti con De Ambris e D’Annunzio, che da Fiume lasciavano intravedere la possibilità di costruire una seria opposizione al fascismo proprio facendo leva sulla protesta contro la pace di Versailles.
Per questo motivo Dimitrov insistette particolarmente sull’identità tra i comunisti e i veri patrioti del proprio paese:
“Beninteso, è necessario denunciare ovunque e in ogni occasione davanti alle masse e dimostrare loro concretamente che la borghesia fascista, con il pretesto di difendere gli interessi nazionali generali, conduce la sua politica egoistica di oppressione e di sfruttamento del proprio popolo e di saccheggio e asservimento di altri popoli. Ma non dobbiamo limitarci a questo. E’ in pari tempo necessario dimostrare, con la lotta stessa della classe operaia e con l'azione dei partiti comunisti, che il proletariato, insorgendo contro ogni forma di asservimento e di oppressione nazionale, è l'unico vero combattente per la libertà nazionale e l'indipendenza del popolo. Gli interessi della lotta di classe del proletariato contro i suoi sfruttatori e oppressori del proprio paese non ostacolano affatto il libero e felice avvenire della nazione. Al contrario, la rivoluzione socialista significherà la salvezza della nazione e le aprirà la strada verso altezze più elevate. Per il fatto stesso che la classe operaia, nel momento presente, crea le sue organizzazioni di classe e rafforza le sue posizioni, per il fatto che difende contro il fascismo i diritti democratici e la libertà, che essa lotta per l’abbattimento del capitalismo, essa, per questo stesso fatto, lotta già per un tale avvenire della nazione. Il proletariato rivoluzionario lotta per salvare la cultura del popolo, per liberarlo dalle catene del decadente capitalismo monopolistico, dal barbaro fascismo che la violenta. Solo la rivoluzione proletaria può evitare la distruzione della cultura e portarla al suo massimo splendore come cultura veramente nazionale – nazionale nella forma e socialista nel contenuto – che si realizza sotto i nostri occhi nell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, sotto la direzione di Stalin[9]”.
Il tentativo dell’Asse di costruire una propria egemonia planetaria fondata sull’instaurazione di un regime coloniale (se non schiavile) nell’Unione Sovietica e in Cina riaprì poderosamente la questione nazionale anche nell’Occidente travolto dalle armate hitleriane, ponendo all’ordine del giorno la necessità concreta di lottare per l’indipendenza nazionale in un contesto in cui questa era profondamente minacciata. La vittoria di Hitler non avrebbe significato infatti unicamente un mutamento nei rapporti di forza tra i paesi imperialisti, ma una violenta e totale dominazione dei popoli di tutto il continente.
La sconfitta dell’Asse ad opera delle nazioni alleate, dell’Unione Sovietica, degli eserciti cinesi e delle forze patriottiche di resistenza impedì la realizzazione di un tale scenario, ma l’ascesa degli Stati Uniti a potenza egemone del sistema capitalista e i loro progetti di estendere tale egemonia a livello planetario non poterono che riaffermare la necessità di per i comunisti di continuare a porre all’ordine del giorno la lotta per la liberazione nazionale, non solo nei paesi coloniali e semi-coloniali, ma anche nella stessa Europa capitalista, come espressamente raccomandato da Stalin: “Prima la borghesia era considerata la guida della nazione: essa difendeva i diritti e l’indipendenza della nazione e li poneva “al di sopra di tutto”. Ora non vi è più traccia del “principio nazionale”, oggi la borghesia vende i diritti e l’indipendenza della nazione per dei dollari. La bandiera dell’indipendenza nazionale e della sovranità nazionale è stata gettata a mare: non vi è dubbio che questa bandiera toccherà a voi di risollevarla e portarla in avanti, a voi rappresentanti dei partiti comunisti e democratici, se volete essere i patrioti del vostro paese, se volete essere la forza dirigente della nazione. Non vi è nessun altro che la possa levare in alto”[10].
Questa visione, che prevedeva, citando Mao Zedong, l’identità patriottismo e internazionalismo, risulta oggi completamente assente all’interno della “sinistra occidentale”, ma è più viva che mai negli Stati socialisti o in quelli dove le forze comuniste godono di una grande influenza sociale. Qui il patriottismo viene identificato come un’insostituibile virtù dei cittadini e un compito per ogni vero comunista, e non deve sorprendere che, davanti all’intensificarsi della lotta “tra due -ismi” a livello internazionale data dallo sviluppo del multipolarismo e dalla crisi dell’egemonismo statunitense, la Repubblica Popolare Cinese, sotto la direzione di Xi Jinping, abbia promosso nell’ottobre del 2023 la Legge per l’Educazione Patriottica, per rafforzare lo spirito patriottico tra i giovani. Nelle parole dello stesso Xi Jinping, l’amore per la propria patria non è solo “il più profondo e duraturo sentimento al mondo”[11], ma anche una “potente sorgente di forza per difendere la nostra dignità e l’indipendenza nazionale”[12] su cui basarsi per la realizzazione del sogno cinese e per sviluppare sempre più il sistema socialista con caratteristiche cinesi.
Lenin salvò la Russia dallo smembramento e dall’annientamento.
Davanti al primo conflitto mondiale, guerra scatenata tra gruppi rivali di potenze imperialiste che si combatteva “[non] per emancipare le nazioni, ma per stabilire quale dei briganti [dovesse] opprimere nazioni”[13], Lenin denunciò apertamente la natura proditoria della “difesa della patria” in tali circostanze. La legittimazione della guerra imperialista portata avanti dalla gran parte della socialdemocrazia europea si configurò come un vero tradimento ai danni della classe lavoratrice, e contribuì alle immani devastazioni del conflitto mostrando tutta la miopia e l’impreparazione ideologica di quelli che si ritenevano “partiti rivoluzionari”.
Il ricorso interessato alla categoria di “guerra nazionale” nella nuova situazione imperialista ne dimostrò peraltro l’incapacità analita e l’applicazione meccanica del marxismo, ben lontana dall’analisi della fase imperialista operata da Lenin. Similmente ragiona oggi parte del “movimento comunista” italiano e occidentale, soprattutto l’area che si accoda al KKE greco, nel denunciare l’attuale scontro tra multipolarismo e unipolarismo come lotta tra “opposti imperialismi”: l’incapacità d’analisi e il dogmatismo imbelle obbligano a usare categorie del passato per far riferimento a nuovi fenomeni, i quali richiederebbero riflessioni teoriche ben più serie rispetto di un anti-dialettico “ipse dixit” che ignora il contesto e i movimenti storici intercorsi.
Davanti a una popolazione stremata da lutti, privazioni e devastazioni, davanti ai grandi affari dei profittatori e dei borsaneristi, davanti all’inettitudine di buona parte dell’alto comando zarista, Vladimir Lenin portò avanti le uniche parole d’ordine che avrebbero permesso di conquistare l’appoggio delle masse, di rafforzare il partito e porre fine a uno spargimento di sangue ad uso e consumo degli interessi dei capitalisti e che rischiava di travolgere tutto il paese: “Pace, pane, terra”.
Il governo provvisorio di Kerenskij, salito al potere dopo i rivolgimenti della Rivoluzione di Febbraio, era invece fermamente intenzionato a proseguire le ostilità, propagandando la “difesa della patria” come “compito rivoluzionario”. Ma cosa significava concretamente la “difesa della patria” promossa nel 1917 dal governo provvisorio? Significava la difesa degli interessi dell’alta borghesia russa, comodamente passata, almeno all’apparenza, sotto le insegne “repubblicane”, ma significava soprattutto difesa degli interessi della borghesia anglo-francese, che in Russia da decenni aveva investito ingenti somme di capitali, arrivati al 1918 ad ammontare a 8 miliardi di dollari dell’epoca, ossia a più di 164 miliardi di dollari attuali[14]. Gli imperialisti di Londra e Parigi erano preoccupati che i propri investimenti sarebbero stati in pericolo in caso di fuoriuscita russa dal conflitto ed eccessivi sconvolgimenti politici. In palio non vi era la “difesa della patria”, ma la difesa delle miniere, dei pozzi petroliferi, delle foreste, degli impianti industriali controllati dal capitale anglo-francese, per la quale gli imperialisti e i loro lacchè locali erano più che disposti a sacrificare qualche centinaio di migliaia di contadini e operai russi.
La Rivoluzione d’Ottobre, rimuovendo dal potere gli agenti della borghesia, permise di agire per porre fine a un massacro che sarebbe costato la vita a più di tre milioni di grandi-russi. La pace di Brest-Litovsk, per quanto durissima nelle sue condizioni, si presentò come una ritirata necessaria a salvare la rivoluzione bolscevica, il potere sovietico e la stessa Russia. La prosecuzione delle ostilità in attesa di una salvifica “rivoluzione in Europa”, come proposto dall’allora Commissario del Popolo Trotsky attraverso la formula “né guerra, né pace”, avrebbe irrimediabilmente condannato la rivoluzione e si sarebbe risolta con la marcia su Mosca delle armate tedesche, alle quali si sarebbero potuti opporre solo pochi reparti disorganizzati e piagati dalle diserzioni di massa.
Attraverso l’accordo di Brest-Litovsk, Vladimir Lenin salvò la Russia, e dimostrò un patriottismo ben più concreto e lungimirante delle velleitaria “guerra rivoluzionaria” dei Socialisti Rivoluzionari di sinistra e di Trotsky. Ma ancora più fondamentale fu il ruolo giocato da Lenin nella salvezza della Russia nel periodo immediatamente successivo, quello del cosiddetto "intervento alleato”. Gli eserciti di quattordici nazioni[15] diedero l’assalto alla Russia sovietica non solo con l’obiettivo di abbattere il potere socialista e difendere i propri investimenti nel paese, ma di attuare una vera e propria spartizione simile a quella avvenuta in Cina. La riduzione della Russia in uno stato semi-coloniale era l’obiettivo strategico dei paesi capitalisti: la Siberia sarebbe andata ai giapponesi, il Baltico e l’Ucraina sarebbero entrati nella sfera di controllo tedesca, i francesi avrebbero ottenuto tutto il territorio tra Odessa e Donetsk, mentre gli inglesi si sarebbero appropriati del Caucaso.
La coalizione internazionale degli imperialisti aveva come principale strumento il “movimento bianco”, quell’insieme di generali e signori della guerra che, sempre in nome della “difesa della patria”, portavano avanti le proprie guerre personali al servizio del grande capitale, straniero e autoctono. Durante la guerra civile e l’intervento internazionale Vladimir Lenin guidò la Russia sovietica, invitando i suoi popoli, i suoi lavoratori, i suoi soldati a difendere “la patria socialista in pericolo”. L’Armata Rossa degli Operai e dei Contadini riuscì, dopo anni di durissimi combattimenti, a distruggere ogni armata reazionaria e a respingere ogni esercito invasore.
Se è giusto ricordare come la politica federativa dell’Unione Sovietica abbia contribuito alla creazione numerosi problemi a lungo termine, incrementando le spinte centrifughe e lasciando pericolosi spazi d’azione alle forze ultranazionaliste, è altrettanto doveroso affermare come senza Vladimir Lenin, senza la sua ferma e sapiente guida, la Russia avrebbe semplicemente smesso di esistere come entità nazionale, e sarebbe forse entrata in un suo particolare “Secolo dell’umiliazione”.
[1] K. Marx, F. Engels, Manifesto del Partito Comunista, Milano, Feltrinelli, 2017, p .31.
[2] B. Ziherl, Communism and Fatherland, Belgrado, Jugoslovenska Knjiga, 1949, p. 10.
[3] V. Lenin, Critical Remarks on the National Question, in Prosveshcheniye nn. 10,11, 12, ottobre-novembre 1913.
[4] V. Lenin, La rivoluzione socialista e il riconoscimento delle nazioni all’autodecisione, in C. Basile, I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 42.
[5] V. Lenin, Lettera a I. Armand, 30 novembre 1916.
[6] V. Lenin, Sull’orgoglio nazionale dei Grandi Russi, Sotsial-Demokrat n.. 35, 12 dicembre 1914
[7] G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 17.
[8] Comitato Centrale del KPD, Dichiarazione programmatica per la liberazione nazionale e sociale del popolo tedesco, Die Rote Fahne, 24 agosto 1930.
[9] G. Dimitrov, Rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista, in Dal Fronte Antifascista alla Democrazia Popolare, Roma, Edizioni Rinascita, 1950, p. 69.
[10] J. Stalin, Discorso al XIX Congresso del PCUS, in Verso il Comunismo, Roma, Edizioni di Cultura Sociale, 1952, p. 8.
[11] Xi Jinping, Discorso a un simposio con gli studenti dell’Università di Pechino, 2 maggio 2018.
[12] Xi Jinping, Discorso alla cerimonia commemorativa per il centenario del Movimento del 4 Maggio, 30 aprile 2019.
[13] V. Lenin, Attorno a una caricatura del marxismo, in I bolscevichi e la questione nazionale, Genova, Altergraf, 2017, p. 165.
[14] M. Sayers, E. A. Kahn, La grande congiura, Torino, Einaudi, 1949, p. 70.
[15] Inghilterra, Stati Uniti, Francia, Italia, Giappone, Grecia, Serbia, India, Australia, Polonia, Romania, Cecoslovacchia, Germania, Finlandia oltre che reparti cinesi e di varie colonie.