Lavoro e immigrazione: lo sfruttamento capitalistico nell'immanenza del presente

Lavoro e immigrazione: lo sfruttamento capitalistico nell'immanenza del presente

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di Giuseppe Giannini


In attesa di un autunno che si preannuncia più caldo del solito il dibattito sulle vicende nostrane si incentra su questioni che, anche se caratterizzanti ogni campagna elettorale, sono, quanto alla loro portata, drammaticamente reali. I temi principali riguardano la “regolazione” del lavoro e la gestione migranti. E chiamano in causa il governo attuale ma anche le scelte operate in precedenza, coinvolgendo quindi le istituzioni sovranazionali.

Soffermandoci sul lavoro, e ad un anno circa dall'insediamento del governo più a destra della storia repubblicana (in quanto la prima forza è quel Fratelli d'Italia erede della tradizione missina, ma cosa avrai poi di sociale questa destra?), un dato rimane tristemente immutabile: il lavoro è sempre meno regolato e di lavoro si continua a morire, come e più di prima.

C'è stata un'epoca in cui il conflitto era tra capitale e lavoro, da quando determinati eventi hanno indicato la via ecco che tale contesa, che vedeva le parti contrapposte battagliare per una contrattualizzazione di più e/o un welfare di meno, si è polverizzata. Possiamo indicativamente fissare un periodo storico, a partire del quale i mutamenti sono poi divenuti definitivi. All'inizio degli anni '80 l'avvento di un conservatorismo liberista, impersonificato da personaggi come Reagan o la Thatcher, e sponsorizzato da think tank, in primis i seguaci di Milton Friedman, sono stati tutti episodi propedeutici per i decenni a seguire. Dalla marcia dei 40.000 della Fiat alla sconfitta dei minatori inglesi; dalla deregolamentazione dei mercati alla finanziarizzazione dell'economia.

Il mondo del lavoro cosi come l'avevamo conosciuto sino al secolo scorso ha subito una deviazione, un'involuzione antropologica che lo reso ancor più merce rispetto a prima, disancorato però da quelle tutele, che chiamano in causa tanto le legislazioni quanto il ruolo conflittuale del sindacato oltre le categorie, che ne garantivano certezza, stabilità e sicurezza (durata dei contratti, retribuzioni e salubrità dei luoghi di lavoro). Le produzioni seriali con la catena di montaggio seppur alienanti e ripetitive, perchè legate alla concorrenza fra capitalismi nazionali, avevano almeno "il merito" di riuscire ad assicurare un salario dignitoso, che consentiva alla classe operaia ( che come movimento di massa non esiste più) quella illusione di far parte della società consumistica, potendo comprare tutti quei beni del progresso (dai nuovi elettrodomestici alle auto) una volta simboli della società borghese.Ma si è deciso di porre fine a quel compromesso tra il padronato e i rappresentanti dei lavoratori, finalizzato al perpetuarsi di un modello basato sulla crescita e i consumi.

Una campagna mediatica volta ad idolatrare l'individuo che si realizza, denigrando il ruolo dello Stato e limitandone un certo interventismo, a partire dagli anni'70 ai giorni nostri. L'internalizzazione e interconnessione delle economie, l'affidamento alla gestione privatistica delle imprese pubbliche e il venir meno dell'efficientismo (in termini di servizi) di interi settori (scuola, sanità, infrastrutture etc.). Tutto ciò, insieme alla scomparsa del soggetto antagonista – i tradizionali partiti “di sinistra”, un sindacalismo diffuso e di base,l'associazionismo e i movimenti sociali – ha avuto un impatto decisivo sul mondo del lavoro.

E allora, in assenza di un'alternativa credibile ed organizzata, diventa più facile immaginare la fine del mondo che quella del capitalismo.[1]

Da poco più di un quarto di secolo il lavoro è sempre meno stabile. Questo comporta

discontinuità di reddito, l'impossibilità di gestire il presente (affitto,spese...) ma anche di programmare un futuro (versamento dei contributi previdenziali, di mettere su famiglia).Le ripercussioni emotive, personali e sociali sono inevitabili.

E mentre vi sono più generazioni che subiscono l'aleatorietà del mondo del lavoro, c'è un'intera classe di privilegiati che continua a fare della rendita (economica,politica, giro d'affari e di influenze) il suo status normalizzato. In particolare, la classe partitica si pone, a seconda delle convenienze del momento, a difesa della salvaguardia di determinate categorie. La destra rappresentante degli interessi datoriali, ha trovato un'alleata in quella che fu una volta la cd. sinistra (il pd italiano, i socialisti francesi e tutte le maggiori forze a tradizione socialdemocratica), la quale ha totalmente rimosso il conflitto sociale.

Venendo ad impattare all'interno delle economie nazionali eventi globali - la crisi economico – finanziara, la pandemia, le guerre, il fenomeno migratorio e i mutamenti climatici -  tutti figli di quell'ideologia che si chiama capitalismo, non si tratta più di evidenziare le storture di un sistema che ciclicamente mostra le sue contraddizioni ( come direbbe Karl Marx) quanto piuttosto di dare delle risposte che siano credibili.

Invece, l'eterna lotta per il potere vede i governanti di turno impegnarsi per un'altra narrazione, in cerca di nemici e finte soluzioni, pur di celare i problemi strutturali di fondo.

In Italia il governo di destra-destra deve cercare di bilanciare alcune situazioni. Stanno dalla parte dell'impresa in senso lato, e dicono di voler tutelare un capitalismo italico, che è  per lo più arretrato e risente di mancanza di investimenti decennali in innovazione e ricerca. In più c'è la concorrenza globale dei giganti dell'economia, e dei colossi del web. Le soluzioni prospettate sono invece vecchie e guardano ad un mondo in via di estinzione (le piccole e medie imprese fino a quando riusciranno a reggere questa competizione selvaggia?). Pertanto, non basteranno cunei fiscali ed incentivi alle assunzioni (precarie), defiscalizzazioni o condoni. Di sicuro continueranno le delocalizzazioni e gli stati di crisi aziendale, cosi come il ricorso oltre misura a forme di collaborazione semigratuite e schiavistiche, che si chiamino stage, tirocini, alternanza scuola/lavoro o lavori in somministrazione, a progetto o mediante voucher.

La sostanza non cambia, in assenza di un disciplinamento serio di un mondo del lavoro preda del caos interessato (evidentemente a qualcuno – il capitalismo finanziario e i grossi magnati – conviene questa giungla) ogni finta soluzione non farà altro che ripercuotersi sulle esistenze dei meno abbienti, sulle relazioni e la socialità, ma anche sull'ambiente, la natura, i territori. E quindi da noi che si fa? Ritorna puntuale come ogni cambio di stagione l'attacco al cd. reddito di cittadinanza. Fermo restando che tale misura ha svolto più che altro la funzione di sussidio, sia pur condizionato e familistico, con tutta una serie di vincoli non rispondenti alle effettive esigenze del singolo, è pur  vero che essa è riuscita a far respirare milioni di persone in assenza di un lavoro dignitoso. E nonostante ciò, e a causa anche di eventi imprevedbili - il covid – e globalmente impattanti – il conflitto ucraino, l'aumento dei costi energetici e delle materie prime, dei tassi d'interessi da parte della BCE e dell'inflazione – il 10% circa della popolazione italiana vive in stato di povertà. Invece, la propaganda governativa parla di tasso di disoccupazione ai minimi dal 2009 (guarda caso data che corrisponde all'inizio degli effetti della crisi economica mondiale), di un aumento del pil, che non corrisponde necessariamente ad un miglioramento della qualità della vita in termini redistributivi della ricchezza, e di imprese disperate che non trovano lavoratori. A parte il  fatto che dati disaggregati danno un'idea diversa del reale, c'è un'altra parte del racconto che viene volutamente trascurata. Ed è quella che parla di lavoro povero, di sfruttamento ed irregolarità diffusa, specie nel settore turistico (dagli albergatori alla ristorazione) che tanto sta a cuore a quella classe politica trasversale e agli amministratori, che svendendo tutto un patrimonio artistico-culturale vogliono rendere il Bel Paese ancora più appetibile facendone un brand. E mentre tutta l'area UE risente delle crisi, c'è qualcuno che prova almeno a dare delle risposte in termini di welfare. Cosi la Germania, che pure sta subendo i costi energetici ed ambientali della guerra, e dell'inflazione, ha pensato bene di rafforzare le politiche pubbliche: dall'abbonamento a 49 euro al mese valido per tutti i trasporti, ad un reddito e servizi per gli stranieri.Sino all’aumento del reddito di cittadinanza agli oltre cinque milioni e mezzo di beneficiari, di cui 1,7 milioni disoccupati:563 euro; per qualsiasi fascia di età e a partire dai 357 euro spettanti ai minori di sei anni.E ancora l'aumento del salario minimo orario, esistente da tempo e che oggi è di 12 euro e per il personale sanitario salirà a 16 euro l’ora.

Infine una politica per rendere accessibile gli affitti.L'Italia non sarà la Germania, ma non può vantarsi di essere tra le grandi economie del mondo quando non si è in grado di dare risposte sociali e fare investimenti per le future generazioni.Le risposte di chi ha governato in questo quarto di secolo sono state quelle di un drastico ridimensionamento della spesa pubblica,per far quadrare i conti in nome della stabilità, con tagli a settori statali fondamentali (p.a., scuola, sanità, giustizia), privatizzazioni (trasporti, poste, settore energetico) ma alla fine nonostante i sacrifici scaricati sulle classi meno agiate e l'impoverimento della classe media, rimane un Paese caratterizzato da una desertificazione infrastrutturale e precarizzazione crescente, per non parlare del malaffare e di un certo burocratismo che tiene le mani legate.E invece si continua a fare dell'indigenza o della mancana di possibilità una colpa. La povertà ancora una volta viene intesa come responsabilità individuale, frutto di scelte di vita e percorsi sbagliati, dovuta al fatto di non essere produttivi per un sistema, che si basa sull'estrazione di valore.Una colpa da espiare per chi rifiuta la competizione all'interno del mercato capitalistico. Questo mentre ci ritroviamo i parlamentari più pagati d'Europa, con rimborsi spese che rasentano l'assurdo (1200 euro annui per quelle telefoniche, quando oramai da tempo ogni operatore offre minuti illimitati ai suoi utenti.) Un governo che taglia i fondi per il riassetto idrogeologico, e diminuisce quelli per la sanità, mentre aumentano quelle miltari, gli stipendi dei manager e si sdoganano condoni ed agevolazioni per furbetti e ricchi. Una premier famosa per i video contro le accise, vittima della sua stessa prosopopea.Il Sud come meta per il turismo ma privo di infrastrutture e sottofinanziato dai fondi del PNRR e dall'autonomia differenziata.Eppure qualche risposta il reddito di cittadinanza all'italiana l'ha data: 350000 persone hanno trovato un lavoro, nonostante la clausura forzata della pandemia e centri per l’impiego incapaci di offire lavoro.E in più con l'obbligo di dover spendere, a causa della tracciabilità del sussidio, almeno vi è stato un impatto sull'economia reale.

Quindi la realtà è molto più sfaccettata e reclama risposte idonee, che non siano il ricatto costante, lo sfruttamento e l'accettazione di un lavoro qualunque.

C'è una classe di ricchi e super ricchi che basa il proprio prestigio sulle diseguaglianze crescenti, e che da almeno un trentennio si serve della politica per riequilibrare i centri di potere.

E' ora che qualcuno metta fine a tale strapotere.

 

 

[1]Mark Fisher – Realismo capitalista - 2009

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