La Repubblica fondata sulla impunità di servizi segreti e apparati repressivi

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La Repubblica fondata sulla impunità di servizi segreti e apparati repressivi

 

di Federico Giusti

In teoria non sarebbero ammesse amnesie od omissioni, la storia degli ultimi decenni ha palesato un potere diffuso e radicato capace di sopravvivere a cambiamenti epocali, per dirne uno quello tra fascismo e democrazia.

I gestori degli apparati di un tempo per decenni li abbiamo ritrovati ai loro posti e oggi in Italia dobbiamo ancora fare i conti non solo con il fascismo e la sua presenza negli apparati di sicurezza all’indomani del 1945 ma anche con quel sistema di intelligence, ufficiale e no, che accompagna la nostra storia recente e passata.

Nelle ultime settimane sono uscite notizie preoccupanti di infiltrazioni delle forze dell’ordine in organizzazioni politiche e studentesche, di spionaggio ai danni di decine di persone tra attivisti e giornalisti attraverso il software  Graphite fornito dalla società Paragon, ( Paragon, cos'è lo spyware Graphite e come funziona il software che spia telefoni e chat WhatsApp) con cui sono stati spiati telefonini e conversazioni whatsapp. E invece di portare alla luce questi fatti evidenziando responsabilità e abusi di potere è scattata una sorta di caccia alle streghe nei confronti delle vittime con tanto di solidarietà a priori verso le forze dell’ordine. Il copione è sempre lo stesso ossia il rovesciamento della realtà, la preventiva campagna repressiva e mediatica per non fare i conti con una realtà scomoda.

Perché lo spionaggio illegale era prassi consolidata tra gli apparati dello Stato i cui uomini passano dalla servitù al fascismo al giuramento di fedeltà alla Repubblica. E il ruolo della Nato, fin dai primi anni Cinquanta del secolo scorso, è stato dirimente per traghettare uomini e pratiche dal totalitarismo alla democrazia.

Ben pochi ricorderanno del Sifar (il servizio segreto militare) che tra il 1955 al 1962 producesse decine di migliaia di fascicoli (quasi 160 mila) su cittadini italiani ritenuti una minaccia, ci vollero anni perché una Commissione parlamentare di inchiesta appurasse la illegalità di quanto avvenuto. Ma allora, come oggi, i colpevoli di certe azioni non vennero perseguiti se non in casi meramente eccezionali ossia quando l’evidenza dei fatti era tale da sconsigliare l’insabbiamento.

 E intanto continuiamo a leggere di dossier abilmente raccolti per favorire una cordata politica invece di un’altra, una Repubblica fondata sul dossieraggio con troppe zone di ombra.

 E certi dossier, se abilmente utilizzati, hanno favorito o all’occorrenza affossato decine di carriere, politiche e no, l’uso di questa pratica è servita anche per regolamenti di conti e per condizionare le scelte dirimenti per il nostro paese. Senza dietrologie o complottismi sarebbe giunto il momento di fare i conti con la storia passata e recente prima di esserne travolti e non assumere posizioni precostituite come la solidarietà a priori alle forze dell’ordine che suona come una sorta di impunità penale.

La Corte di cassazione ha contestato apertamente il decreto sicurezza con ragioni che avrebbe potuto addurre la Presidenza della Repubblica per non firmarlo: uso eccessivo del diritto penale, anticipazione della soglia di punibilità, dubbi di costituzionalità e contrasti con il diritto europeo.

Relazione-massimario-cassazione-DECRETO-SICUREZZA-2025.pdf

E prima ancora le prese di posizioni contro questo Decreto erano state tanto numerose quanto autorevoli, dall’Ocse all’Onu fino a tante associazioni di giuristi e penalisti, davanti a nutrite e documentate obiezioni il Governo è andato avanti imperterrito e senza esitazione alcuna parlando di volere tutelare le forze dell’ordine e la sicurezza dei cittadini. Ed è sul doppio registro utilizzato dal decreto che si sofferma la Corte, a tal riguardo è opportuno leggere un passaggio esplicativo del documento non prima di avere ricordato che il cosiddetto rispetto per la divisa dovrebbe escludere a priori ogni forma di connivenza e anche di tacita accettazione verso gli abusi ai danni dei cittadini.

La reciprocità del rispetto dovrebbe essere un valore aggiunto dentro una società democratica

La previsione aggravatrice in parola mira a garantire – secondo la Relazione illustrativa – una particolare “tutela dell’attività espletata dagli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, al fine di garantire, di conseguenza, un più efficace dispiegamento dei servizi di ordine e sicurezza pubblica”213: l’obiettivo viene perseguito ritagliando, all’interno della categoria generale dei pubblici ufficiali e degli incaricati di un pubblico servizio, un sottoinsieme più ristretto214 – costituito, appunto, dagli ufficiali o agenti di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza – rispetto al quale la medesima condotta lesiva acquisisce un più accentuato disvalore, meritevole, in astratto, di più intensa risposta punitiva215.

In particolare, si precisa nella Relazione illustrativa che i delitti in argomento hanno carattere plurioffensivo, posto che da un lato tutelano il pubblico ufficiale che subisce l'offesa e, dall’altro, il prestigio dell'amministrazione d’appartenenza e il regolare esercizio della pubblica funzione svolta in concreto dal pubblico ufficiale. In tale prospettiva, la disposizione assicura una particolare tutela in favore del personale delle forze dell’ordine nell’esercizio delle proprie funzioni216. Tuttavia, non può escludersi la violazione dell’art. 3 Cost. dal momento che la disposizione in commento reca con sé astrattamente il pericolo di una disparità di trattamento che non appare giustificata da un’oggettiva esigenza di differenziazione, né dagli interessi oggetto di tutela desumibili dalla norma stessa e dalla sua ratio. Ciò appare rilevabile con riferimento all’aggravante di cui all’art. 337, comma terzo, cod. pen. che finisce per differenziare la condotta di colui che, usando violenza o minaccia, si oppone ad un atto dell’ufficio di un ufficiale/agente di polizia giudiziaria o di pubblica sicurezza, da quella di colui che realizza la medesima condotta nei confronti di altri pubblici ufficiali benché tale nozione, secondo la definizione data dall’art. 357 cod. pen., sia molto ampia, ricomprendendo tutti coloro che esercitano altra pubblica funzione legislativa, giudiziaria o amministrativa.

In tal modo, nel tentativo dichiarato di tutelare il personale delle Forze di Polizia, si creerebbe una disparità di trattamento non corrispondente ad un’effettiva maggiore o minore offensività della condotta posta in essere dall’autore del reato.

Per essere espliciti questa relazione della Cassazione arriva al momento giusto perché Lega e Fdi stanno lavorando all’ennesimo intervento legislativo finalizzato a istituire una sorta di “scudo” per le indagini che riguardano le forze dell’ordine.  In attesa di conoscere i testi, dalle prime mancipazioni a mezzo stampa, si apprende (vedi Il Fatto Quotidiano) che la finalità sarebbe quella “di evitare l’iscrizione nel registro degli indagati per le forze dell’ordine (ma non solo) che commettono reati nell’esercizio delle proprie funzioni o legittima difesa”, un semplice articolo a modificare l’articolo 335 del codice di procedura penale sulle modalità di iscrizione del registro degli indagati da parte del pubblico ministero perché lo stesso non iscriva nel registro degli indagati l’autore del reato. E anche in questi casi l’utilizzo sapiente dei fatti di cronaca, utilizza i sentimenti dell’opinione pubblica per interventi legislativi che poi la stessa un domani potrebbe subire sulla propria pelle senza avere contezza di essere stata manipolata dalle logiche securitarie sempre attuali e diffuse a prescindere dalle maggioranze di Governo esistenti.

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