Il welfare aziendale non compenserà la distruzione dello stato sociale
Il welfare aziendale non è lo stato sociale da difendere e resta funzionale ad obiettivi ben poco solidaristici
di Federico Giusti
Si insinua nel variegato mondo sindacale una suggestione assai pericolosa: sostituire buona parte del welfare universale con prestazioni concordate a livello aziendale, del resto è stata proprio la contrattazione nazionale di categoria l’ambito in cui far muovere i primi passi a previdenza complementare e assistenza sanitaria integrativa con tanto di finanziamento dei fondi di settore a mero discapito di aumenti retributivi dignitosi.
In altre occasioni siamo stati espliciti nel denunciare questo scambio vergognoso che nei fatti si è tradotto nella rinuncia a costruire una seria e duratura opposizione all’innalzamento dell’età pensionabile e alla erosione del potere di acquisto di salari e assegni previdenziali, queste posizioni arrendevoli, non imputabili alla sola Cisl ma anche e soprattutto a Uil e Cgil, si sono presto rilevate perdenti
In quasi un terzo dei CCNL rinnovati il ricorso al welfare aziendale è stato un elemento comune insieme al potenziamento della contrattazione di secondo livello che beneficia di sgravi fiscali ma anche di pericolose merci di scambio come le deroghe ai contratti nazionali su materie quali orari, precariato e carichi di lavoro.
E in tutte le occasioni è stato detto dai sindacati firmatari che stavano salvaguardando il potere d’acquisto dei lavoratori vergognandosi forse del fatto che queste scelte erano dettate soprattutto da ben altri fini come le agevolazioni fiscali o per incrementare la produttività quasi a costo zero. Fatto sta che nell’arco di pochi anni non c’è contratto che non preveda espliciti parti dedicate al welfare aziendale e ogni CCNL prevede « per ogni dipendente, una quota da spendere liberamente in prestazioni previste dalla normativa sul welfare aziendale e in fringe benefit»
Senza margine di dubbio mentre i salari perdevano potere di acquisto, mentre il welfare universale palesava limiti strutturali e carenza di fondi per adeguate coperture di tutti i soggetti sociali bisognosi, il sindacato rinunciava a una battaglia reale a difesa dello stato sociale per dedicarsi al welfare aziendale. E non c’è traccia di alcuna autocritica da parte della Cgil che si rivendica questo percorso proprio in nome della salvaguardia dei livelli salariali.
E nell’arco di pochi anni la materia del welfare riguarda ormai il 60 per cento delle intese siglate adducendo la motivazione dell’equilibrio tra vita privata e lavorativa e accrescimento dei servizi a disposizione della forza lavoro. Ma ironia della sorte la sanità integrativa è lo strumento migliore per ridimensionare e privatizzare progressivamente il Servizio Sanitario Nazionale, basta esserne consapevoli e ammetterlo nelle assemblee sui luoghi di lavoro, incluso quelle referendarie.
Senza essere manichei dovremmo sciogliere il nodo di fondo ossia se compito del sindacato sia quello di tutelare previdenza e sanità integrativa diventandone fautore e beneficiario anche in termini economici o se invece sia preferibile salvaguardare previdenza e sanità pubbliche prima della loro definitiva distruzione.
Anche ammettendo la bontà del welfare aziendale dovrebbe essere una misura non sostitutiva di quello universale ma oggetto della contrattazione di settore senza sostituirsi per altro alla elargizione di aumenti stipendiali.
E un sindacato credibile dovrebbe fare due conti sulla effettiva convenienza per i lavoratori del welfare aziendale ma non prima di avere calcolato il reale costo a carico della parte datoriale che beneficia di sgravi e aiuti fiscali di vario genere e su alcuni benefit potrebbe trarre ulteriore profitto
E sempre un sindacato trasparente dovrebbe aprire un confronto reale sulle misure di welfare che poi cambiano da settore a settore e spesso da azienda ad azienda o perfino in base ai territori, questa molteplicità di scelte indurrebbe a qualche riflessione.
I dati ufficiali parlano di una diffusa “welfarizzazione” del premio, più o meno pari all’85% dei casi in cui siano stati siglati degli accordi con la parte aziendale intenta ad agevolare direttamente questi processi e, per indurre il sindacato a supina accettazione, propone anche quote aggiuntive di premio da erogarsi sotto forma di beni e servizi previa esplicita accettazione di trasformare il premio in welfare aziendale.
La conversione dei premi di risultato in welfare non ha ancora una logica unificante ma è un fenomeno in via di diffusione per volontà aziendale e porta acqua ai processi di che erodono il potere contrattuale, non è ancora un fenomeno uniforme ma resta condizionato da diversi fattori, come il settore di appartenenza, la dimensione dell’impresa, la tipologia della stessa, se è una multinazionale ad esempio oppure no. E la possibilità di costruire dei piani personalizzati di welfare aziendale è dietro l’angolo come il baratto tra aumenti stipendiali e buoni acquisto da spendere nel privato.
In questi anni abbiamo visto la progressiva trasformazione del welfare aziendale in una retribuzione fiscalmente agevolata ricordando che i cosiddetti fringe benefits non necessitano di accordo per essere erogati e all’occorrenza potrebbero essere distribuiti in termini discrezionale. E il pericolo è sentito come tale anche dai sindacati rappresentativi inclini a limitare il welfare solo a una gamma di prestazioni che poi saranno debitamente indirizzate dalla contrattazione sindacale e dalla volontà datoriale.
Siamo certi che di welfare aziendale continueremo a parlarne ancora a lungo, sarebbe intanto auspicabile un po’ di chiarezza se non vogliamo ridurre lo strumento sindacale a longa mano dei processi di defiscalizzazione.