Il “sogno” di Netanyahu e la sveglia ipersonica iraniana

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Il “sogno” di Netanyahu e la sveglia ipersonica iraniana

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di Eusebio Filopatro 

 

Una “benedizione” di sangue

Il discorso di Netanyahu all’ONU era pensato come una proclamazione trionfale. Preceduto dalle esplosioni dei cercapersone e dei telefoni, dai massicci bombardamenti che già avevano decimato la leadership di Hezbollah. Subito seguito dall’uccisione di Hassan Nasrallah. Doveva segnare una svolta dopo l’inconcludente campagna di Gaza e la disfatta diplomatica e d’opinione pubblica sofferta da Israele su scala mondiale.

Poco importa che, le esplosioni degli strumenti elettronici siano di fatto una forma di terrorismo, come ricordato tra gli altri da Edward Snowden. Hanno portato degli automobilisti a perdere il controllo in mezzo al traffico: hanno fatto esplodere gli occhi a bambini che si trovavano in fila al dietro membri di Hezbollah. D’altra parte, i bombardamenti sul Libano hanno sì assassinato dei capi, ma sgretolando interi edifici e uccidendo un migliaio di civili in due settimane. Un milione di libanesi – un quinto della popolazione del Paese dei Cedri – cerca disperatamente riparo: chi in spiaggia, chi per strada. Nasrallah, poi, è stato forse individuato fingendo di proporre una tregua, che aveva addirittura accettato. Insomma anche questo “successo” d’intelligence e di terrorismo di stato si inserisce nella lunga catena di inganni e tradimenti, di distorsione della diplomazia a fini militari, che ha permesso ad Israele di restare a galla in decenni di guerre di consolidamento e d’espansione. Ma fa niente.

Per Netanyahu le vite, le leggi, e la morale sono disinvoltamente sacrificabili sull’altare del “Nuovo Medio Oriente”. Cioè della normalizzazione dei rapporti tra Israele e vicini arabi sunniti, della liquidazione dell’ “Asse della Resistenza”: Hezbollah in Libano, Ansar Allah/Houthi in Yemen, Kata'ib Hezbollah ed altre milizie in Iraq, assieme a numerosi altri gruppi e milizie. A seguire, la messa all’angolo di Siria e Iran. Infine, il cambio di regime, favorito presumibilmente da un vigoroso colpo di grazia militare. In questa ottica, l’operazione per eliminare Nasrallah è stata battezzata “Nuovo Ordine”, con scarso rispetto della storia e dell’ironia. Proprio come il Neue Ordnung hitleriano, il progetto è apparentemente semplice ed efficace: ribaltare un ordine mondiale o, in questo caso, regionale, instaurare una ferrea gerarchia tra popoli e regimi, tramite l’uso sconfinato della violenza. Che Netanyahu guardi già con ottimismo agli obiettivi ultimi e indiretti è esplicitamente dimostrato dall’audace promessa che “gli iraniani saranno liberi prima di quanto si creda”.

 

Dopo un anno di vani tentativi di riportare a casa gli ostaggi e sradicare Hamas, mentre il mondo si indigna per l’osceno genocidio della popolazione di Gaza, questa aspirante Blitzkrieg contro Hezbollah e l’Iran ha permesso ai circuiti politici e propagandistici sionisti di rialzare la testa. Il più chiaro è stato il genero del passato – e futuro? – presidente USA. Jared Kushner, uno dei principali “padrini” del Patto di Abramo che ha riavvicinato Israele ad alcuni paesi arabi, Kushner ha esortato con rara chiarezza USA ed Israele ad “andare fino in fondo”. L’idea è che ora Hezbollah e Iran sarebbero più deboli che mai: anziché parlare di tregue, di protezione dei civili, o altre amenità, Israele dovrebbe sfruttare l’occasione per assestare il colpo di grazia a Hezbollah, ridisegnare la politica libanese, denudare l’impotenza dell’Iran davanti a tutti i suoi nemici nella regione, quindi trascinare il regime degli ayatollah al collasso. Il post di Kushner su X va letto per intero: è imprescindibile per la sua chiarezza nell’ostentare il disegno di lungo termine che combina gli Accordi di Abramo con la “licenza di uccidere” senza limiti accordata ad Israele. Tuttavia, Kushner si limita a rilanciare con qualche aggiustamento il programma di egemonia regionale seguito fin dagli albori dalla classe dirigente dello Stato Ebraico. In un altro articolo per l’Antidiplomatico (“Sionismo e Antistoria”) ho già ripreso il seguente passo, tutt’altro che eccezionale, dai diari di David Ben Gurion:

“Il tallone d'Achille della coalizione araba è il Libano. La supremazia musulmana in questo Paese è artificiale e può essere facilmente rovesciata. Dovrebbe sorgere uno Stato cristiano, con la sua frontiera meridionale sul fiume Litani. Firmeremmo un trattato di alleanza con questo Stato. Poi, quando avremo spezzato la forza della Legione Araba e bombardato Amman, potremmo spazzare via la Transgiordania; dopo di che, la Siria cadrebbe. E se l'Egitto osasse ancora farci guerra, bombarderemmo Port Said, Alessandria e il Cairo. In questo modo avremmo posto fine alla guerra e avremmo regolato i conti con l'Egitto, l'Assiria e la Caldea a nome dei nostri antenati”

 

L’(in)influenza degli USA

I commentatori filosionisti che dominano la narrazione nei paesi occidentali non sfoggiano spesso l’impudenza di Netanyahu all’ONU, la limpidezza di Kushner su X, o la strategia visionaria di Ben Gurion. Ma in un modo o nell’altro, puntellano la medesima narrazione, e il progetto molto reale che questa a sua volta sostiene. Ed ecco spiegate le invocazioni di “moderazione” e le “ricerche di soluzioni diplomatiche”. Dopo un anno (sarebbe più rigoroso scrivere: dopo un secolo) è palese che sono per lo più strumentali o di facciata. Buone per tracciare i nemici, come nel caso di Nasrallah. Del resto, già nel 2010 Netanyahu affermava pubblicamente: “Gli USA sono un oggetto molto facile da spostare”. E solo un anno dopo, da leader di una nazione straniera in visita al Congresso USA, riceveva 29 standing ovations, ovvero quattro in più del Presidente in carica, Barack Obama, durante il suo solenne discorso sullo “Stato dell’Unione”! Ancora nel 2015 la BBC contavò 27 ovazioni per un discorso di 47 minuti: insomma i politici americani trovarono a malapena il tempo di sedersi. Più sistematicamente, nel 2007, John J. Mearsheimer e Stephen Walt, due tra i massimi studiosi di politica estera americani, avevano mostrato in un libro come la lobby sionista condizionasse la politica estera americana, contro gli interessi degli stessi USA.

Difatti Biden e Trump sono oggi in gara per chi si mostra “più sionista di Israele”. Nel dibattito televisivo, Trump ha rinfacciato a Biden di “parlare come un palestinese”. Se si pensa che l’amministrazione Biden ha riempito Israele di armi e l’ha coperto diplomaticamente mentre sterminava le donne e i bambini di Gaza trascinando la regione sull’orlo di una guerra totale, il fatto che Biden possa essere “accusato” davanti all’elettorato americano di non fare abbastanza per Israele la dice davvero lunga. In questo contesto la “rivelazione” di Politico per cui gli USA avrebbero discretamente approvato l’escalation operata da Israele in Libano è di fatto una non-notizia. E anche la più recente mancanza di approvazione al disegno israeliano di colpire l’infrastruttura energetica in territorio iraniano è solo l’ennesimo goffo tentativo di preservare una facciata. Ormai si tratta di una vuota pantomima alla quale non credono nemmeno gli americani stessi. L’opinionista di Al Jazeera Andrew Mitrovica ha definito gli appelli alla pace da parte occidentale “una cinica sceneggiata”. E pochi giorni fa il Ministro degli Esteri turco Hakan Fidan concluso che “l’intero potere dello stato americano è stato trasformato in una struttura al servizio di Israele”.

Poiché il progetto sionista e la completa acquiescenza americana sono chiari oltre ogni ragionevole dubbio, vale la pena interrogarsi piuttosto su altri due punti. La prima: si tratta di un programma realistico? La seconda: quali sono i rischi di una sua attuazione?

 

Le possibilità

Alla prima domanda va francamente risposto che il progetto di dominio israeliano non è completamente campato in aria. Guardando alla storia mediorientale dell’ultimo secolo, agli equilibri di forza, agli eventi delle ultime settimane eccetera, non sembra assolutamente impossibile che Israele sconfigga Hezbollah, e poi metta in ginocchio l’Iran. Israele non ha bisogno di arrivare fino in fondo a questa strada, evidentemente molto in salita. Basterebbe che, lungo il cammino, qualche stato arabo e qualche fazione, impressionata dai successi d’intelligence e militari, si convincesse a sbarazzarsi d’ogni remora e approfittasse della situazione per schiacciare gli sciiti. Ovviamente, la speranza principale di Israele e degli USA è che si tratti dell’Arabia Saudita. Oppure basterebbe una guerra regionale che coinvolgesse gli USA. Anche questo sarebbe un mezzo come un altro, per Netanyahu.

Dopo aver ammesso che si tratta di uno scenario teoricamente possibile, va anche precisato che è estremamente improbabile, di fatto quasi fantastico. Quanto ai ravvicinamenti diplomatici, molti, inclusi i più antichi, sono superficiali e “di vertice”. Il presidente egiziano Sadat fu assassinato proprio per aver riconosciuto Israele, contro la volontà del suo popolo e del suo governo. Muhammad Ibrahim Kamel, il suo Ministro degli Esteri, non solo si dimise per non firmare gli accordi di Camp David, ma in un’intervista del 1984 con Mark A. Bruzonsky li considera la fine personale e politica di Sadat, oltre che un completo fallimento, la svendita di una vera pace in cambio di un compromesso tattico. La Giordania dominata dalla dinastia Hashemita, e di fatto alleata di Israele, ha sventato solo nel 2021 un colpo di stato. Sondaggi dell’Università di Giordania rilanciati dall’Atlantic Council, quindi non sospettabili di tendenze antiisraeliane, rilevano come il 66% della popolazione – per circa metà di discendenza palestinese – veda con favore l’assalto di Hamas del 7 ottobre. Insomma, Israele potrebbe sì guadagnare sponde, ma anche fronteggiare inaspettati e seri problemi ai propri confini in caso di cedimento di qualche regime amico. Né la posizione dell’Egitto né quella della Giordania sono scontate, le relazioni con la Turchia peggiorano, e dopo il genocidio di Gaza il monarca saudita Mohammad bin Salman potrebbe temere che firmare un accordo con Israele equivalga sostanzialmente ad appoggiare il collo sulla ghigliottina.

Quanto alla partita con Hezbollah, la quasi totalità degli esperti confuta l’idea che i colpi messi a segno siano dei game changers. Certo, il leader sciita libanese è stato appena schiacciato da tonnellate di bombe. Già nel 1992 però il suo predecessore, Abbas al-Musawi, era stato ucciso da missili israeliani. Nei suoi primi discorsi pubblici, Nasrallah si era subito detto pronto a morire nello stesso modo, e sorprende più che altro che ci siano voluti 32 anni, e un finto negoziato di pace. Quando Nasrallah proclamò la vittoria contro Israele, il 22 settembre del 2006, sottolineò che, come il suo pubblico di centinaia di migliaia, non temeva la possibilità di essere bombardato, e che i missili in possesso di Hezbollah erano molto aumentati rispetto all’inizio della guerra nella quale Israele si proponeva di disarmarli.

Né Hezbollah né Hamas né le altre organizzazioni dell’”Asse della Resistenza” sono fondate su personalità individuali. In questi giorni molti giornali propongono un bizzarro “indovina-chi”, in cui cercano di convincere che dei personaggi sconosciuti fossero il fattore principale dei conflitti del Medio Oriente. Addirittura in questi giorni si parla dell’uccisione di Aziz Salha, protagonista del linciaggio di due militari israeliani, come se fosse un grande evento. Insomma siamo di fronte alla solita personalizzazione delle notizie, che trascura o fraintende deliberatamente le questioni ideologiche e strutturali. Tutto ciò ricorda un po’ i mazzi di carte con i ricercati del circolo di potere di Saddam Hussein: vent’anni dopo averli distribuiti, gli USA ricevono dal parlamento iracheno insistenti richieste di lasciare il paese, e il Middle East Council on Global Affairs suggerisce che iracheni e iraniani stiano passando “da nemici a alleati”.

Al di là di nomi e volti, oggi Hezbollah dichiara 50 000 miliziani (molti dei quali con esperienza nel teatro siriano), 50 000 riservisti, e 200 000 missili di vario tipo. Anche fossero la metà, si tratterebbe comunque di una forza più che considerevole, specialmente tenendo conto che Israele combatte, per sua stessa ammissione, su sei altri fronti.

Prima di pensare a un confronto diretto con l’Iran, Netanyahu farebbe bene a chiudere i conti con almeno uno dei suoi “intermediari” o proxy, fosse anche solo Hamas. A quel punto si aprirebbe la questione di come sostenere una “rivoluzione colorata”: ovvero con o senza la spinta di un conflitto aperto. Al momento, il confronto militare è sempre più probabile. Ma se così fosse, le leadership israeliane e americane farebbero bene a ricordarsi della Millenium Challenge 2002, una costosissima e sofisticatissima simulazione svoltasi al Pentagono. Lo scontro virtuale tra i “Blu” (gli Stati Uniti) e i “Rossi” (un nemico molto simile agli iraniani), sarebbe stato sorprendentemente vinto da questi ultimi, se i vertici militari non avessero rimediato “aggiustando” i parametri del gioco. Infatti, le milizie iraniane hanno studiato tecniche di guerriglia che simulano le strategie impiegate da piccoli animali per sopraffare avversari molto più grandi. Inoltre, hanno pianificato una resistenza da parte di gruppi autonomi, dispiegabile anche in caso di decapitazione della leadership e di interruzione delle linee di comunicazione. Negli anni recenti, la Repubblica Islamica ha poi sviluppato missili ipersonici, come i Fattah-2 che hanno appena perforato senza difficoltà le difese di Israele. Minacciando un’ulteriore, devastante rappresaglia in caso di risposta israeliana, il generale Aziz Nasirzadeh ha inoltre dichiarato che l’Iran disporrebbe di missili ancora più avanzati.

E se questi sono i colpi che possono raggiungere Israele da una distanza di più di 1700 km, è facile immaginare cosa succederebbe se Hezbollah od altre milizie dell’”Asse della Resistenza” impiegassero le stesse armi dai confini di Israele. In effetti, Hezbollah, al contrario di Hamas, può rifornirsi abbastanza liberamente dalla Siria, ed è del tutto probabile che qualcuno dei più sofisticati missili iraniani sia già nei suoi arsenali.

Ho sottolineato in passato le ripercussioni economiche che un attacco all’Iran potrebbe infliggere più o meno direttamente, giacché dallo Stretto di Hormuz transita il 30% del petrolio mondiale. Alberto Bradanini ha offerto da queste pagine una prospettiva molto più dettagliata in merito. Non va nemmeno dimenticato che la forza diplomatica dell’Iran e invero dell’intero “Asse della Resistenza” non è calante, come vorrebbe una certa narrazione, ma crescente. Se Erdogan ha aperto da mesi ad un dialogo con Assad, il quale è anche stato riaccolto nella Lega Araba, l’Iran ha fatto il suo ingresso nei BRICS e ripristinato le relazioni con l’Arabia Saudita, grazie anche alla mediazione cinese.

Oltre a Pechino, sembra che siano soprattutto i russi a scommettere su Teheran. Nonostante la situazione regionale sempre più incandescente, Putin ha proposto di firmare un Partenariato Strategico Comprensivo con l’Iran al vertice BRICS che si aprirà a Kazan il prossimo 22 ottobre, e nei giorni scorsi Teheran ha ricevuto visite non solo da Sergei Shoigu, ex Ministro della Difesa ed attuale Segretario del Consiglio di Sicurezza, ma persino dal Primo Ministro Mikhail Mishustin. Effettivamente, la portavoce del Ministro degli Esteri russo Maria Zakharova ha dichiarato che la cooperazione con l’Iran ha raggiunto i massimi storici. Il fatto che Cina e Russia sembrino così pronte a scommettere sugli ayatollah non solo depone a favore della loro solidità, ma suggerisce che l’Iran possa presto consolidare i progressi tecnologici-militari e migliorare anche in altre sfere, quali quelle cruciali dello spionaggio e del controspionaggio.

Certo l’esercito israeliano rimane nettamente superiore a quello iraniano, come sottolineato dallo stesso Bradanini. Anche questo predominio andrebbe però sfumato. Se è innegabile la superiorità tecnologica, d’aviazione e d’intelligence, è anche vero che l’Iran dispone di uomini, mezzi, e risorse energetiche nettamente maggiori, oltre ad essere più avanzato nei campi missilistico e della guerriglia. Per quel che vale, il Global Firepower Index colloca l’Iran qualche posizione più avanti di Israele nell’elenco delle armate più potenti del 2024.

C’è poi il fatto che le guerre non le vince necessariamente l’esercito più forte. Sì, avete letto bene, le guerre non le vince sempre l’esercito più forte. Dimostrare questo apparente paradosso è molto semplice se si attinge alla storia. Pochi contesterebbero la superiorità astratta della macchina bellica statunitense rispetto ai VietCong, ma la resistenza, la capacità di sopportare perdite, la vicinanze ad alleati disposti a sostenere e rifornire, la competenza nella guerriglia, il fatto di combattere in casa, e i giudizi dell’opinione pubblica contribuirono, assieme ad altri fattori, alla sconfitta americana in Vietnam.

Ancora più lampante è l’esempio dei nazisti. Lo storico bellico Max Hastings ha dimostrato in maniera convincente come la Wermacht fosse di fatto l’esercito “più forte” sul campo della Seconda Guerra Mondiale. Persino in condizioni di inferiorità numerica, nota Hastings, il rapporto tra caduti ed uccisi premia le armate naziste in rapporto a tutti gli Alleati. Eppure, com’è noto, l’Asse ha perso rovinosamente il conflitto. Disporre della migliore macchina bellica, infatti, non basta se (1) si aprono troppi fronti (Hitler si lanciò contro l’URSS prima ancora di aver piegato l’Inghilterra) (2) non si dispone di risorse sufficienti a combattere a lungo termine (i nazisti mancarono di poco le riserve petrolifere del Caucaso), (3) ci si trova in schiacciante inferiorità numerica e (4) il nemico è capace di assorbire perdite ben maggiori. A questi fattori va aggiunta (5) la debolezza diplomatica ed ideologica di chi sostiene un’ideologia razzista e suprematista e (6) il problema della guerra partigiana e di guerriglia che non si riesce a spegnere nei territori “conquistati”, in parte a causa della stessa ideologia di dominio e del disprezzo del diritto e della morale, in parte a causa delle motivazioni degli avversari.

Il lettore può interrogarsi a piacimento sull’applicabilità di questi fattori nel contesto del Medio Oriente attuale. Sta di fatto che non è assurdo dubitare che le armi atomiche e l’esercito più forte della regione bastino ad Israele per vincere un conflitto di larga scala.

Insomma, le capacità militari, diplomatiche, ed ibride di Teheran mettono in discussione la narrazione di “fragilità” promossa da Israele, e quindi dai media occidentali. Con essa, è anche scosso il cardine del “sogno” di Netanyahu all’ONU, un Medio Oriente “benedetto” dalla complicità sunnita con l’egemonia israeliana e dal tramonto dell’”Asse della Resistenza”.

 

I rischi

Ma se anche questo sogno fosse attuabile, quale ne sarebbe il prezzo?

Per parafrasare Netanyahu, che a sua volta ha attinto da Dylan Thomas, l’Iran non “scivolerebbe gentilmente nella buona notte”. Abbiamo visto nei decenni passati che l’abbattimento dei talebani e di Saddam, pur isolati e sfiniti dalle sanzioni, ha provocato destabilizzazione regionale su vasta scala, con il dilagare di povertà, migrazioni, rivolte, terrorismi, califfati, nuovi squilibri e conflitti. L’idea che la dissoluzione di un Behemoth dalla taglia della Repubblica Islamica – 88 milioni di abitanti, ovvero 3 volte l’Iraq del 2003 – possa portare pace e prosperità nel breve periodo è evidentemente pura propaganda. Dalla Rivoluzione del ’77 l’Iran ha formato centinaia di migliaia, se non milioni, di combattenti ideologicamente motivati, tra esercito e gruppi paramilitari: nei propri confini e nei paesi circostanti. La guerra civile siriana e l’espansione dell’ISIS ci han dato un’idea di cosa potrebbe implicare il collasso dell’”Asse della Resistenza”. Ed è logico pensare che, come già successo nel recente passato, il vuoto di potere potrebbe essere colmato da altre forze, non necessariamente filo-occidentali, quali la Fratellanza Musulmana, la Turchia che le ha recentemente voltato le spalle, o l’Arabia Saudita. Del resto, quando il realista John Mearsheimer si oppose alla distruzione dell’Iraq, non lo fece per motivi umanitari, ma piuttosto perché prevedeva – correttamente – che senza Saddam l’Iran, potenzialmente ben più potente e pericoloso, si sarebbe ulteriormente rafforzato.

 

Per chi suona la “sveglia ipersonica”

E qui possiamo finalmente saltare dal contesto ai fatti drammatici dei giorni scorsi. Nella pratica, il “sogno” di Netanyahu e del suo fan club potrebbe trasformarsi in un incubo per gli stessi israeliani. Ne abbiamo avuto un assaggio la notte tra l’1 e il 2 ottobre: mentre treni ed arei si fermavano, ed i missili iraniani martellavano le basi di Tel Nof, Netsarim, Nevatim, e sfioravano il quartier generale del Mossad, distruggendo cacciabombardieri, carri e radar, due terroristi palestinesi massacravano 8 civili a Tel Aviv, e altrettanti soldati israeliani perivano negli scontri con Hezbollah al confine libanese.

È chiaro che i tentativi di intimidazione rivolti al regime iraniano sono falliti. Fallito è il disegno di terrorizzarne la leadership con le orrende mutilazioni prodotte dall’esplosione dei cercapersone. Vana la minaccia di “rivoluzione colorata” ventilata da Netanyahu. Illusoria la speranza che l’Iran “non sappia stare in prima linea”. Persino l’ennesima pirotecnia dell’intelligence israeliana, che tramite un articolo di Thomas Friedman aveva rivelato di conoscere quasi tutti i dettagli dell’imminente attacco iraniano, non ha avuto l’effetto deterrente per il quale era stata pensata. “Il re è nudo”, sì, come è stato detto: ma si tratta di Israele.

L’Iran ha dimostrato di infischiarsene dei rischi di assassini e trappole mirate, della controrivoluzione, e della penetrazione da parte dei servizi israeliani, ed ha invece provato di poter e voler colpire a suo piacimento ogni metro del suolo israeliano, in primis le protettissime basi militari.

Di fronte a questa ostentazione di risolutezza e di forza poco ha potuto l’usuale strategia israeliana di negare o minimizzare i danni, arrivando all’estremo di sostenere che l’unico effetto rilevante sarebbe stata l’uccisione accidentale di un palestinese. A parte che la corsa ai bunker e lo stravolgimento dei trasporti basterebbe a testimoniare l’impatto dell’attacco iraniano, nelle ore successive Israele ha dovuto ammettere che sono state effettivamente centrate delle basi militari. D’altro canto, negare ogni danno rilevante e al contempo minacciare un’imminente e significativa risposta non era una linea sostenibile.

Il bilancio provvisorio è un pieno successo militare e diplomatico iraniano. Gli ayatollah hanno dimostrato di essere davvero disposti a rispondere a Israele, anche se per ora, come hanno sottolineato, “con una frazione del potere a disposizione”. Hanno anche risparmiato ogni obiettivo civile, con un ritorno d’immagine e d’opinione pubblica che è evidente a chiunque abbia aperto un social network nelle ultime ore. Al contrario, la stampa filoisraeliana ha reagito con un imbarazzo se non proprio parlando d’altro, il che contrasta vividamente con le ricostruzioni insistite, entusiaste e dettagliate dei precedenti attacchi israeliani. La frustrazione dello Stato Ebraico ha raggiunto il parossismo con la scomposta decisione di dichiarare il Segretario dell’Assemblea Generale dell’ONU António Guterres, praticamente il volto delle Nazioni Unite, persona non grata. Così Israele stesso ha fatto un altro passo verso lo status di pariah nelle istituzioni internazionali.

Come italiani, non ci si può illudere che il nostro governo dimostri un’autonomia e una tutela degli interessi nazionali che, come visto, non riesce agli Stati Uniti. L’Italia non può evidentemente riconoscere la Palestina – e l’evidenza – come invece hanno fatto Irlanda, Norvegia, Spagna, e Slovenia dopo 143 altri paesi. A questo punto viene perlomeno da chiedersi se non sarebbe ora di richiamare quei concittadini in divisa che, nonostante le serie capacità e le buone intenzioni, al momento possono solo giocare a briscola in un bunker sotto le bombe. Sembra che un missile israeliano sia caduto a soli cinquecento metri.

Più globalmente, la “sveglia ipersonica” iraniana potrebbe forse dissipare il sogno di una marcia vittoriosa di Netanyahu e così, se la deterrenza porrà finalmente un limite alle violenze di Israele, anche scongiurare l’incubo che la regione risprofondi in un’apocalisse peggiore di quello già conosciuto negli ultimi due decenni.  


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