Il “lavoro povero” in Italia è più diffuso che in altri paesi
di Federico Giusti e Emiliano Gentili
Un recente studio commissionato dalla Cgil affronta la dinamica salariale italiana raffrontandola con quella di altri paesi europei. Si rendono necessarie, prima di ogni ulteriore considerazione, due premesse senza le quali non riusciremmo a comprendere le ambiguità della ricerca:
- in primis non troviamo alcuna valutazione degli effetti derivanti dalla cancellazione della scala mobile sulla dinamica salariale italiana. La scala mobile resta un oggetto misterioso per la forza lavoro con età inferiore ai 50 anni e, per gli altri, il contenuto “rimosso” di ogni discussione sulla perdita del potere di acquisto.
- la seconda osservazione riguarda i meccanismi regolatori dei rinnovi contrattuali, che hanno caratterizzato gli ultimi decenni alla insegna dell'austerità. Sono proprio questi meccanismi, avallati dalla stessa Cgil, ad avere decretato la perdita del potere di acquisto e di contrattazione. E non è casuale che si guardi solo agli ultimi anni quando invece il crollo dei salari inizia 40 anni or sono, così come non è casuale il fatto che non vi sia traccia di analisi e riflessione sui processi di privatizzazione, sugli appalti e sui subappalti, sul dilagante ricorso al part time involontario.
Per svariate ragioni il “lavoro povero” in Italia è più diffuso che in altri paesi. A tirare su le statistiche ci sono il part time nel settore dei servizi e, in generale, negli appalti, così come i quasi 1000 contratti nazionali siglati e inclusi nella lista del CNEL, molti dei quali con retribuzione oraria di 5 o 6 Euro (parliamo non solo dei cosiddetti “contratti pirata” ma anche di quelli sottoscritti dai sindacati “maggiormente rappresentativi”). Sono infatti 5,7 milioni i dipendenti che guadagnano in media meno di 11 mila Euro lordi annui.
I bassi salari sono il risultato di un percorso che si è svolto negli anni, e quindi nascono principalmente dall’austerità contrattuale e dai numerosi CCNL costruiti ad arte per favorire la riduzione del costo del lavoro. Al contrario, facendo una “fotografia” dei dati Ocse la CGIL imputa l’attuale povertà salariale soprattutto alla discontinuità lavorativa, al part time e alla precarietà contrattuale.
Se poi vogliamo rapportare i salari nominali al costo della vita ci si accorge che dopo la pandemia i prezzi sono cresciuti in Italia più che altrove, mentre al contrario il valore delle buste paga dei nostri lavoratori è assai maggiore di quella subita in Francia, Germania o Spagna.
E ancora una volta si spiega il tutto con la solita inflazione che, unita alla bassa dinamica salariale, sancisce la perdita del potere di acquisto (soprattutto delle famiglie con minor capacità di spesa). Leggiamo dallo studio CGIL:
La caduta dei salari reali diventa ancora più drammatica dal momento che la crescita dei prezzi ha effetti differenziati sulla popolazione per via della differente composizione del paniere e dei redditi familiari: nel solo 2022, a fronte di un’inflazione generale del +8,7%, l’impatto è stato molto più ampio sulle famiglie con minor capacità di spesa (+12,1%) rispetto a quelle con maggior capacità di spesa (+7,2%) (ISTAT, 2024b).
Per quanto giusta, questa spiegazione è parziale: innanzitutto perché si omette di ricordare che con la fine della scala mobile l’effettivo recupero del costo della vita è divenuto impossibile; poi perché non si spende una parola sui processi speculativi che hanno fatto schizzare verso l’alto i prezzi dei generi energetici e alimentari alle stelle, così come non si nomina mai la questione del “codice Ipca”, che esclude dal paniere di riferimento i beni energetici. Il non contemplato aumento del prezzo delle materie prime (luce e gas), infatti, spinge verso il basso gli stipendi. Il salario medio in Italia si attesta a 31,5 mila Euro lordi annui, in Germania è di 45,5 mila e in Francia di 41,7 mila.
E se non solo è vero che i salari italiani sono decisamente inferiori a quelli francesi e tedeschi, ma anche che la nostra economia non reggerebbe il confronto con i paesi più forti della Ue, nell’inchiesta della Cgil scopriamo poi che le ore lavorate in Italia sono decisamente superiori a confronto con Spagna, Francia e Germania. Più ore lavorate per pagamenti inferiori possono voler dire una sola cosa: dequalificazione e deprezzamento salariale del lavoro dipendente:
Nel 2022, secondo i dati OCSE, le ore medie lavorate annualmente dai lavoratori dipendenti in Italia sono state 1.563, un numero pari a quello della Spagna ma decisamente più alto di quello osservato in Germania (1.295 ore) e in Francia (1.427 ore)
Teniamo conto di quanto sia difficile parlare di lavoro attingendo dai dati Istat e Inps, se consideriamo occupato un lavoratore con una sola giornata lavorativa annuale!
I dati INPS si riferiscono ai dipendenti con almeno una giornata retribuita nell’anno e che, in ogni Osservatorio, il lavoratore con più di un rapporto di lavoro viene considerato una sola volta e classificato in base al suo ultimo rapporto. Invece, il salario si riferisce alla somma di tutti i suoi rapporti di lavoro nell’anno e corrisponde all’imponibile previdenziale. Per questi motivi, il salario medio ricavato dai dati INPS non si riferisce al tempo pieno equivalente (come nei dati OCSE) ma rispecchia tutte le peculiarità del mercato del lavoro italiano. Infatti, proprio tenendo conto delle caratteristiche dell’occupazione in Italia, esploreremo i salari lordi annuali medi che risultano dalla combinazione della tipologia contrattuale, dell’orario di lavoro e del periodo di lavoro retribuito dal datore di lavoro (quest’ultimo è disponibile solo per il settore privato).
Paga oraria bassa, assenza del salario minimo, codice Ipca, deroghe ai CCNL su innumerevoli materie sono tra le cause della perdita di potere di acquisto. Poi qualche responsabilità è anche attribuibile ai ritardi con i quali i contratti sono rinnovati e di certo la indennità di vacanza contrattuale, vale a dire pochi Euro al mese decisi da accordi nazionali, non è una soluzione al problema:
L’analisi della Cgil, dunque, si affida troppo ai dati per mancare invece di un’analisi politica più complessiva, in grado di cogliere aspetti e tendenze per nulla sconosciuti ma di cui, purtroppo, il sindacato non fa menzione. Per una narrazione più esaustiva sarebbe ad esempio bastato insistere sulle regole per i rinnovi salariali o sui parametri con i quali si quantificano gli aumenti. Che si tratti di una mancanza interessata, da parte della Cgil, per occultare le proprie responsabilità politiche e sindacali?
Per concludere, due parole sui settori privato e pubblico presi a sé. Per entrambi, il documento sindacale prende a riferimento il solo anno 2022, per quanto il ribasso avvenga da lustri e le conseguenze nefaste sul potere di acquisto abbiano cause e origini lontane nel tempo.
Nel 2022, i lavoratori dipendenti del settore privato italiano, esclusi settore agricolo e domestico, sono stati 16.978.425 e il salario medio si e attestato a 22.839 euro lordi annui. Si e trattato di un aumento salariale nominale medio del +4,2% rispetto al 2021 (+911 euro lordi annui), nettamente inferiore all’inflazione del 2022. Quindi, per poter compensare pienamente l’aumento dei prezzi al consumo registrato nel solo 2022, il salario medio si sarebbe dovuto attestare a 23,8 mila euro lordi annui, cioè circa mille euro in piu rispetto a quanto percepito mediamente proprio dagli ultimi 40 anni di politiche del lavoro.
Altrettanto problematica è la dinamica salariale nella Pubblica amministrazione, mai più ripresasi da nove anni di blocco delle assunzioni e della contrattazione. Al momento si evidenziano forti differenze retributive nei quattro comparti della PA, decise proprio dalla contrattazione di CGIL CISL e UIL.
Sempre nel 2022, il salario medio nel settore pubblico si sarebbe dovuto attestare a 34,9 mila euro lordi annui, cioè 770 euro in più rispetto a quanto percepito in media. E parliamo di settori nei quali il sindacato si vanta di avere strappato aumenti contrattuali maggiori rispetto a tanti altri.