Guerra e ospedali. C’è un nesso....

Perché dovremo ritornare alla lotta, una lotta per la vita, ossia contro il sistema guerra...

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Guerra e ospedali. C’è un nesso....


di Angelo D'Orsi 

Se si vuole intendere la guerra, suggerisco una gita in un ospedale. Non banalmente gli ospedali nei quali vengono ricoverati i feriti. Esiste un altro rapporto, rovesciato, tra guerra e ospedali. Ne ho frequentato uno, di medie dimensioni, in una delle principali città dello sviluppato nord d’Italia, in una regione a guida centrodestra. E si sa che la sanità per una scellerata decisione che risale al centrosinistra, in combutta con il centrodestra, è di competenza regionale.

Qual è il nesso tra guerra e ospedali? Indiretto, ma forte. Il folle piano di riarmo europeo, che comprende anche la decisione del nostro governo di “investire” una trentina di miliardi in armamenti, si potrà attuare sottraendo risorse ad altri comparti, e il primo ad essere coinvolto è quello sanitario. E poi ci sono gli altri, “la sicurezza sul lavoro” (!), la scuola, il controllo del territorio esposto a rischio sismico e a dissesto idrogeologico, i trasporti (ah, la gestione Salvini”), e via seguitando. Si raschia ogni volta un barile sempre più esangue. Perché, ci stanno ripetendo ossessivamente che la pace si prepara con le armi, che la guerra è “un’opzione in campo”, che bisogna farsi trovare pronti quando Putin ci attaccherà. Il quale Putin, naturalmente, è così gentiluomo (o cretino) da aspettare il nostro riarmo per attaccarci.

Ma ritorno al mio ospedale, nel quale sono stato visitatore/accudente di una paziente, un’amica preziosa, una donna di grande valore, che all’inizio di febbraio era andata a farsi visitare da uno specialista il quale le aveva diagnosticato un calcolo da rimuovere in anestesia locale. “Un piccolo intervento, lo facciamo nella clinica dove io lavoro”. Si lascia convincere e l’intervento viene svolto. Lei dorme due notti in clinica, e viene liberata al terzo giorno. Nella breve degenza avevo notato che era in camera con una signora che aveva continui accessi di tosse. La mia amica mi confessa un certo timore essendo un soggetto fragile, con basse difese immunitarie. Dopo due giorni dal rientro a casa, comincia a sua volta a tossire, una tosse che aumenta di ora in ora, finché dopo una notte in quasi totale apnea, mi telefona chiedendomi il favore di portarla al Pronto Soccorso. Così faccio. E cominciano le torture. 16 ore tra pazienti in barella accatastati lungo i corridoi, un solo locale per i servizi, barellieri che vanno e vengono, con parenti che si accalcano, qualche infermiere che tenta di tranquillizzare, e i pochi medici riconoscibili dal camice verde, smarriti almeno quanto i pazienti che cercano inutilmente di farsi ascoltare. È un girone infernale, nel quale ci moviamo trascinando un carrello nel quale è disposta una bombola di ossigeno, carrello che ben presto perde una ruota, ma nessuno mi dà retta. E all’amica è stato somministrato un potente diuretico che la costringe ogni cinque minuti a recarsi al bagno, in una situazione disperante.

Alle 18, sono obbligato a uscire. Ma l’alba seguente, ricevo una chiamata dall’ospedale. “La signora si è aggravata nella notte… l’abbiamo portata in Rianimazione”. Da quel momento ha inizio il calvario vero e proprio, le 24 ore in Pronto soccorso erano state un antipasto.

Nel reparto Rianimazione rimarrà due settimane. Polmonite bilaterale in forma grave (quella che ha fatto migliaia di vittime nell’anno del Covid), presa in clinica la settimana prima. Mi dicono senza giri di parole che la situazione è a rischio. Comincia un balletto tra Rianimazione, Terapia subintensiva, Reparto, e viceversa, a seconda della situazione; che diventa via via più critica, perché guarita non completamente ma almeno in parte, la mia amica viene infettata nuovamente da uno pneumococco, stavolta preso in ospedale, ne esce duramente provata nell’arco di un altro mese. Inizia un faticoso percorso di riabilitazione, ma, attenzione, nella stanza del reparto di Medicina interna, dove è stata spostata, giacciono due signore quasi centenarie, colpite dall’insidioso Clostridium, un batterio di stupefacente aggressività, ossia è facilissimo passarlo da un paziente a un altro. A mo’ di conforto, una dottoressa mi spiega: “è una tipica infezione ospedaliera”.


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Sono altre due settimane di sofferenza, di disidratazione, di dolori acuti, di piaghe da decubito, di atrofizzazione della muscolatura. Di perdita della speranza. Mi fermo una notte in reparto, nella “sala parenti” per capire meglio. Scopro che tra le ore 2 e le 5 tutto il personale infermieristico, dai vari livelli, lascia tutti i rispettivi reparti e si ritira in una stanza dove bivaccano tra risa e urla, bevendo e mangiando e parlando dei fatti loro in un incredibile frastuono. Tre ore in cui tutti i pazienti sono abbandonati. E poiché a un certo momento la mia amica avverte dolori intensissimi chiamo, e chiedo, ma non sanno dare risposte. Domando se non ci sia un medico, mi rispondono certo, c’è il medico di guardia. Uno. I pazienti sono una trentina. Tutti in condizioni gravi o gravissime.

La mia amica intanto ha faticosamente superato la terza infezione, ma le sue condizioni generali sono pesantemente peggiorate. Dopo un intervento chirurgico e tre infezioni, come potrebbe essere diversamente? Comincio, con i suoi congiunti (che sono venuti a dare sostegno), a tempestare di domande i sanitari. Ma là c’è “un team” di vari medici specialisti in diverse discipline, se chiedi chi sia il curante di quella paziente, arriva un camice verde che esordisce con: “io non sono il curante della signora… ho appena ricevuto la sua cartella”: è un refrain che verrà ripetuto decine di volte in questi tre mesi, ogni volta da un nuovo camice verde. 

Un giorno esasperato davanti alle incertezze diagnostiche e terapeutiche chiedo se non le si possa fare una nuova Tac per comprendere bene lo stato dei polmoni, e mi sento rispondere “ma lei sa quanto costa una tac?”, Al che io sono costretto a replicare: “Ma lei sa quanto vale una vita umana?”, Oltre tutto, mi spiegano, che c’è una sola macchina per la Tac e scopro che è frutto di una donazione di privati.

Quella stessa sera, sconfortato, chiamo al telefono un vecchio amico medico di base, di quelli tradizionali, oggi dirigente generale nel servizio sanitario. Mi sento dire all’incirca: “Che vuoi? Mancano decine di migliaia di medici e di infermieri. E ormai negli ospedali i servizi sono appaltati a cooperative i cui dipendenti hanno una formazione sommaria, del resto sono pagati quattro lire e i servizi di pulizia e di igienizzazione sono gravemente carenti. E gli spazi sono quelli che sono, ossia ristretti. Occorrerebbero investimenti, rinnovamenti, e soprattutto assunzioni. I pazienti sono collocati alla rinfusa nelle stanze, microbi e virus circolano che è un piacere. C’è bisogno di soldi, capisci? Di denaro”. E aggiunge, conoscendo i miei orientamenti politici, quel denaro che va in spese assurde (vedi Tav, vedi Ponte sullo Stretto…), e che oggi stiamo dirottando dalla sanità alla “difesa”. Io lo correggo: “alla guerra: perché siamo nelle mani di pazzi che sono governanti della morte invece che esserlo, come dovrebbero, della vita”.

Ecco il nesso tra guerra e ospedali.

La mia amica, sessantenne, è spirata dopo circa tre mesi di torture, provocate da infezioni che le sono state graziosamente donate da una clinica privata e da un ospedale pubblico. Quando smetteremo di piangere questa donna straordinaria, uccisa da una vera “guerra ai civili” fatta di incuria e di errori, di mancanza di strumenti, di penuria di risorse, allora dovremo ritornare alla lotta, una lotta per la vita, ossia contro il sistema guerra.


LEGGI L'ULTIMO LIBRO DEL PROF. ANGELO D'ORSI: "CATASTROFE NEOLIBERISTA"

 

*Articolo pubblicato oggi su il Fatto Quotidiano riproposto su gentile concessione de l'Autore

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