Globalisti a tenaglia su Gaza
Dicembre 1998, la mia prima marcia per la pace in zone di conflitto. Eravamo in Kosovo. L’offensiva dell’UCK nella primavera precedente e la conseguente reazione dell’esercito jugoslavo avevano lasciato sul terreno circa 13mila vittime.
Gli accordi per un cessate il fuoco tra le parti belligeranti, siglati sotto l’egida di Richard Holbrooke per conto statunitense, erano ufficialmente in vigore, benché quei mesi servirono più per preparare i bombardamenti della primavera successiva che non a gettare le basi per una pace duratura.
Il 10 dicembre 1998 si tenne così a Pristina, allora capoluogo della provincia autonoma di “Kosovo i Metohija”, una marcia per la pace, sulla scia di quelle che si erano tenute a Sarajevo negli anni del conflitto jugoslavo, che pure lasciarono dietro di sé una vittima, Moreno Locatelli.
Erano quelli gli anni ’90, quando il movimento pacifista italiano muoveva i suoi primi infausti passi all’indomani della caduta dell’Unione Sovietica, con tanta voglia di protagonismo, idee confuse e risultati zero.
Io c’ero quel giorno a Pristina. Avevo 24 anni. Per fortuna non venne ucciso nessuno. Ma spesi le settimane successive, per conto della missione di cui facevo parte, a ricalibrare il senso di quell’inutile iniziativa presso la stampa locale e nazionale serba, rilasciando persino un’intervista all’allora prestigioso quotidiano serbo Danas, pubblicata con un titolo profetico: “Ne verujem u demokratski proces” (“Non credo nel processo democratico”). Tre mesi più tardi cominciarono a cadere le bombe NATO su Belgrado e su tutta la Serbia (quest’esperienza è raccontata nel libro “Good morning, Pristina!”, Prospettiva edizioni, 2000).
Altri tempi. Altro contesto. Altre dinamiche tra le parti e persino altra posta in gioco.
Tuttavia da quell’esperienza diretta maturai l’incrollabile convinzione che ogni marcia civile in zone di conflitto non sia altro che una carnevalata, nella migliore delle ipotesi.
Oggi non si parla più di pacifismo. Si parla di resistenza o di supporto alla resistenza. Ma gli obiettivi, sulla carta, restano gli stessi: cessate il fuoco e distribuzione di aiuti umanitari ai civili stretti, in questo caso, nell’assedio di Gaza.
La società civile cosiddetta si è evoluta in questi decenni, alcuni sono sopravvissuti e si sono riciclati, altri se li è portati il tempo, nuove generazioni si sono affacciate sull’agone politico, ma soprattutto si è compiuta per intero quella metamorfosi politico-antropologica che ha trasformato il dissenso in Occidente in una parte nel gioco di ruoli e non in un soggetto in conflitto. In altre parole, consenso e dissenso, in Occidente, oggi, sono figli dello stesso padre.
La metamorfosi si è conclusa con successo nel 2011, con le cosiddette “primavere arabe”, dove il dissenso è stato platealmente strumento per l’imposizione di un consenso pianificato dalle elite occidentali. Da allora, in questa parte di mondo, ogni lotta, ogni battaglia, si compie con queste modalità.
E così la ribellione di chi gioca a salvare gli oppressi con i soldi degli oppressori, in questa fase, si manifesta oggi con questa operazione a tenaglia che vede la Freedom Flotilla agire via mare e la “Global march to Gaza” agire via terra.
I Globalisti per Gaza non recedono dall’idea di farsi un selfie con la scenografia del genocidio alle spalle.
“No, ma Greta Thunberg serve solo per attirare l’attenzione della gente”, commentano in questi giorni alcuni lettori dei miei articoli. Fuori tempo massimo, cari amici, ci sta già pensando il PD. Al contrario vi dico: il sincronismo è perfetto, riposizionamento da un lato e operazione a tenaglia dall’altro.
E nel caso dovesse avvenire una tragedia, Dio non voglia, la sua icona sostituirebbe finalmente Che Guevara sulle magliette del primo maggio.
E allora a che serve? Sicuramente Gaza serve più a Greta (e a coloro che si riconoscono nelle sue battaglie a gettone) che non il contrario.
Lo ha capito, in fondo, anche Yazan Eissa, giovane componente palestinese della ciurma della Freedom Flotilla, che ad Andrea Legni dell’Indipendente confida: “Il nostro è un aiuto più che altro simbolico, serve innanzitutto a testimoniare alla gente di Gaza che i cittadini del mondo sono con loro”.
Sto parlando in diretta in questi giorni con un ragazzo palestinese a Gaza (una cui conversazione è riportata in coda a questo articolo: https://www.lantidiplomatico.
E allora serve più Greta a Gaza o Gaza a Greta?
Agli audaci l’ardua risposta.
Serve Gaza ai vari Indipendente, Potere al Popolo, Mediterranea Saving Humans e persino a Byoblu, persino ai Giorgio Bianchi’s, tutti imbarcati simbolicamente sulla Freedom Flotilla, o loro a Gaza?
Questo fenomeno si chiama “Pal-washing”, copyright depositato il 4 maggio 2024 (https://www.lantidiplomatico.
Ben prima del “Riposizionamento” del PD, certi avvoltoi erano già in fila per il banchetto.
Il movimento pro-Pal è la nuova testa dell’Idra di Lerna, spuntata dal mostro che ha generato già i Refugees Welcome, i Black Lives Matter, i Fridays For Future, l’agenda LGBT.
E qualcuno gli è andato a rimorchio per inconsapevolezza. A questo serve il marketing del resto, a infilarti una zucchina nella tasca senza che tu te ne accorga.
I finanziatori sono gli stessi, i soliti, le fondazioni degli squali ebrei americani della finanza.
Le reti sono le stesse, gli attivisti a gettone sono gli stessi, le leve del senso di colpa sono le stesse, applicate un po’ a caso, quando serve e quando no.
Ma il fenomeno più pericoloso, del tutto sfuggito allo sguardo dei miei contemporanei, è la saldatura tra le comunità palestinesi americane ed europee e le fondazioni di questi padri del capitalismo anglo-ebraico-americano.
Ne feci conoscenza nel lontano 2007 a New York, quando venni invitato all’ArteEast Festival a presentare il film documentario “Isti’mariyah” (che sarà proiettato di nuovo il prossimo 20 giugno a Roma presso il Teatro Flavio, a 20 anni dalla sua realizzazione).
Un documentario girato in Libano, Siria e Iraq nel 2005, con il supporto logistico del Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina. Un documentario dedicato alla resistenza palestinese, ma, in senso più ampio, dedicato al senso stesso della resistenza universale degli oppressi contro gli oppressori.
Quel festival nel cuore di Manhattan, dedicato al cinema arabo, mi invitò unico autore non-arabo, sulla base di alcune intuizioni contenute in quel lavoro, a partire dal potenziale devastante che le reti sociali cominciavano ad aver agli albori del fenomeno. Qualche anno più tardi, nel 2011, furono il fulcro delle cosiddette rivoluzioni in Tunisia, Libia, Egitto e dell’aggressione alla Siria.
Quel festival era condotto da intellettuali arabo-americani, molti di loro Palestinesi.
Quel festival era finanziato dalla Open Society Foundation.
Devastante fu l’impatto di quelle rivoluzioni colorate, pianificate nelle stanze del più feroce capitalismo americano con la consulenza di queste avanguardie di intellettuali arabi. Sì, devastante soprattutto per la causa palestinese.
La causa palestinese da quei giorni in avanti non fu più (solo) una lotta di resistenza, un episodio di conflitto e di rottura rispetto al mondo unipolare.
La causa palestinese da quei giorni in avanti venne adottata dal sistema, secondo lo schema della “doppia puntata” (https://www.lantidiplomatico.
In altre parole, l’elite economico-finanziaria giocò le sue carte sulla doppia opzione: Israele resta, Israele soccombe. Ciò che rimarrà, in ogni caso, sarà il potere pervasivo del capitale all’interno delle lotte, finalizzato al controllo del Medio Oriente.
E’ questo, più di tutto, che fa andare il sangue agli occhi degli Israeliani oggi, che hanno totalmente perso il senso del limite. Hanno capito infatti di non essere più loro necessariamente i beniamini. Così hanno deciso i loro fratelli ebreo-americani.
Non sto dicendo che Hamas oggi sia eterodiretto dal capitale americano. Tantomeno che gli Houthi siano finanziati da Soros. Tantomeno i leader di Hezbollah falciati da Israele. Tantomeno l’Iran (tutti questi soggetti sono gli unici che con le loro azioni mettano in discussione i rapporti di forza e perseguano la rottura con il colonialismo anglo-ebreo-americano in Medio Oriente).
Ma dei Palestinesi occidentali non mi fido più.
Bene ha fatto Benedetta Piola Caselli, ex-avvocata della “Global march to Gaza”, a denunciare ciò che di poco trasparente lei ha notato dal di dentro dell’organizzazione. Ma ancora meglio ha fatto quando ha denunciato la presenza di un “terzo, chissà quarto livello” di decisione (https://www.facebook.com/
I partecipanti alla marcia, sempre che arrivino al valico di Rafah, sempre che ci arrivino vivi, serviranno come controfigure di un gigantesco selfie davanti alle macerie del genocidio: la più riuscita operazione di marketing della storia, nelle intenzioni.
Tuttavia, devo dire, dubito che ci riescano. Forse non sanno i partecipanti che tra le loro fila ci saranno anche esponenti di ?HH (?nsan Hak ve Hürriyetleri ve ?nsani Yard?m Vakf? - Fondazione per i diritti umani e le libertà e il soccorso umanitario), la Ong turca la cui nave Mavi Marmara fu presa di mira da Israele il 31 maggio 2010. Tra le dieci vittime di quell’attacco vi erano aspiranti martiri della fede.
Vale a dire musulmani che, prima di partire, si erano augurati di morire sul campo di battaglia. E Israele li accontentò. Realizzarono dei video, prima di partire. Video in cui auspicavano per sé il martirio. Girarono in Turchia, dove vivevo allora, all’indomani dell’incidente. Poi questi video sparirono.
A questo giro si rischia la stessa sorte, per la soddisfazione probabilmente del prof. Angelo d’Orsi (78 anni), il quale in un video di qualche giorno fa auspicava, a guisa di Carlo Rosselli (morto a 38 anni sul campo di battaglia della guerra civile spagnola), l’emulazione di quelle gesta, alle quali però lui verosimilmente non prenderà parte (https://www.facebook.com/
Alla scampagnata per Gaza però di contro parteciperanno gli attivisti turchi di “Uluslararas? Sa?l?k ?nisiyatifi” (Inziativa per la Salute Internazionale). E’ verosimile che in questi giorni che precedono la partenza stiano girando video analoghi a quelli dei loro compagni di fede della Mavi Marmara, nel caso non dovessero fare ritorno. E’ usanza.
Che va pure bene, il martirio è un gesto nobile. Purché chi ne sia coinvolto ne sia consapevole.
A tutti gli altri invece, soprattutto a coloro che saranno nei dintorni di Roma il 20 giugno prossimo, estendo l’invito al Teatro Flavio, alle ore 20, per la proiezione di “Isti’mariyah”.
