Francesco Erspamer - L'asse Schlein-Meloni e i danni dell'americanizzazione

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Francesco Erspamer - L'asse Schlein-Meloni e i danni dell'americanizzazione


Mi sono accorto che secondo molti italiani gli unici comportamenti accettabili sono i loro, ossia quelli di moda in questo preciso momento negli Stati Uniti e di conseguenza in Occidente. Per cui non gli basta vestirsi come vogliono a casa loro; pretendono che ovunque nel mondo ci si vesta allo stesso modo. Ovviamente non si accorgono (non vogliono accorgersi) di essere dei pupazzi delle multinazionali, che impongono loro qualsiasi tendenza comportamentale con campagne mediatiche miliardarie; credono che essere liberi significhi scegliere fra l’iPhone e il Galaxy e proprio non possono tollerare che la medesima libertà non venga condivisa, forzatamente se necessario, in ogni continente. Per cui se una donna iraniana (in particolare se matura o anziana) indossa un abito tradizionale, è nel migliore dei casi una vittima dell’oppressione del regime reazionario di quel paese, nel peggiore una «bigotta, ignorante e maniaca» (come per Michele Serra gli ottanta milioni di elettori di Trump). Mentre una donna iraniana (ma giovane e avvenente) che si spogli in pubblico è di sicuro un’illuminata eroina della lotta contro la superstizione in nome delle magnifiche sorti e progressive dell’individuo finalmente emancipato da qualsiasi vincolo sociale.

Premetto che se fossi iraniano esprimerei la mia solidarietà per la ragazza, pur correndo qualche rischio; dopo aver però verificato che non si tratti di una mitomane infatuata di qualche «celebrity» americana o inglese o di un’attivista filo-occidentale. Ma in quanto italiano non mi permetto di impicciarmi dei costumi e della morale di un altro popolo. Anche a prescindere dalla probabilità che l’episodio venga strumentalizzato da Netanyahu (come infatti immediatamente accaduto) per giustificare future azioni militari contro i cattivi iraniani, la considero una questione di basilare accettazione della diversità delle culture.

Invece i molti italiani di cui sopra (piddini e meloniani, il liberismo è consociativo—ma loro direbbero «bipartisan» per segnalare il loro cosmopolitismo d’ordinanza) la diversità la concepiscono e accettano esclusivamente a livello individuale: ad avere il diritto di fare e sentirsi quello che vuole è sempre e solo il «sé». Che in quanto tale, cioè in quanto de-socializzato e de-storicizzato, vuoto di un passato che non sia rigorosamente personale (la «tabula rasa» invocata dai profeti della modernità scientista e individualista, Cartesio, Bacone, Galileo) e di una cultura che non sia solo attualità e intrattenimento, dicevo, questo «sé» si considera «universale» e «naturale»: con la tragica conseguenza di ritenere universali e naturali anche le sue convinzioni «woke» (che in inglese significa «sveglio», «consapevole», implicando che chi non è d’accordo sia addormentato e stupido, oltre che retrogrado).
Così funziona il neoliberismo. I danni che ha provocato e continua a provocare a livello ambientale, sociale, culturale e psicologico sono devastanti; ma invece di ribellarsi e pretendere un’inversione di rotta o almeno un rallentamento, parecchi miei connazionali preferiscono provare a risolvere i problemi e la propria stessa insoddisfazione attraverso dosi ancora più massicce di americanizzazione. Fatti loro, e purtroppo fatti anche miei. Di certo non mi rassegnerò passivamente alla deriva del mio paese ma se alla fine l’asse Schlein-Meloni trionfasse anche a livello culturale, mi dovrò adattare (in fondo l’inglese già lo parlo).

Cosa ben diversa, come dicevo, pretendere che tutti i popoli del pianeta si conformino a quel modello: roba da colonialisti, convinti di essere nel giusto perché se lo dicono da soli e se lo dimostrano attraverso parametri da loro scelti. Per esempio i «diritti umani», che più onestamente dovrebbero essere chiamati «diritti individuali», inventati dal capitalismo anglosassone e dai suoi intellettuali per assoggettare il mondo «civilizzandolo» a propria immagine e somiglianza. Invece «civiltà» deriva da «civitas», città; nel senso che ogni paese, ogni regione, ogni popolo, ogni comunità, può svilupparne una (o non svilupparla), e la bellezza e ricchezza della Terra è tale diversità, che non significa omologazione economica, mediatica e tecno-scientifica ma molteplicità, ossia inconciliabilità dei vari componenti. Nel rispetto reciproco ma nella separazione: in Iran si vestano come vogliono loro, evolvendo nei modi e tempi che pare a loro, ma se vengono in Italia si adeguino ai nostri codici o se ne tornino a casa.

È il fondamentale conflitto del nostro tempo: l'imperialismo individualista globale e globalista contro il senso di appartenenza a tante culture differenti fra loro ma in ciascuna delle quali i soggetti siano disposti a sacrificarsi, in misura minore o maggiore a seconda della loro storia, per un’idea collettiva, locale e contingente del bene.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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