Da Dante a Tomasi di Lampedusa fino all'attuale capitalismo: l'evoluzione del concetto di "cambiamento"

Da Dante a Tomasi di Lampedusa fino all'attuale capitalismo: l'evoluzione del concetto di "cambiamento"

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di Francesco Erspamer

 

Ripensavo alla frase del «Gattopardo», «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi». Qualche anno fa l’avrei definita famosa, adesso l’aggettivo riguarda solo ciò che abbiano detto Chiara Ferragni o Taylor Swift e limitatamente all’ultima settimana, poi cade nell’oblio: però la cosa non mi consola perché non segnala una pur tardiva presa di coscienza della loro pochezza bensì il rifiuto di qualsiasi attenzione, memoria, coscienza (quest'ultima politicamente scorretta oltre che faticosa).

È proprio per questo, peraltro, che la frase di Tomasi di Lampedusa mi è tornata in mente. Il suo autore era un aristocratico e dunque sospettoso delle magnifiche sorti e progressive imposte nel dopoguerra dagli occupanti americani. Ma il romanzo non annunciava solo il declino, a fine anni cinquanta evidente, della destra conservatrice, invisa al potere economico dominante in Occidente (e di lì a poco ovunque) appunto perché attaccata ad antiche tradizioni e a consuetudini locali, dunque più lenta ad accogliere il dogma del consumismo, di merci e di usanze. Questa destra si è infatti dissolta: i conservatori semplicemente non esistono più perché chi conserva è ufficialmente un anacronismo. Ma Tomasi annunciava profeticamente anche il declino, che sarebbe avvenuto nei decenni seguenti, della sinistra socialista, quella che i cambiamenti li aveva teorizzati per migliorare il mondo, non per stordirlo di novità fini a sé stesse se non all’osceno arricchimento di pochi multimiliardari e dei loro cortigiani. Dunque anch'essa inattuale.

Se consultate un dizionario storico vi accorgerete che la stragrande maggioranza degli esempi riportati, da Dante a Pavese, assegnava a «cambiare» il significato di «rendere diverso, variare, modificare una cosa o una persona» (cito dal cosiddetto Battaglia, una grande opera di quando in Italia se ne facevano invece di limitarsi a importare quello che viene fatto altrove), come peraltro accade sempre e necessariamente in natura e nella Storia: nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma. Cambiare significava trasformare. Solo molto recentemente il verbo è stato attratto nell’area semantica di uno dei concetti cardine del neocapitalismo tecnocratico e mediatico, quello di creatività; a indicare la possibilità e anzi il dovere di fare tabula rasa per introdurre dal nulla qualcosa mai vista prima, totalmente nuova, o almeno reclamizzata come tale. Questo avevano iniziato a fare un secolo fa le avanguardie (avanguardie, si faccia caso, non di un esercito o di un popolo ma solo di sé stesse), così simili ai neoliberisti di oggi, di destra e di sinistra: distruggere e cancellare tutto il passato, nichilisticamente, provocare un’apocalisse culturale: «L’arte è un bisogno di distruggersi», proclamava Marinetti (che poi però accettò di buon grado la nomina ad Accademico d’Italia), e Artaud: «I capolavori del passato vanno bene per il passato ma non per noi».
Una scorciatoia per prendere il potere, tutto il potere, pur non avendo le qualità sufficienti per dimostrarsi migliori. Il nuovo all’americana non è vero cambiamento: è imporre con la forza ciò che non può venire giudicato perché, dicono i liberal, sarebbe un pregiudizio, né valutato perché lo si farebbe con strumenti e categorie vecchie; per cui si può solo accettarlo passivamente, come un destino manifesto e con un atto di fede che però non riguarda un’entità metafisica ma i pubblicizzatissimi prodotti delle multinazionali.

Niente deve rimanere com’è e niente deve cambiare: il presente si basta, privo di memoria, di valori e conseguentemente di progetti, un moto rettilineo e uniforme nel vuoto, di fatto una perenne stasi che fa finta di non esserlo. Come almeno dovrebbero sospettare i tanti che per essere felici e sentirsi eternamente giovani, liberi e avanzati si apprestano a sognare l’iPhone 16 o un viaggio esotico nella località (scusate: location) che sarà di moda il prossimo anno o l’ennesima trasgressione senza conseguenze, anzi gratificante perché fa sentire antifascisti in assenza di fascismo e spaventa borghesi scomparsi da quasi un secolo. Senza rischi, senza preparazione, senza idee: lasciandosi trascinare dalla corrente.

Inevitabile concludere con un’altra frase del «Gattopardo»: «Dopo sarà diverso, ma peggiore. Noi fummo i Gattopardi, i Leoni; chi ci sostituirà saranno gli sciacalletti, le iene». Ma non la menziono come scusa per farsi da parte senza resistere, anche se con stile: al contrario, come invito a resistere agli sciacalli e alle iene, costi quel che costi; e non importa che ci dicano che è una lotta senza speranza: solo i liberisti combattono esclusivamente le battaglie che hanno già vinto, per potersi sentire dei vincenti.

Francesco Erspamer

Francesco Erspamer

 

Professore di studi italiani e romanzi a Harvard; in precedenza ha insegnato alla II Università di Roma e alla New York University, e come visiting professor alla Arizona State University, alla University of Toronto, a UCLA, a Johns Hopkins e a McGill

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