Cisgiordania e Striscia di Gaza: storia e sviluppi delle mire annessioniste di Israele

Cisgiordania e Striscia di Gaza: storia e sviluppi delle mire annessioniste di Israele

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di Giacomo Gabellini per l'AntiDiplomatico

 

Il fenomeno della colonizzazione israeliana dei territori occupati nacque nel 1968, quando un nucleo ristretto di ebrei affittò presso un hotel di Hebron alcune camere con l’intento di trascorrere la Pasqua con le proprie famiglie residenti in Israele. Guidata dal rabbino Moshe Levinger (nella foto in alto), questa comunità si stabilì presso una base militare in stato di semi-abbandono situata sulla collina che sovrasta Hebron, in base a un accordo raggiunto a coronamento di una estenuante trattativa con il governo laburista guidato da Levi Eshkol. Il quale intendeva preservare nella loro condizione originaria i territori occupati al termine del conflitto del 1967 in vista della loro restituzione a Giordania, Egitto e Siria come contropartita per l’ottenimento della pace e del riconoscimento di Israele. Nacque così l’insediamento di Kiriat Arba, vera e propria capitale spirituale dei cosiddetti “gush emunim”, il “blocco dei fedeli” che riconoscendosi nelle posizioni oltranziste promosse da Levinger anela a ebraicizzare questi territori ad ogni costo, nel senso letterale dell’espressione.

Se il sionismo di ispirazione socialista e laico delle origini puntava a conquistare, difendere e mettere a frutto la terra avvalendosi di fucile, aratro e zappa, la visione di Levinger ambiva ad assolvere alla missione teologica di riunire la Diaspora ebraica nelle aree appartenute ai regni d’Israele nel periodo antecedente alla distruzione del Secondo Tempio. La realizzazione del progetto concepito dal rabbino prese avvio con la colonizzazione, tollerata o appoggiata silenziosamente, dei territori occupati secondo lo schema originario del cosiddetto “Piano Allon”, implicante l’annessione della valle del Giordano, della dorsale di Gerusalemme e dei Monti della Giudea a sud di Betlemme.

Il vero salto di qualità coincise tuttavia con le elezioni del 1977, culminate con il trionfo del Likud di Menachem Begin che infranse l’ormai trentennale egemonia esercitata dalle forze laburiste. Fu da quel momento che la colonizzazione della Cisgiordania e del Golan assurse a obiettivo prioritario, da conseguire anche grazie al sostegno della potentissima Israel Lobby statunitense e del mare magnum del sionismo cristiano americano. Nonché delle manovre di Sharon, che rimuovendo dalla Striscia di Gaza i 15.000 coloni ivi residenti e ricollocandoli in Cisgiordania inviò un segnale difficilmente equivocabile circa l’intenzione del governo di trasformare i territori occupati a ovest del Giordano nella destinazione privilegiata in cui allocare nuovi coloni e «realizzare lo Stato ebraico», come dichiarato dallo stesso Sharon nel 2005.

Secondo lo storico Ehud Sprinzak, «la maledizione per il nostro popolo è stata la vittoria del 1967, quando il nazionalismo sionista laico impadronendosi dei luoghi santi ebraici si è sposato con la destra religiosa e xenofoba», che si esprime nei tre partiti a cui il Likud si è associato a partire dal dicembre 2022 per formare l’attuale governo guidato da Benjamin Netanyahu. Nello specifico, si tratta dello Yahadut HaTora (Ebraismo della Torah Unito) controllato dal gruppo religioso degli ebrei haredim ashkenaziti; dello Shas, partito dei ultra-ortodossi sefarditi e mizrahi; del HaTzionut HaDatit (Partito Sionista Religioso), facente capo all’ortodossia ebraica più radicale. Movimenti oltranzisti, rappresentati a livello istituzionale da personaggi come il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich e il ministro per la Sicurezza Nazionale Itamar Ben-Gvir e divenuto rapidamente oggetto di fortissime contestazioni di piazza. Le quali sono scaturite in primo luogo dalla controversa riforma giudiziaria mirante a minare l’indipendenza della Corte Suprema, attraverso la limitazione della cosiddetta “clausola di ragionevolezza” che garantisce all’organo la facoltà di vanificare alcuni provvedimenti del governo.

Oltre a generare grande malcontento popolare, l’iniziativa provocò una sorta di ammutinamento interno agli apparati di sicurezza israeliani, con una serie di proteste culminate con l’interruzione dell’addestramento e il rifiuto alla chiamata alle armi di migliaia di riservisti dell’esercito. Tra cui 37 dei 40 membri di cui si compone il noto Battaglione 69, una forza d’élite impiegata in azioni particolarmente complesse e controverse come l’Operazione Orchard. Prima che la Knesset si pronunciasse in merito al segmento principale della riforma, il numero dei riservisti che aveva proclamato la propria intenzione di venir meno ai propri obblighi in caso di approvazione ammontava a 1.142 unità. Ad appena 48 ore di distanza dal voto, la platea si era allargata ad altri 120 riservisti. Nel complesso, il fenomeno della autosospensione sarebbe arrivato a coinvolgere qualcosa come 10.000 riservisti.

Dati piuttosto preoccupanti, specialmente per un esercito chiamato a compensare all’esiguità numerica dei propri effettivi con un bacino relativamente molto ampio di riservisti. E che, fatta eccezione per gli ultra-ortodossi che si dedicano in via semi-esclusiva allo studio della Torah (13% cica della popolazione), si fonda sulla leva obbligatoria estesa indiscriminatamente a uomini e donne e trae quindi forza e legittimazione dal suo carattere eminentemente “popolare”. Non a caso, l’onda d’urto irradiata dal rapido allargamento delle defezioni si è rivelata talmente dirompente da spingere il ministro della Difesa Yoav Gallant a dichiarare dinnanzi alla Knesset che «il rifiuto a servire di un numero crescente di riservisti potrebbe danneggiare nel lungo termine la capacità di combattere dell’esercito, anche se al momento i danni sono limitati». In termini sostanzialmente analoghi si sono espressi 60 riservisti inquadrati nell’unità d’intelligence Havatzalot, che attraverso ben quatto lettere indirizzate al primo ministro Netanyahu hanno evidenziato i rischi che l’eliminazione della “clausola di ragionevolezza” avrebbe comportato per la capacità di deterrenza israeliana nei confronti di Iran ed Hezbollah.

Un pericolo da non sottovalutare, specialmente alla luce dell’inasprimento delle tensioni con la popolazione palestinese verificatosi per effetto diretto dell’incremento numerico degli insediamenti nei territori occupati della Cisgiordania. Un fenomeno tutt’altro che nuovo, ma a cui l’esecutivo insediatosi nel dicembre del 2022 ha impresso una drastica accelerata.

Nel febbraio di quest’anno, il Gabinetto di Sicurezza israeliano ha approvato con effetto retroattivo la trasformazione di 10 avamposti esistenti in 9 nuovi insediamenti. Simultaneamente, il sottocomitato per gli insediamenti del Consiglio superiore di pianificazione dell’amministrazione civile della Cisgiordania ha emanato una serie di piani regolatori che autorizzano l’integrazione di ulteriori 5 avamposti come nuovi quartieri all’interno degli insediamenti già presenti.  A pochi giorni di distanza, il governo ha ottenuto dalla Knesset il placet per emendare la Legge sul Disimpegno del 2005, che aveva introdotto il divieto per i cittadini israeliani di entrare negli insediamenti situati nelle aree settentrionali della Cisgiordania. La modifica ha non solo comportato la revoca del divieto, ma anche autorizzato il governo a promuovere la ricolonizzazione dell’avamposto di Homesh, localizzato su terreni appartenenti ai palestinesi residenti nel villaggio di Burka, presso il governatorato di Nablus.  Trattandosi di uno dei quattro insediamenti della Cisgiordania smantellati nel 2005 ai sensi del Piano di Smobilitazione, riporta «Haaretz», Homesh è diventato un simbolo per il movimento dei coloni.

Ad aprile, l’amministrazione civile ha annunciato l’intenzione di avviare lavori propedeutici alla costruzione di una strada – già pianificata e sostenuta con forza dal governo guidato da Naftali Bennett, che la definì “Strada della Sovranità” – tra al-Azariya e a-Za’im, nei pressi dell’insediamento di Ma’ale Adumim situato nelle aree a est Gerusalemme riunite nel blocco E1 dal Piano di Smobilitazione. La realizzazione della strada determina automaticamente la deviazione di tutto il traffico palestinese dall’area interessata, limitando così in maniera drastica la libertà di movimento dei palestinesi in una vasta area della Cisgiordania che dovrebbe costituire parte integrande del loro Stato. Come ha dichiarato lo stesso sindaco di Ma’ale Adumim, «questa strada mira a separare il flusso di trasporto tra la popolazione palestinese e quella israeliana nell’area E1, in modo tale che i veicoli palestinesi possano viaggiare senza passare attraverso il blocco di Ma’ale Adumim nei pressi delle località ebraiche. Osservata da un punto di vista politico, la strada collegherà Gerusalemme a Ma’ale Adumim consentendo la costruzione di insediamenti ebraici nella zona E1».

L’arteria stradale si inserisce perfettamente in un più ampio progetto di segregazione delle reti di trasporto, destinato ad assorbire una quota sostanziosa del bilancio approvato dal governo per il 2023-2024. Per la “riqualificazione” della rete viaria della Cisgiordania, implicante la costruzione di tangenziali dedicate ai coloni in tutte le aree della West Bank e di Gerusalemme Est, sono previsti stanziamenti pari a 3,5 miliardi di shekel (corrispondenti a circa 920 milioni di dollari), equivalenti al 25% dell’intero budget israeliano per le strade. Fondi altrettanto ingenti dovrebbero essere investiti nell’accelerazione e intensificazione del processo di colonizzazione dei territori occupati, come si evince dai 570 milioni di shekel assegnati al Ministero degli Insediamenti e delle Missioni Nazionali, e dall’incremento dei finanziamenti destinati sia allo sviluppo degli insediamenti, che dovrebbero passare dai 65 a 105 milioni di shekel tra il 2022 e il 2024, sia all’espansione degli avamposti, con stanziamenti pari a 260 milioni. Nel complesso, tra il gennaio e il settembre del 2023, le autorità di pianificazione dell’Amministrazione Civile e del Ministero dell’Edilizia hanno promosso la costruzione di strutture abitative pari a 12.349 unità per gli insediamenti in Cisgiordania e a 18.223 unità per quanto concerne Gerusalemme Est.

In una certa misura, le misure adottate a questo proposito dal governo Netanyahu configurano una sostanziale soluzione di continuità rispetto al passato.  Per accorgersene è sufficiente riavvolgere il nastro ai primi anni del nuovo millennio, quando l’allora premier Ariel Sharon annunciò l’innalzamento del muro di separazione – lungo 712 km e comprendente reticolati elettrificati, sentieri di aggiramento, trincee, pareti di cemento armato e rilevatori di movimento – in corrispondenza di lunghi tratti della Linea Verde di cessate il fuoco pre-1967 che delimita i confini della Cisgiordania. La costruzione di questa “barriera protettiva”, che fa seguito alla realizzazione della frontiera elettrificata lungo i confini di Gaza ai tempi dell’Intifada, rispondeva parimenti a quest’ultima a motivazioni ufficiali legate alla difesa dal terrorismo palestinese, ma ha di fatto sancito l’annessione a Israele di alcuni territori della Cisgiordania e di tutta la municipalità di Gerusalemme. Come si leggeva nel novembre 2002 su «Le Monde Diplomatique»: «una volta completato il muro, dal nord della Cisgiordania a Gerusalemme, lo Stato ebraico si sarà annesso il 7% della West Bank, tra cui 39 colonie israeliane e circa 290.000 palestinesi, 70.000 dei quali non hanno ufficialmente diritto di residenza in Israele e non potranno pertanto viaggiare e beneficiare dei servizi sociali israeliani. Questi 70.000 palestinesi vivono in una situazione di estrema vulnerabilità e probabilmente saranno costretti a emigrare. Se il muro verso sud si spingerà fino a Hebron, si ritiene che Israele si sarà annessa un altro 3% della Cisgiordania».

Alla fine, nonostante gli accordi di Oslo l’avessero assegnata alla giurisdizione dell’Autorità Nazionale Palestinese, Hebron è stata divisa in due parti separate, una delle quali risulta inaccessibile ai palestinesi in quanto abitata da 400 coloni israeliani protetti da recinzioni fortificate, checkpoint e circa 4.000 soldati armati fino ai denti. A Gerusalemme est, invece, si concentra il processo di esproprio di moltissimi ettari di terreno ai palestinesi che è alla base della crescita vertiginosa, e illegale ai sensi del diritto internazionale, della popolazione ebraica: nel 2020, la comunità ebraica insediata a Gerusalemme est ammontava a 234.000 unità, a fronte delle 85.000 registrate nel 1948. Da decenni, ormai, si assistite a un progressivo allargamento del centro urbano della “città santa”, con la demolizione dei caseggiati di proprietà dei palestinesi per lasciar spazio a nuovi quartieri da destinare a famiglie ebraiche. Parallelamente, le autorità cittadine ritiravano migliaia di carte d’identità ai palestinesi residenti nella zona orientale, ai sensi di un sistema burocratico particolarmente stringente votato in tutta evidenza a spingere gli arabi a trasferirsi in Cisgiordania per mantenere l’accesso alle cure sanitarie e ai servizi essenziali. Si parla di qualcosa come 100.000 palestinesi deprivati della cittadinanza e 200.000 abitazioni distrutte per far posto a nuovi edifici per le famiglie ebraiche.

Nel complesso, la comunità dei coloni, praticamente inesistente verso la fine degli anni ’60, è cresciuta vertiginosamente, fino a raggiungere le attuali 700.000 unità distribuite in 279 insediamenti. La colonizzazione di Gerusalemme est, della Cisgiordania e del Golan è stata oggetto di indagine del Comitato Speciale nominato dalle Nazioni Unite con l’incarico specifico di indagare sulle pratiche israeliane nei territori occupati. Nel rapporto finale pubblicato dal Comitato nel luglio del 2022 si legge che: «la visita ha avuto luogo in un contesto di crescente violenza da parte dei coloni e delle forze di sicurezza israeliane contro i palestinesi, arresti e detenzioni arbitrarie e restrizioni alla libertà di espressione e di movimento, nonché una crescente cultura dell’impunità. Il Comitato si rammarica che Israele non abbia risposto alla sua richiesta di consultazioni con le autorità israeliane o di accesso a Israele, al territorio palestinese occupato e al Golan siriano occupato. Il persistente rifiuto di Israele di impegnarsi nei meccanismi delle Nazioni Unite rispecchia una mancanza di responsabilità per quanto riguarda la condotta israeliana nei territori palestinesi occupati, che è stata portata all’attenzione del Comitato Speciale durante tutta la missione».

Il documento risale al luglio del 2022, quando l’attuale esecutivo era ancora molto al di là dal formarsi, e sotto la cui direzione si è assistito a una netta intensificazione dell’attivismo militare israeliano in Cisgiordania. Una dinamica chiaramente riscontrabile da episodi quali l’attacco contro il campo profughi di Jenin sferrato nell’estate del 2023 dall’Israeli Defense Force allo scopo ufficiale di smantellare un presunto quartier generale di Hamas ivi installato. Bilancio dell’operazione: 10 morti, centinaia di feriti, migliaia di palestinesi in fuga e vibranti proteste formulate da Abu Mazen, che in qualità di presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese ha invocato come sempre senza successo un intervento d’urgenza delle Nazioni Unite volto a «costringere Israele a bloccare l’evacuazione degli abitanti» di Jenin. Vale a dire la stessa località che è stata presa nuovamente di mira dall’esercito israeliano lo scorso 29 ottobre, attraverso un raid condotto con l’ausilio di un centinaio di veicoli militari e un paio di bulldozer che ha lasciato sul campo almeno 4 feriti. Il Ministero della Salute palestinese ha annunciato che, nell’arco temporale intercorrente tra l’Operazione al-Aqsa Flood e il 30 ottobre, circa 120 palestinesi residenti in Cisgiordania erano caduti per mano delle forze armate israeliane.

La devastante reazione ai fatti del 7 ottobre, sui quali aleggiano non poche ombre, ha funto senza ombra di dubbio da catalizzatore rispetto ai processi predatori già in atto, agevolati anzitutto dalla silenziosa ma decisiva manovra burocratica attuata dal governo che ha sancito il trasferimento del controllo sui territori occupati dall’amministrazione militare a quella civile, e nello specifico ai dipartimenti facenti capo al Ministero delle Finanze, diretto da un referente indiscusso del movimento dei coloni come Bezalel Smotrich. Il provvedimento ha comportato l’eliminazione di gran parte delle preesistenti procedure diplomatiche e di sicurezza necessarie all’applicazione dei programmi di espansione degli insediamenti, che d’ora in poi verranno inoltrati direttamente ai comitati di pianificazione in Cisgiordania. Come ha osservato Michael Sfard, avvocato israeliano specializzato in questioni di diritto internazionale, il passaggio delle questioni afferenti la gestione degli insediamenti dall’autorità militare all’amministrazione civile rappresenta una conclamata violazione del diritto internazionale, perché sancisce l’annessione de facto dei territori occupati nello Stato israeliano.

Un obiettivo che traspare vistosamente dalle iniziative adottate nel corso degli ultimi decenni dalla classe dirigente israeliana, nonché perfettamente riscontrabile nelle linee guida stabilite dal governo Netanyahu, in cui si afferma che «il popolo ebraico ha un diritto esclusivo e inalienabile sull’intera Terra d’Israele. Il governo promuoverà e svilupperà gli insediamenti in tutte le parti della Terra d’Israele: Galilea, Negev, Golan, Giudea e Samaria». Lo stesso concetto è stato ribadito in termini più grossolani da Amichai Eliyahu, che in qualità di ministro del Patrimonio Culturale e membro del partito Otzma Yehudit ha bollato come “fittizia” la Linea Verde definita ai sensi degli Accordi di Oslo ed esortato il governo ad annettere la Cisgiordania. «Non penso davveroha dichiarato Eliyahu, lo stesso che ha recentemente definito lo sganciamento di un ordigno nucleare sulla Striscia di Gaza “una possibilità” – che esista una Linea Verde. Si tratta di una linea fittizia. Questa è la nostra patria. È qui che è nato il popolo ebraico. L’atteggiamento dello Stato d’Israele secondo cui qui ci dovrebbero essere due Stati è erroneo. Dovremmo imporre la sovranità su Giudea e Samaria. Dovremmo portare avanti questo processo il più rapidamente possibile, nel modo più intelligente possibile. Dovremmo cominciare a dirlo ovunque, così da aggiudicarci il relativo riconoscimento internazionale […]. C’è una realtà distorta che dobbiamo cancellare».

Nell’ottica dell’apparato dirigenziale israeliano, l’annessione della Cisgiordania riveste tuttavia una rilevanza non riconducibile al solo ambito religioso, come si evince da un cruciale documento strategico comparso sulla rivista «Kivunim» nel 1982 e redatto dallo specialista Oded Yinon, analista molto ammanicato con le alte sfere del Ministero degli Esteri israeliano. Il suo piano designava come finalità fondamentale per Israele la riconfigurazione integrale della carta geopolitica del Medio Oriente, attraverso quella balcanizzazione degli Stati arabi circostanti che sia in senso geografico-territoriale che nell’accezione etno-sociale sarebbe divenuta l’asse portante della dottrina strategica israeliana nei decenni successivi. Yinon era convinto che le nuove entità statali di piccole dimensioni e forza ridotta venutesi a creare con l’applicazione del suo piano sarebbero state attratte in un confronto serrato e logorante con i loro vicini altrettanto deboli e ridimensionati, rinforzando di fatto la posizione dello Stato ebraico. «Ciò che vogliamo – scriveva Yinon – non è un mondo arabo, ma un mondo di frammenti arabi destinato a soccombere all’egemonia israeliana». Occorreva pertanto favorire «la frammentazione della Siria e dell’Iraq secondo linee etniche e religiose, così come avviene oggi in Libano […]. Nei territori corrispondenti all’attuale Siria nascerà uno Stato alawita [gruppo sincretico filo-sciita] lungo la costa, uno Stato sunnita intorno ad Aleppo, un altro Stato sunnita nell’area di Damasco ostile al suo vicino settentrionale e uno Stato druso nell’Hauran e nel nord della Giordania […]. L’Iraq, ricco di petrolio ma sempre più eroso al suo interno, rientra anch’esso nei piani di Israele. Per noi la sua dissoluzione è persino più importante di quella della Siria […]. Qualsiasi genere di scontro interno al mondo arabo ci favorirà nel breve periodo e accorcerà la strada che conduce all’obiettivo capitale, rappresentato dalla frammentazione dell’Iraq in varie entità statali. In Iraq, è possibile attuare una suddivisione in province su base etnica e confessionale analoga a quella della Siria all’epoca dell’Impero Ottomano. Si verranno così a creare tre o più Stati attorno alle tre città principali: Bassora, Baghdad e Mosul, mentre le regioni sciite del sud del Paese saranno separate dal nord sunnita e kurdo». Ma soprattutto, Yinon sosteneva che: «la politica di Israele, sia in guerra che in pace, deve essere orientata alla liquidazione della Giordania sotto l’attuale regime e il trasferimento del potere alla maggioranza palestinese. La modifica del regime a est del fiume causerà anche la risoluzione del problema dei territori densamente popolati dagli arabi ad ovest del Giordano. Sia in guerra che in condizioni di pace, l’emigrazione dai territori e il loro congelamento economico e demografico sono le garanzie per il prossimo cambiamento su entrambe le rive del fiume, e noi dobbiamo essere attivi al fine di accelerare questo processo nel prossimo futuro […]. La coesistenza genuina e la pace regnerà sulla terra solo quando gli arabi comprenderanno che senza dominio ebraico tra il Giordano e il mare non avranno alcuna esistenza né sicurezza. Una loro nazione sarà possibile solo in Giordania […]. Dovrebbe essere chiaro, in ogni futura situazione politica e militare, che la soluzione del problema degli arabi indigeni giungerà soltanto nel momento in cui riconosceranno l’esistenza di Israele nei confini sicuri fino al fiume Giordano e al di là di esso, come un nostro bisogno esistenziale in questa difficile epoca, l’epoca nucleare in cui ci apprestiamo ad entrare. Non è più possibile vivere con tre quarti della popolazione ebraica concentrata sulla costa; è molto pericoloso in un epoca nucleare. La dispersione della popolazione è quindi un obiettivo strategico nazionale di primissimo ordine. In caso contrario, dovremo cessare di esistere entro i confini. Giudea, Samaria e Galilea sono la nostra unica garanzia per l’esistenza nazionale, e se non diventiamo maggioranza nelle zone di montagna, non riusciremo a governare questo Stato […]. Riequilibrare il Paese demograficamente, strategicamente ed economicamente è l’obiettivo più alto e centrale di oggi».

Nell’equazione rientra con ogni probabilità anche la “riacquisizione” del controllo sulla Striscia di Gaza. Lo si evince non soltanto dai confini raffigurati all’interno della mappa esibita lo scorso settembre da Netanyahu in occasione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, ma anche dai provvedimenti assunti in seguito all’Operazione al-Aqsa Flood. A partire dall’ordine di evacuazione diramato lo scorso 13 ottobre, implicante il trasferimento di oltre un milione di palestinesi dalle zone settentrionali a quelle meridionali della Striscia, così da “sgomberare” della popolazione residente un’area grande poco meno della metà di quell’angusto fazzoletto di terra in vista dell’intensificazione dei bombardamenti aerei e dell’invasione. Nonché, in una prospettiva di più lungo periodo, dell’annessione quantomeno della porzione di Striscia di Gaza appena “svuotata”, come suggerito dalle dichiarazioni rilasciate dal ministro degli Esteri israeliano Eli Cohen all’emittente radiofonica di riferimento dell’esercito israeliano, secondo cui all’«eliminazione di Hamas» farà seguito la «riduzione del territorio della Striscia di Gaza». Un’esternazione alquanto ambigua, perché potrebbe preludere sia alla creazione di  una zona cuscinetto attorno all’enclave, sia all’incorporazione tout court di parte della Striscia nello Stato israeliano, invocato con forza dal movimento dei coloni. Una opzione, quest’ultima, che risulta avvalorata dall’effetto pratico sortito dall’ordine di evacuazione del 13 ottobre, consistente nella compressione di una vera e propria “marea umana” sul valico di Rafah controllato dall’Egitto. La pressione “fisica”, per di più, è stata rapidamente affiancata a quella politico-diplomatica, come si ricava dalle indiscrezioni raccolte e pubblicate dal «Financial Times» secondo cui Netanyahu avrebbe attivato i contatti con le controparti europee affinché convincessero le autorità del Cairo ad accogliere un numero imprecisato di profughi palestinesi.

Nella stessa direzione porta un documento del Ministero dell’Intelligence israeliano reperito e reso di pubblico dominio dal quotidiano israeliano «Mekomit», in cui si afferma che il miglior risultato possibile a cui Israele può puntare una volta concluso il conflitto consiste nel trasferimento della popolazione palestinese residente nella Striscia di Gaza presso il Sinai. Secondo il giudizio degli autori del rapporto, questa opzione «produrrà risultati strategici positivi e a lungo termine», a differenza di quelle implicanti l’instaurazione della sovranità dell’Autorità Nazionale Palestinese sulla Striscia di Gaza – che sembra scontare l’approvazione degli Stati Uniti – o in alternativa la creazione di una compagine di governo alternativa ad Hamas. Entrambe le possibilità, si sostiene all’interno del rapporto, non fornirebbero adeguate garanzie di deterrenza.

Il rapporto suggerisce quindi di attuare il progetto di deportazione in tre fasi distinte: la prima prevedeva lo spostamento della popolazione palestinese verso le aree meridionali della Striscia di Gaza, mentre l’aeronautica militare avrebbe bombardato la parte settentrionale della Striscia; nella seconda, avrebbe preso avvio l’invasione terrestre, volta alla «pulizia dei bunker sotterranei dai combattenti di Hamas» in vista della successiva occupazione dell’intera Striscia; la terza prevedeva la creazione di un corridoio umanitario che garantisca l’esodo dei palestinesi verso una serie di tendopoli da allestire appositamente nella penisola egiziana e la successiva costruzione di insediamenti destinati ad ospitare la popolazione oggetto di trasferimento. L’ultimo passaggio verteva sulla creazione di una “terra di nessuno”, una sorta di “fascia di sicurezza” profonda svariati chilometri nel territorio del Sinai per prevenire un possibile controesodo dei palestinesi sfollati. Significativamente, il documento evidenzia esplicitamente la necessità di agevolare l’attuazione del programma attraverso il coinvolgimento dei Paesi arabi, della Turchia, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti, sui quali far leva da un lato per esercitare con successo pressioni sull’Egitto affinché accolga gran parte profughi, e dall’altro in un’ottica di condivisione degli sforzi per l’accoglimento e il ricollocamento dei palestinesi.

La renitenza del Cairo, che tramite il presidente al-Sisi ha reso noto che l’esodo di palestinesi dalla Striscia di Gaza verso il Sinai metterebbe a repentaglio la pace siglata tra Begin e Sadat nel 1979, potrebbe essere vinta grazie a uno sforzo diplomatico internazionale adeguatamente coordinato, perché di fronte allo scenario dei devastazione generato dagli attacchi israeliani «l’Egitto avrà l’obbligo ai sensi del diritto internazionale di consentire il passaggio della popolazione». Nel rapporto si propone anche di affiancare alle operazioni militari una “campagna di sensibilizzazione” finalizzata per un verso a spingere Paesi come Arabia Saudita, Marocco, Libia e Tunisia a contribuire all’accoglimento dei “fratelli palestinesi”, e per l’altro a «motivare i cittadini della Striscia di Gaza ad accettare il piano» e a rinunciare in via definitiva a tornare presso le proprie terre: «i messaggi – recita ancora il rapporto – dovrebbero ruotare attorno alla perdita della terra, cioè far capire che non c’è più alcuna speranza di ritornare nei territori che Israele occuperà nel prossimo futuro». Oltre ad attutire per quanto possibile il danno di immagine per Israele, l’iniziativa di pubbliche relazioni si propone anche di presentare il programma di trasferimento della popolazione palestinese come una soluzione non soltanto necessaria e meritevole di sostegno internazionale, in quanto capace di minimizzare il numero di vittime tra la popolazione civile, ma anche “naturale” alla stregua di quelle verificatesi sulla scia dei conflitti afghano, siriano e ucraino.

Il contenuto del rapporto redatto dagli specialisti del Ministero dell’Intelligence israeliano, diretto da Gal Gamliel, è stato oggetto di una sorta di “studio di fattibilità” condotto il 13 ottobre – e quindi ad appena una settimana di distanza dall’Operazione al-Aqsa Flood – dal Misgav Institute for National Security & Zionist Strategy, un think-tank israeliano presieduto da Meir Ben-Shabbat, ex membro di alto livello dello Shin Bet considerato unanimemente uno dei principali architetti degli Accordi di Abramo. Nello studio, supervisionato dal ricercatore Amir Weitman, si sostiene che «allo stato attuale, esiste un’opportunità più unica che rara per evacuare l’intera Striscia di Gaza in coordinamento con il governo egiziano», da attuare attraverso un «progetto realizzabile ed economicamente sostenibile» anche perché perfettamente compatibile con gli «interessi geopolitici di Israele, Egitto, Arabia Saudita e Stati Uniti». Il documento suggerisce che i palestinesi potrebbero essere ospitati nelle due maggiori città satellite del Cairo, ove sorgono appartamenti sufficientemente ampi e numerosi a ospitare sei milioni di persone, che risultano in gran parte vuoti perché, pur costando in media circa 19.000 dollari, i comuni cittadini egiziani non possono permetterseli. Secondo le stime formulate dagli analisti di Misgav, il valore di mercato medio delle unità abitative prese in esame dallo studio ammonta a circa 19.000 dollari. Ne consegue che l’intera operazione di alloggiamento dei palestinesi presso le due città egiziane assorbirebbe appena 8 miliardi di dollari, pari all’1,5% del Pil israeliano, e potrebbe essere quindi agevolmente finanziata dallo Stato. Il rapporto afferma che lo stato disastroso in cui versa l’economia egiziana rappresenta un fattore particolarmente funzionale a persuadere le autorità del Cairo a prendere in considerazione la proposta, che il governo di Tel Aviv potrebbe adoperarsi per rendere maggiormente allettante avvalendosi dei propri potenti agganci presso gli Stati Uniti per attivare una campagna internazionale di raccolta fondi che secondo le valutazioni del centro studi israeliano potrebbe assicurare un ricavo pari a 32 miliardi di dollari. Secondo il documento, «si tratterebbe di una soluzione innovativa, economica e sostenibile», nonché « un investimento molto utile per Israele in una prospettiva di lungo periodo». Da un lato perché «la riqualificazione di Gaza fornirebbe alloggi di alta qualità ai cittadini israeliani da insediarvi», e dall’altro perché l’afflusso di capitali israeliani in Egitto contribuirebbero sia a stabilizzare il Paese che a ridurre le ondate migratorie dirette verso l’Europa. Nello studio si sostiene che anche l’Arabia Saudita trarrebbe ampio beneficio dall’applicazione del progetto, dal momento che l’espulsione dei palestinesi altererebbe lo scenario in maniera tale da rendere del tutto prive di significato le ricorrenti operazioni militari che Israele effettua presso la Striscia di Gaza. L’eliminazione di un costante elemento di tensione con il mondo arabo come quello costituito dai palestinesi residente presso quell’angusto fazzoletto di terra agevolerebbe «la promozione della pace con Israele senza l’incessante interferenza dell’opinione pubblica locale». Allo stesso tempo, evidenzia ancora il rapporto, una quota di palestinesi deportati dalla Striscia di Gaza potrebbe essere riciclata come manodopera a basso costo dall’Arabia Saudita, attualmente impegnata nella realizzazione di progetti faraonici come Neom, l’avveniristica “città del futuro”.

Il documento si conclude sottolineando che, vista l’impossibilità di prevedere se e quando si ripresenterà una congiuntura politica altrettanto positiva quanto quella attuale per “ripulire” la Striscia di Gaza dei palestinesi che la abitano, «il momento di agire è ora».

Una fonte anonima israeliana raggiunta dal sempre lucido «Middle East Eye» ha suggerito di trattare progetti strategici come quello trapelato dal Ministero dell’Intelligence di Tel Aviv al quotidiano «Mekomit» e quello redatto dal think-tank Misgav con estrema cautela, in quanto «rappresentano le fantasie di gruppi estremamente marginali, simili a delle sette. Inoltre, il governo israeliano si sta concentrando esclusivamente sulla strategia militare ed è più compiacente che mai con le richieste e i vincoli degli Stati Uniti». Allo stesso tempo, ha evidenziato la fonte israeliana, il gabinetto di guerra israeliano comprende figure centriste come Benny Gantz e Gadi Eizenkot «che non si fanno illusioni circa la realizzabilità di questi folli progetti». Avvertimenti dettati dal buon senso, quelli formulati dalla fonte israeliana a «Middle East Eye», ma che sembrano ridimensionati sia dai collegamenti tra Ministero dell’Intelligence israeliana, centro studi Misgav e movimenti radicali dei coloni messi in luce da «Mekomit», sia dalla linea operativa posta concretamente in essere da Israele, sia nei confronti della Striscia di Gaza che verso la Cisgiordania. Una condotta tutt’altro che conforme agli interessi degli Stati Uniti, come denunciato senza mezzi termini da Daniel Kurtzer, che in qualità di ex ambasciatore statunitense a Tel Aviv sotto l’amministrazione guidata da George W. Bush ha esortato l’attuale governo Usa ad adottare una postura più  fermamente votata a «bloccare la “strisciante annessione” della Cisgiordania ad opera di Israele», perseguita in «violazione di un impegno che il governo israeliano aveva assunto per iscritto nei confronti del governo di Washington nel 2004, quando, in una lettera indirizzata all’allora amministrazione Bush, Israele si era impegnato a smantellare gli avamposti e gli insediamenti illegali. Ora stanno chiudendo il cerchio. Non solo non stanno smantellando questi avamposti illegali, ma stanno cercando di legalizzarli ex post. E da allora ne sono stati costruiti molti, quindi il numero è davvero significativo».

Nei giorni scorsi, in aggiunta, la Knesset ha approvato la proposta del governo relativa alla nomina al vertice della sottocommissione parlamentare per la Cisgiordania – incaricata di gestire gli affari inerenti i rapporti con la controparte palestinese – di Tzvi Sukkot. Vale a dire un deputato di HaTzionut HaDatit (Partito Sionista Religioso) che, nel corso dei decenni, «è entrato e uscito dalle carceri israeliane con accuse di terrorismo e violenze nei confronti della popolazione palestinese. È stato accusato di aver partecipato all’incendio di una moschea, viveva in una colonia illegale in Cisgiordania, si è reso responsabile di diversi attacchi nei confronti di beni palestinesi e, per tutte queste sue attività, è stato anche escluso dal servizio militare perché considerato un estremista violento […]. È anche ex membro del gruppo terroristico di estrema destra ebraico-israeliana La Rivolta che sostiene lo smantellamento dello Stato di Israele in favore di un regno di Israele che segua la legge ebraica. Questo spiegherebbe il suo impegno che nel dicembre del 2015 lo ha portato a organizzare una manifestazione a Tel Aviv contro il servizio segreto interno Shin Bet, colpevole, a suo dire, di torture nei confronti degli ebrei arrestati perché coinvolti nell’attacco incendiario al villaggio di Duma, vicino a Nablus, nel quale morirono tre palestinesi. Un attacco attribuito proprio al gruppo La Rivolta. Il numero di arresti nei suoi confronti non è finito qui. Ce ne sono stati altri, anche con l’accusa di aver preso parte alla pratica del price-tagging, ossia operazioni mirate a vandalizzare, danneggiare o profanare beni e luoghi sacri dei palestinesi che può andare dal taglio degli ulivi di loro proprietà alla violazione delle tombe». La nomina di Sukkot è stata confermata dalla Knesset nonostante la contrarietà delle forze laburiste, rappresentate dalle leader Merav Michaeli secondo cui a capo della sottocommissione parlamentare per la Cisgiordania è stata posta  «una delle persone più pericolose in Israele, un razzista, un piromane».

Quanto alle operazioni perpetrate nella Striscia di Gaza, tra cui spicca il bombardamento del campo profughi di Jabalia (almeno 50 morti e centinaia di feriti), il generale Marco Bertolini ha dichiaro, nel corso di una intervista risalente allo scorso 29 ottobre, che l’intenzione della classe dirigente di Tel Aviv consiste nello «schiacciare Gaza come un tubetto di dentifricio dal nord e spingere i palestinesi nel deserto del Sinai. Adesso li indirizzano nella parte sud di Gaza e poi da lì la gente andrà da sola nel deserto del Sinai. Già prima la densità abitativa di Gaza era la più alta al mondo, se poi avranno a disposizione solo la metà del territorio automaticamente dovranno spostarsi. L’Egitto dovrà prenderli e basta, vogliono mandarli fuori. Il Cairo non potrà non aprire il valico di Rafah, altrimenti in una situazione del genere dovrebbe assumersi la responsabilità di un dramma sociale come quello che si verrebbe a creare. Gli israeliani vogliono mandare via i palestinesi come è successo in Cisgiordania, con l’insediamento dei coloni».

Del resto, qualora la presenza dei palestinesi residenti in Cisgiordania e nella Striscia di Gaza venisse meno, il cruciale problema demografico si potrebbe considerare “risolto”. Come affermò nel 2002 l’allora capo di Stato Maggiore dell’Esercito israeliano Moshe Ya’alon, «la caratteristica di questa minaccia è invisibile come il cancro. Ma si tratta pur sempre di cancro. La mia diagnosi professionale è che siamo in presenza di un fenomeno che costituisce una minaccia esistenziale […]. Ci sono molti modi per affrontare efficacemente il cancro. Alcuni diranno che occorre asportare gli organi, ma al momento io mi trovo ad applicare la chemioterapia».

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