Chi parla a nome di Cavallo Pazzo?

1792
Chi parla a nome di Cavallo Pazzo?

 

di Raffaella Milandri

 

Il Crazy Horse Memorial è uno di quei luoghi che sembrano fatti apposta per sollevare domande: chi decide cosa ricordare, con quali mezzi, con quali soldi – e a beneficio di chi. Mi raccomando, se volete risposte e cifre, leggete fino al termine dell’articolo: c’è da arrabbiarsi. Ho visitato il memoriale nel 2018 e, da allora, mi riproposi di chiarire molti punti interrogativi. Ne accennai in un mio libro, “Gli Ultimi Guerrieri”, ora ho indagato meglio e deciso di scriverne nella mia rubrica. Il Crazy Horse Memorial nacque come risposta indigena a Mount Rushmore: un eroe Lakota scolpito nelle stesse Black Hills usurpate ai Sioux. Ma il progetto, iniziato nel 1948 e mai completato, è diventato a sua volta oggetto di controversia: gestito da una fondazione non profit dominata dalla famiglia dello scultore, finanziato da biglietti e merchandising, investe molto in musei e università ma restituisce poco, in forma diretta, alle comunità Lakota. Per alcuni è un centro culturale utile; per altri, un enorme business turistico che continua a scavare in una montagna sacra senza aver risolto la domanda fondamentale: chi parla davvero a nome di Crazy Horse?

Dove siamo e che cos’è il Crazy Horse Memorial

Il Crazy Horse Memorial è una gigantesca scultura montana in corso d’opera dal 1948 nelle Black Hills del South Dakota, non lontano da Mount Rushmore. È stata pensata per rappresentare l’Oglala Lakota Crazy Horse a cavallo, con il braccio teso a indicare le terre ancestrali del suo popolo. L’idea nasce alla fine degli anni ’30 per iniziativa del capo Henry Standing Bear (Mato Naji), che chiede allo scultore di origine polacca Korczak Ziolkowski di realizzare un monumento “per mostrare all’uomo bianco che anche l’uomo rosso ha grandi eroi”. La prima dinamite esplode nel 1948. Da allora sono passati oltre 75 anni: oggi è completata la testa di Crazy Horse (circa 25 metri, più grande di quelle di Mount Rushmore, alte 18 metri), il foro che rappresenterà lo spazio tra il braccio e il cavallo, e solo in tempi recentissimi si è arrivati a definire la mano e parti del braccio. Non esiste una data ufficiale di completamento: il progetto è dichiaratamente “intergenerazionale”.

Un “contro-monumento” a Mount Rushmore

Per capire il senso del Crazy Horse Memorial bisogna affiancarlo a Mount Rushmore.

Mount Rushmore (1927–1941) è un progetto federale, pensato per il turismo e per celebrare quattro presidenti degli Stati Uniti; è scolpito nel cuore delle Black Hills, territorio sacro ai Lakota (Paha Sapa) garantito loro dal trattato di Fort Laramie del 1868 e poi espropriato dopo la scoperta dell’oro illegalmente, tanto è vero che i Lakota hanno anche vinto un risarcimento, non accettato (United States v. Sioux Nation of Indians, 448 U.S. 371, 1980). Luther e poi Henry Standing Bear, negli anni ’30, propongono inizialmente di inserire il volto di Crazy Horse sullo stesso Mount Rushmore: l’idea viene ignorata – ovviamente - da Gutzon Borglum, lo scultore del monumento presidenziale. Il memoriale di Crazy Horse nasce quindi come risposta simbolica: un eroe nativo inciso su una montagna, più grande delle teste presidenziali, nello stesso massiccio di granito. Ma questa mossa – usare la stessa grammatica monumentale dello Stato coloniale – aprirà un vaso di Pandora: chi parla a nome dei Lakota? E a chi appartiene davvero la montagna?

Come nasce e come viene finanziato il progetto

La scelta del finanziamento privato                                                                                                             Korczak Ziolkowski e Henry Standing Bear decidono molto presto che il memoriale non accetterà fondi federali o statali. Lo scultore è convinto che i finanziatori pubblici finirebbero per controllare il progetto e ridimensionarne la componente educativa e culturale a favore dei nativi. Nel corso dei decenni il governo federale offre più volte milioni di dollari per accelerare i lavori; l’offerta viene rifiutata, come ricorda anche un’inchiesta del New Yorker, proprio per mantenere l’autonomia del progetto (della famiglia dello scultore).

Oggi il memoriale è gestito dal Crazy Horse Memorial Foundation, un ente non profit 501(c)(3). I finanziamenti arrivano principalmente da:

  • biglietti d’ingresso (almeno un milione l’anno) e servizi turistici (visitor center, ristorazione, parcheggi);
  • gift shop e vendita di merchandising;
  • donazioni private e grandi donatori;
  • rendite finanziarie su un patrimonio accumulato nel tempo.

Secondo i dati più recenti di analisi sui Form 990 dell’IRS, la fondazione registra:

  • entrate annue dell’ordine di 13–14 milioni di dollari;
  • patrimonio netto superiore ai 120 milioni di dollari (2023–24);
  • una percentuale di spesa dichiarata per “programmi” (carving, musei, università, attività educative) intorno al 60–70% delle spese complessive.

Quindi sì: dal punto di vista formale siamo di fronte a un grande ente non profit turistico-culturale, non a un’azienda privata in senso stretto. Però…

Perché il memoriale non è mai stato finito?

Le ragioni sono molteplici e intrecciate.

Scala tecnica e scelta politica

Il progetto è gigantesco: nella versione completa, la scultura misura circa 195 metri di lunghezza per 172 di altezza, con Crazy Horse a cavallo e il braccio teso.

Appena lo vidi, mi chiesi innanzitutto se la mole di roccia fosse sufficiente a realizzare l’intero progetto. Forse, nei prossimi decenni, lo vedremo.

Solo la testa (finita nel 1998) ha richiesto decenni di lavoro, con una squadra relativamente piccola e metodi di scavo che, soprattutto nei primi decenni, erano lenti e pericolosi. Mount Rushmore, pur impressionante, è in realtà molto più piccolo e concentrato su quattro teste; fu completato in 14 anni con massicci fondi federali e oltre 400 operai.

Qui invece:

  • niente fondi pubblici, per scelta di autonomia (della famiglia dello scultore);
  • personale limitato;
  • molti periodi in cui i lavori sono stati rallentati per mancanza di fondi, maltempo o decisioni strategiche (priorità al visitor center, al museo, all’università…).

Da scultura a “complesso culturale”

Dalla morte di Korczak (1982) il progetto viene portato avanti dalla moglie Ruth e poi dai figli e nipoti, che scelgono di investire fortemente su:

  • Indian Museum of North America;
  • Native American Educational and Cultural Center;
  • The Indian University of North America, con programmi estivi e semestrali in partnership con università statali (USD, poi Black Hills State University).

Questa scelta sposta una parte consistente di risorse (umane, finanziarie, organizzative) dall’opera scultorea in senso stretto alle infrastrutture culturali. È una scelta legittima, coerente con la missione dichiarata (“preservare la cultura e le tradizioni dei nativi nordamericani”), ma ha l’effetto evidente di dilatare all’infinito i tempi della scultura.

Un “cantiere perenne” come modello di business?

Qui entrano in gioco le critiche più taglienti.

Diversi osservatori – inclusi Lakota e altri nativi – notano che, pur con ricavi annui a otto cifre e un patrimonio in forte crescita, il ritmo della scultura resta sorprendentemente lento. Nel 2018, ad esempio, la fondazione dichiarava 12,5 milioni di dollari di entrate e 77 milioni di patrimonio netto; oggi il patrimonio ha superato i 120 milioni. Per alcuni critici, questo suggerisce che il memoriale funzioni “anche” come impresa turistica stabile, per la quale un cantiere eterno è parte del prodotto:

  • il pubblico torna a vedere “i progressi”;
  • il sito rimane una fonte continua di biglietteria e vendite;
  • l’indeterminatezza della data di completamento non danneggia economicamente il progetto, anzi lo alimenta.

C’è chi arriva a dire che “la montagna è ormai un monumento alla famiglia Ziolkowski più che a Crazy Horse”. È la lettura proposta, tra gli altri, da Brooke Jarvis sul New Yorker, riportando voci Lakota che vedono nel memoriale un’appropriazione dell’immagine di Crazy Horse e delle Black Hills.

I soldi dei biglietti: beneficenza o business familiare?

Che cosa dicono i numeri

Formalmente, i soldi dei biglietti non “vanno nelle tasche della famiglia” in modo diretto:

  • entrano nelle casse della Crazy Horse Memorial Foundation, che è un ente non profit - gestito dalla famiglia - registrato e obbligato a pubblicare i propri bilanci (Form 990).

Da queste dichiarazioni emerge che:

  • la gran parte delle entrate è contabilizzata come “program service revenue” (biglietti, shop, servizi);
  • ci sono spese di programma (carving, musei, università), spese amministrative e stipendi, compresi quelli dei membri della famiglia che lavorano nella fondazione;
  • solo una quota relativamente piccola viene erogata come grant/borse di studio verso l’esterno (per il 2024, ad esempio, circa 148.000 dollari in grant registrati - bruscolini).

In parallelo, la fondazione sottolinea:

  • un programma di borse di studio iniziato nel 1978, con oltre 1,2–2 milioni di dollari complessivi assegnati a studenti nativi che frequentano college e università in South Dakota;
  • il fatto che gli studenti ammessi al programma estivo 7TH GEN ricevono borse complete per tasse universitarie e libri, e gran parte di vitto e alloggio.

Quindi: una parte del denaro va sì in progetti educativi a favore di studenti nativi, ma la maggioranza delle risorse resta all’interno del “sistema Crazy Horse” (carving, musei, infrastrutture, stipendi, riserve patrimoniali).

Le critiche dal mondo Lakota

Ed è qui che si inserisce la mia impressione avuta nel 2018. Molti Lakota e nativi della regione sostengono che:

  • pochissimo di quel denaro arriva in forma tangibile alle comunità Oglala e ad altre riserve, dove i tassi di povertà restano altissimi;
  • il sito, per come è gestito, produce una grande ricchezza simbolica ed economica intorno a Crazy Horse, ma non necessariamente per i suoi discendenti e la sua nazione.

Un articolo di commento legato alla Boston University sottolinea, ad esempio, che in un anno fiscale recente la fondazione ha incassato 13,1 milioni di dollari “senza che un solo dollaro andasse direttamente ad aiutare gli Oglala Lakota”, citando l’ex senatore statale Jim Bradford, Oglala, secondo cui il memoriale “sembra ormai prima di tutto un business”. La pagina di Wikipedia stessa riporta le parole di Seth Big Crow – discendente di una zia di Crazy Horse – che dichiara di interrogarsi sui “milioni di dollari raccolti con il nome del suo antenato” e di chiedersi se il progetto “non sia andato nella direzione sbagliata quando si è cominciato a fare soldi invece di cercare di completare l’opera”. Altri, come l’uomo di medicina John Fire Lame Deer e l’attivista Lakota Russell Means, criticano non solo l’uso del denaro, ma l’idea stessa di scolpire una montagna sacra: Means ha paragonato l’intervento a “scolpire il Monte Sion in Israele”, un atto percepito come insulto spirituale.

Quindi: chi ha ragione?

Riassumendo in modo secco:

  • No, non è corretto dire che formalmente i soldi dei biglietti vadano semplicemente “nelle tasche della famiglia”: giuridicamente vanno a una fondazione non profit - gestita dalla famiglia - che finanzia carving, musei, università, stipendi e alcune borse di studio.
  • , è corretto dire che
    • la famiglia Ziolkowski mantiene un ruolo centrale di controllo e gestione;
    • una quota limitata delle entrate viene redistribuita come beneficenza diretta alle comunità Lakota;
    • molti Lakota percepiscono il memoriale come un’attività economica che sfrutta il nome di Crazy Horse e un luogo sacro senza restituire un beneficio proporzionato al popolo che dice di onorare.

La tensione sta tutta qui: missione dichiarata di tutela culturale vs percezione locale di appropriazione e business.

  1. Voci favorevoli e tentativi di riequilibrio

Detto questo, il quadro non è monolitico.

  • La fondazione oggi ha un CEO indigeno, Whitney A. Rencountre II (Hunkpati Dakota), e un board che include membri nativi e non nativi; la stessa fondazione rivendica un impegno nel dare spazio ad artisti, artigiani e studenti indigeni nella gestione quotidiana del complesso.
  • Alcuni studenti e docenti nativi coinvolti nell’Indian University of North America descrivono l’esperienza come un’importante “porta d’accesso” all’istruzione superiore, con programmi che coniugano accademia e cultura indigena.

Esiste quindi anche una narrazione che vede il Crazy Horse Memorial come:

  • piattaforma educativa;
  • luogo di visibilità per le storie indigene;
  • datore di lavoro per membri delle comunità circostanti.

Il problema – da un punto di vista antropologico – è che questi benefici convivono con il dato originario: la montagna è nelle Black Hills, territorio sacro conteso, e il monumento è nato da un accordo tra un singolo leader Lakota e uno scultore bianco, senza un consenso familiare e collettivo largo rispetto alla figura di Crazy Horse.

Conclusione: un monumento incompiuto come sintomo

Alla fine, forse il fatto che il Crazy Horse Memorial non sia mai “finito” è meno un incidente di percorso, e più il riflesso di tensioni irrisolte:

  • tensione coloniale: un contro-monumento che usa gli stessi strumenti (carving gigante su terra sacra) del monumento a cui vorrebbe opporsi;
  • tensione economica: un grande ente non profit turistico con patrimonio e flusso di visitatori importanti, a fronte di comunità Lakota che vivono ancora in condizioni di forte marginalità;
  • tensione politica interna: Lakota favorevoli, contrari, indifferenti; chi valorizza le borse di studio e chi vede nella montagna un sacrilegio.

 

Formalmente: i soldi dei biglietti vanno alla Crazy Horse Memorial Foundation, ente non profit; non risultano come “stipendio diretto” alla famiglia.

Di fatto: la famiglia Ziolkowski controlla la fondazione, percepisce stipendi/ruoli e la quota che arriva in beneficenza diretta alle comunità Lakota è limitata, motivo per cui molti Lakota parlano di grande business turistico e appropriazione. Dalle dichiarazioni fiscali più recenti (ProPublica, Charity Navigator etc.)  diversi membri della famiglia Ziolkowski figurano tra i dirigenti più pagati  della Crazy Horse Memorial Foundation. Per l’anno fiscale 2024:

Caleb Ziolkowski: compenso annuo 170.000 dollari più 18.000 di altri benefit;

Monique Ziolkowski: 115.000 dollari più circa 16.000 in benefit. La stessa Monique nel 2018 ha percepito 162.885 dollari di stipendio più 16.726 in benefit.

Andando indietro troviamo nei rendiconti anche gli alti stipendi di Ruth Ziolkowski, vedova dello scuoltore, CEO per molti anni,  di Jadwiga Ziolkowski e di Vaughn Ziolkowski. Nel Form 990 però troviamo  solo officer e key employees e i dipendenti oltre i 100.000 dollari l’anno, quindi se – per esempio – figurano 10 nipoti che percepiscono 80.000 dollari l’anno, non lo vediamo.

Ma ATTENZIONE: ci sono attività commerciali “parallele” di proprietà della famiglia.

Accanto alla Crazy Horse Memorial Foundation (non profit) esiste una società privata legata alla famiglia, chiamata Korczak’s Heritage, Inc.

Da fonti ufficiali e da materiali promozionali risulta che Korczak’s Heritage:

gestisce l’“Official Gift Shop of Crazy Horse Memorial” (negozio di souvenir e gadget);

gestisce il Laughing Water Restaurant, il ristorante panoramico sul sito del memoriale;

si occupa anche di altri servizi collegati (food & beverage, tour, ecc.), come indicato in vari profili aziendali.

 

Raffaella Milandri

Raffaella Milandri

 

Scrittrice e giornalista, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia.
Membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi. Attualmente conduce un programma radiofonico sulla musica nativa americana, "Nativi Americani ieri e oggi" e cura la riubrica "Nativi" su L'AntiDiplomatico.

 

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