Carla Filosa - Ancora sulla Rerum Novarum
di Carla Filosa
L’elezione del nuovo papa Leone XIV ha scatenato la caccia ai precedenti del nome, come se ciò significasse un sicuro imprinting di questo nuovo papato in un contesto ancora tutto da vivere. C’è chi ha parlato di Leone Magno, chi di Leone III, nel loro ruolo di contrasto o adesione alla politica dominante dei loro tempi, come un’anticipazione predittiva della politica estera di questo presente o forse con un intento, tipico del pensiero dominante di sempre, di indurre da subito una linea politica usabile per inculcare uno pseudo <pensiero> nelle teste “senza idee” delle popolazioni subalterne.
Mediante una malintesa speranza e rassicurazione religiosa, il potere ha sempre saputo far precipitare le masse da sottomettere nella passività, nell’abulia e nel conformismo silenziato, anche attraverso la diffusione capillare della “stupidità informata”, tecnicamente parcellizzata. Sfruttando l’emotività generale dovuta alla perdita di un papa in cui i poveri del mondo si sono sentiti sostenuti e identificati, si è dato l’assalto ad una <comunicazione> esteriore che, in uno sbiadito o proprio mancante ricordo storico, si potessero ripristinare i contenuti abbandonati di un’Enciclica del predecessore, Leone XIII, come un rinnovo di quella che fu considerata come innovazione e “dottrina sociale della Chiesa”. Prima di rammentare la Rerum Novarum di Leone XIII, quindi, sembra utile dire qualcosa su questa immediata falsariga del “totopapa” da inserire nei binari di una lotta sulla forma della comunicazione, ormai assurta a occupare una funzione di rilievo, funzionale ad assoggettare all’ipocrisia manipolatrice e perbenista la consueta espressione del dispotismo sul sapere.
Anche se è chiaro che un discorso inaugurale non può che basarsi su concise espressioni universali, senza precisarne i reali contenuti, tipo “pace” o “il male non prevarrà”, l’attesa degli esclusi dal potere è quella di aspettare la concretizzazione di parole che non siano semplice denuncia della banalità di luoghi comuni, ma che indichino le cause reali delle guerre e della pervasività di tutti i mali che si vivono. La vera scommessa su questa futura guida pastorale sarà quindi se proseguirà su slogan-veicolo della folle comunicazione di massa per negare i contenuti antagonistici della lotta di classe in tutti i campi, o se invece non separerà la critica dei contenuti dalla capacità comunicativa che, se resa meramente formale, è solo presunta e risulta inspiegabilmente autonoma. Ma proprio una comunicazione staccata violentemente dai suoi contenuti concettuali, come ora la propagandata Rerum Novarum resuscitata sic et simpliciter, e affidata all’arbitrio di personaggispettacolo o di suggeritori prezzolati di testate privatizzate, è ciò che sempre brama il potere costituito.
Altrimenti la comunicazione del <comunicato> rimane solo una “ribellione degli scheletri”, dogmatica e demagogica e quindi inesistente come ribellione stessa: scheletri che tornano a essere polvere quali erano in principio, meri ectoplasmi che hanno appunto l’antico significato di forma che sta fuori di essi, senza alcun contenuto reale, una parvenza di autenticità che dà una illusione di tridimensionalità, consegnata nelle “parole delle chiacchiere” ai loro <grandi comunicatori> a ciò adibiti: una serie di ologrammi.
La lotta così del marxismo, sia pure vanamente con forze residue, si combatte sul tenere unite le forme della comunicazione con i suoi contenuti – ovvero cause oggettive, contesto storico, funzioni, ecc. – nell’eliminazione della crassa ignoranza e abbandono di ogni memoria, sostituite da illusorie prese di posizioni infondate e moralistiche. Marxista è poi l’accusa ormai di moda da parte di chi ne ignora il senso, ma di sicura efficacia nei confronti di chi in qualche modo combatte i bastioni del profitto e ne ricerca il superamento comunque lo si voglia chiamare. Non a caso è stato già affibbiato a questo nuovo papa individuato come pericoloso dopo il saluto in lingua ispanica, testimone di un collegamento forte con un cosiddetto Terzo Mondo da non considerare più orto di casa, come nella dottrina Monroe. Marx fu costretto a ripetere fino alla nausea che “la folla è il gregge senza idee, che riceve pensieri e sentimenti dalla classe dominante. Finché il socialismo non si è fatto spiritualmente strada tra le masse, il plauso della folla non può che andare a gente senza partito o a oppositori del socialismo; solo un’esigua minoranza della classe lavoratrice si è innalzata fino al socialismo. E tra gli stessi socialisti quelli che lo sono nel senso scientifico del Manifesto comunista sono a loro volta una minoranza. La grande maggioranza dei lavoratori, quelli almeno che si sono destati alla vita politica, sono ancora avvolti nelle nebbie di aspirazioni e di frasi democratico-sentimentali. Il plauso della folla, la popolarità è la prova che si è sulla falsa via. Guai a chi si perde nei vuoti giri di parole: parolai! phraseurs! odiare a morte i politicanti da strapazzo e la loro ciarlataneria. Pensare con rigore logico ed esprimere chiaramente i pensieri: ciò impone di studiare. Studiare, studiare! Mentre altri architettano piani per sovvertire il mondo e giorno dopo giorno, sera dopo sera s’inebriano con l’oppio del ″domani è la volta buona!″ Rivolgersi ai lavoratori senza possedere idee rigorosamente scientifiche e teorie ben concrete significa giocare in modo vuoto e incosciente con la propaganda, creando una situazione in cui da un lato un apostolo predica, dall’altro un gregge di somari lo sta a sentire a bocca aperta; un simile gesto avrebbe affossato il movimento e gettato i lavoratori tra le braccia dei capitalisti, invece di conquistarli. Finora, infatti, nulla è stato realizzato se non fracasso ed esplosioni improvvise e dannose, se non iniziative che condurranno alla completa rovina la causa per la quale ci battiamo. L’ignoranza non ha mai giovato a nessuno!”.[1] Il plauso della folla, la popolarità era la prova, per Marx, che si era sulla falsa via. La sua massima favorita era il “segui il tuo corso e lascia dir le genti” di Dante.
Sull’Enciclica di Leone XIII è stata effettuata una breve analisi in occasione del centenario, sulla rivista “La Contraddizione”, N. 24 del giugno 1991, che ora per rapidità di tempi, si ripropone qui sotto in risposta all’urgenza di una valutazione nel merito di un suo significato storico, oltre, contemporaneamente, come confronto a una sua possibile manipolazione nel presente. A questa seguì la Centesimus Annus di papa Wojtyla – di cui si fa cenno - che ad essa si richiamava, e che ne proseguì l’impostazione, arricchendola di un ipotetico “sfruttamento umano”! da contrappore a quello “inumano” del sistema di capitale, di questo colpevole, in cui, inoltre, nel suo mondo “permangono (...) fenomeni di emarginazione e di sfruttamento, specialmente nel “terzo mondo”, nonché fenomeni di alienazione umana, specialmente nei paesi più avanzati”. Parole che non conducevano mai al convitato di pietra individuabile nell’imperialismo, nella necessità della perenne conquista della democrazia sociale affidata alla formazione delle persone nella duplice attivazione materiale e spirituale, dove l’una non può e non deve mai escludere l’altra.
Chi intende rinverdire la positività dell’attenzione sociale della Chiesa Cattolica deve saper “discernere” - come chiedeva sempre anche Francesco! – “tra il maquillage dei valori superficiali, di chi negozia tutto, della mondanità, e il Vangelo”, oltre a “il rimanere non passivo, come il tralcio con la vite, per dare frutto”.
?La Rerum Novarum del 1891 è il primo risultato del raggiunto schieramento - ancorché contraddittorio - della politica ecclesiastica a fianco del nuovo sistema, che ha preteso la mutilazione irreversibile di un potere temporale anacronistico. È la prima presa d’atto della possibilità di riconversione di questo in un potere, appunto ora capitalistico, fatto di forte egemonia sociale e ricchezza finanziaria, che rendano credibile la superiorità dello spirito.
La difesa della proprietà privata, fissata a “diritto di natura”, e il conseguente attacco teorico, giuridico e politico al socialismo e al comunismo non sono che le carte di credito di una definita alleanza tra potenze imperialistiche, i cui investimenti nella comune cassa ecclesiastica avrebbero fruttato profitti nella stabilità del sistema e possibilmente anche dei singoli governi. La Chiesa si erge quindi a mediatrice della conflittualità sociale, il cui esito pacificato in un “trascendente” obiettivo di cooperazione mitigherà, senza per carità eliminarla, l’ingiustizia sociale così eternata nei limiti insondabili dell’umanità.
La demonizzazione del possibile esito della lotta di classe a favore delle masse espropriate - l’eresia capitalistica - è il nemico comune che la Chiesa affronterà con le armi ben più sottili e seducenti della pazienza e della fede. Il condizionamento, da parte di questi valori, del mercato del lavoro - negato solo eticamente [l’uomo non può essere merce!] - evoca già un futuro migliorato da un metafisico amore socialdivino. Alla rozzezza e pericolosità della repressione crispina, si sostituisce così l’evangelizzazione dei nuovi eretici, puntando sui più genuini sentimenti popolari da elevare a dignità sociale sacralizzata. Solo se la pace sociale diviene necessità interiorizzata lo “spettro” che si aggirava per l’Europa può essere esorcizzato per sempre.
Il ritardo della Rerum Novarum rispetto alla formulazione e diffusione delle dottrine e organizzazioni socialiste [43 anni dopo il Manifesto di Marx-Engels] doveva essere recuperato, proprio per contrastare l’incidenza sociale ormai raggiunta da queste forze di trasformazione. Se ne assumeva pertanto il linguaggio di impegno sociale, si facevano proprî alcuni obiettivi (libertà di associazione, tutela dei diritti, ecc.) divelti da quello conclusivo della conquista del potere. La pericolosità di questo doveva essere infatti dispersa mediante una funzione mediatrice di rassicurazione e provvida consolazione, nonché paterna tutela.
Contemporaneamente la condanna delle “libertà moderne” - del naturalismo, del razionalismo illuminista e soprattutto del liberalismo - doveva ricondurre a una supremazia politica, religiosa e sociale universale, emergente proprio dal radicamento programmatico, e poi realizzato, nelle masse lavoratrici. Queste furono strappate alle organizzazioni antagoniste anarchiche e socialiste e alla coscienza del loro essere classe, proprio quando ne sembrava più vicino il raggiungimento.
Il prospettato superamento della società borghese - caratterizzata dalla lotta di classe mutuata dall’analisi marxista - in una società utopicamente “più giusta”, costruita sull’associazionismo per il “bene comune”, anche in unità coi padroni, conferiva allo stato un ruolo di benevolo patrocinio corporativo. Alla Chiesa poi, era delegata l’organizzazione confessionale della società civile, quale forma di un particolarissimo stato temporale, i cui confini geografici erano segnati dal grado di autorevolezza e controllo politico sulla passività e affidamento dei proletarizzati, ormai da contare su un piano internazionale.
Nel suo “laico” istituzionalizzarsi, la religione abbandona ora formalmente il carattere socialmente oppressivo, visibilmente in crisi, dell’obsoleta alleanza trono/altare. Si getta invece alla rincorsa dei nuovi valori e prassi organizzative proprie dei liberali e democratici, che chiedono il contrattualismo, la sovranità popolare, la libertà d’opinione, di stampa, la separazione di chiesa e stato, affermando così il primato della coscienza individuale sull’autorità. È chiaro che tutto ciò escluderebbe il controllo sociale ecclesiastico, qualora esso stazionasse ancora nella trincea agonizzante dell’ancien régime, colpito mortalmente dal vitalissimo capitale nella fase matura dell’imperialismo.
La rincorsa è perciò l’unico mezzo per impadronirsi delle nuove armi storiche da rivolgere contro i loro stessi artefici. Può così ingenerare confusione, divisione, indebolimento nelle lotte, e contemporaneamente continuare il vecchio gioco sui due tavoli del liberalismo e del socialismo, contrapponendoli, condannandoli, anche con la scomunica, e soprattutto erodendo ogni comune passo verso un’ancora indistinta emancipazione dell’individuo o dell’essere sociale.
Teorici come De Lamennais offrono la loro filosofia, semper ancilla, a questo rinnovo del look limitato a metodi, alleanze, interlocutori. Ma ancora le alte gerarchie non hanno assimilato l’insegnamento domenicano per cui gli eversivi debbono essere imitati per la loro esteriorità, e così ritardano l’avvio del socialcristianesimo. Non a caso l’operazione gattopardesca verrà invece raccolta dai partiti cattolici, infiltrandosi nei diversi strati sociali, soprattutto in quello contadino più turbolento e minaccioso in un’Europa ancora con ampie sacche di arretratezza industriale. L’autonomia coscienziale, iniziata sin dai tempi della riforma luterana, aveva trovato nell’ambito culturale e politico il supporto illuministico e liberale, e sul piano sociale quello socialista e comunista, nei termini scientifici dell’analisi marxiana come frattura ideologica dalle filosofie del consenso.
Di fronte perciò all’imminente disgregazione della società di classe, la futura esistenza della Chiesa si lega alla sua capacità di fornire una oppiacea visione sociale, organicamente ordinata perché pervasa da spirito cristiano e solidaristico. In tal modo si può ricorrere all’occultamento del conflitto insito nella concorrenza e nei monopoli, come pure della repressione di cui questi avrebbero avuto ineluttabilmente bisogno. La Rerum Novarum è stata il risultato di questo “balzo in avanti” clericale, concretizzatosi nelle istituzioni sociali autonome (scuole, ospedali, banche, associazioni, partiti, sindacati, giornali, ecc.) quali veicoli dottrinari e insieme modelli operativi di soluzione dei mali del capitale. La “dottrina sociale” non esclude nessun ambito, entrando anche nel merito di questioni come il salario e lo sciopero, vitali per il profitto, da condizionare eticamente per tutelarlo nella prassi. Questo spiega anche perché i fascismi europei mantennero - nonostante le contraddizioni - il sostegno ecclesiale, anch’esso in cordata nella cintura sanitaria contro il bolscevismo e le sue possibili estensioni.
È in questo quadro dunque che vanno lette le “novità” della Centesimus Annus. All’indomani di una sempre più virulenta offensiva nella direzione di una riproposizione egemonica, in termini nunc et semper etici, di un’identità sociale fortemente in crisi su tutti i piani. La necessità di collocarsi entro un’occidentalizzazione forzata di un precario quadro mondiale, fa spendere un’inedita chiesastica “fantasia creatrice”. È l’ipotesi dell’istituzionalizzazione (decisionismo delle regole), forte quanto utopica, di una libertà sociale ipostatizzata, da cui emanerebbe un libero mercato, arricchito da liberi soggetti ugualmente degni di rispetto nelle reciproche differenze [secondo l’ordinamento autentico datone dall’estensore economico prof. Zamagni].
In pieno odore di continuità, la giustezza della “profezia” leoniana circa l’ingannevole attraenza del socialismo - evidentemente frutto di una platonica ignoranza del Vero, del Bene inteso qui come Proprietà Privata - si è affermata con la vittoria delle forze congiunte dell’anticomunismo. Conclusasi appunto dopo circa cento anni, la guerra senza esclusione di colpi è stata sacralizzata - vinto il Male con questa “oggettività” e non per l’arbitrio dei più forti - si riaffaccia la vecchia tesi teocratica secondo cui il papato, in quanto giudice supremo di ogni controversia, dispone di una “plenitudo potestatis” circa soprattutto la definizione universale di società giusta. Ancora una volta è il potere clericale che incorona il sistema dominante. I vincitori possono allora criminalizzare il vinto marxismo, esorcizzandolo di contrabbando come “militarismo”, e stravolgendone gli assunti, tanto nessuno più se ne accorgerà.
La novità dell’enciclica sta dunque nel giustificare e ratificare. La riduzione della lotta di classe a “discussione onesta” in funzione del “bene comune” non è che il disarmo delle masse. Queste sono state già deprivate degli opportuni luoghi sociali (partiti, sindacati, organizzazioni) in cui la parola avrebbe avuto valore decisionale. La pseudo-partecipazione degli istituti-fantoccio che ne sono derivati non può che imbrigliare ulteriormente le masse in una comunicazione autoreferenziale, senza via d’uscita dalla subalternità impotente cui sono state relegate. È per questo che esponenti di rilievo come Del Turco e Trentin hanno evitato immediati commenti all’enciclica, trincerandosi dietro una professione d’ignoranza (giusta per altri aspetti), mentre in Vaticano accordi sorridenti venivano stipulati con l’ex cislino Marini, promosso ministro del lavoro. Lo scompaginamento dell’opposizione, la cattura dei sindacati, non potevano che suscitare il plauso dei padroni più avvertiti (e dei servi sciocchi, anche verdi come Mattioli), che nel ribaltamento del senso hanno riconosciuto l’alleato affidabile di sempre.
“La Chiesa non ha modelli da proporre” è una excusatio non petita nel momento in cui essa propone, e con forza, “la giusta funzione del profitto” in grado di rendere “i bisogni umani debitamente soddisfatti”. La soddisfazione, notiamo noi, è nella celebrazione bolognese del 1° maggio associato al 100° anno della Rerum Novarum, concludendo così l’obiettivo leoniano di “strappare la coscienza socialista dei cristiani”, dilacerandola.
Nel sistema riconosciuto come guida progressiva si inserisce però un cuneo: il Terzo mondo. “L’universale destinazione dei beni della terra” deve riguardare anche quest’area, in cui la Chiesa sembra individuare il terreno giusto di ristabilimento della sua egemonia - drammaticamente in crisi nell’ultimo conflitto bellico - data anche la maggior facilità di presa coscienziale. È qui che dovrà svolgersi il confronto col capitale, nella misura in cui questo contrapporrà i nemici fondamentalisti e l’odiato “materialismo” troppo consumistico e sfruttatore all’universalismo cattolico, ormai bacino di raccolta di ogni forma religiosa esistente e perché no, se possibile anche atea.
“Colpire l’anello più debole” nel terzo mondo, fu già la strategia britannica nell’inviare il colonnello Lawrence a sollevare le tribù nomadi arabe contro l’impero turco da disgregare. Questa “saggezza” inglese, madre del capitale, sembra riecheggiare nel momento in cui ogni terza via è definitivamente tramontata. La Chiesa diviene complementare allo Stato regolato dal capitale, ma l’uomo non è più quell’individuo liberale da atomizzare, è un essere sociale rubato al comunismo - ma pochi se ne accorgeranno! - e da trasformare in Spirito. Non è un anniversario la Centesimus Annus, è un piano di aggressione in cui gli scudi stellari sono tecnologia superata. In sostituzione del comunismo si lancia una sfida come cultura della transizione per il superamento del capitalismo storico verso un capitalismo ideale. A quale regno di Dio sulla terra? ?
[1]Colloqui con Marx ed Engels: Testimonianze sulla vita di Marx ed Engels di Hans Magnus Enzensberger, Feltrinelli