AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NUOVA LEGGE PER UN PERCORSO CON RADICI LONTANE

AUTONOMIA DIFFERENZIATA: NUOVA LEGGE PER UN PERCORSO CON RADICI LONTANE

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di E.Gentili, F.Giusti

Con l’inizio del nuovo Millennio iniziatala devoluzione alle Regioni di responsabilità amministrative che prima erano in capo allo Stato. Ciò ha favoritolo sviluppo di livelli di spesa sociale e infrastrutturale maggiormente differenziati fra una regione e l’altra[1], consentendo in tal modo di sgravare tanti imprenditori da una serie di costi e rigidità di contesto che avrebbero minato la loro competitività sul mercato.

A nostro avviso dietro le richieste di nuove autonomie regionali si anniderebbero in realtà dei malcelati interessi imprenditoriali. I dislivelli economici fra zone differenti d’Italia – ad esempio la sanità del Meridione nel confronto con quella del Nord-Ovest – sarebbero perciò, almeno in parte, una conseguenza diretta delle difficoltà del nostrano ceto imprenditoriale a risultare competitivo sui mercati esteri.

L’autonomia regionale prima del Governo attuale

  1. Fondamenti della legislazione precedente

            La legislazione sull’autonomia regionale ruota attorno alla Riforma del Titolo Vdella Costituzione italiana, ordita dal centro-sinistra nel 2001. Questa revisionò alcuni articoli costituzionali, concedendo a ogni Regione ordinaria: la possibilità di intraprendere l’iniziativa per l’avvio del processo di “autonomizzazione” (art. 116); la potestà legislativa esclusiva su un elenco di materie fondamentali, prima di competenza dello Stato centrale, fra le quali «tutela e sicurezza del lavoro», «ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all'innovazione per i settori produttivi» e «previdenza complementare e integrativa» (art. 117); l’autonomia finanziaria di entrata e di spesa per tutti gli enti locali, che «Stabiliscono e applicano tributi ed entrate propri, (...) dispongono di compartecipazioni al gettito di tributi erariali riferibile al loro territorio» (art. 119).

I decreti attuativi tardaronodiversi anni ad arrivare, mentre altre disposizioni furono puntuali e assolutamente fondamentali per preparare il terreno. Fra queste, le principali sono:

- L. 421/1992 (csx), che decentrò le prime tasse alle Regioni (tassa automobilistica, contributi sanitari, Ici ed altre);

- leggi finanziarie per gli anni 1995 e 1996 (L. 725/1994, cdx; L. 662/1996, csx) e L. 446/1997(csx), che fra le varie cose istituirono Irap e Irpef, con destinazione d’uso vincolata alla sanita? pubblica;

- L. 133/1999 e D. Lgs. 56/2000 (entrambe del csx), che recarono importanti modifiche ai criteri per la ripartizione regionale dei finanziamenti, sostituirono alcuni sovvenzionamenti statali alle Regioni (cd. “trasferimenti”) con l’aumento delle aliquote di compartecipazione dell’addizionale Irpef e dell’accisa sulla benzina e, infine, liberalizzarono l’utilizzo dei fondi concessi alle Regioni.

  1. Funzionamento del meccanismo legislativo

            Il problema principale di un funzionamento amministrativo “regionalista” è che le nuove competenze attribuite agli enti locali necessitano, sì, di essere finanziate, ma non tutte le Regioni possono vantare le stesse possibilità? economiche. Per questo motivo e? stato istituito un Fondo perequativo nazionale[2] senza vincoli di destinazione d’uso, avente come obiettivo dichiarato quello di garantire la stessa qualità? ed efficienza nell’erogazione dei servizi di nuova competenza delle Regioni nonostante le differenze esistenti[3]. Le risorse del Fondo sono attribuite alle Regioni principalmente tramite compartecipazione regionale al gettito Iva, che come si sa e? un’imposta nazionale: in caso di una capacita? fiscale insufficiente e/o una capacita? di erogazione dei servizi inferiori ai limiti fissati per legge, perciò, le Regioni hanno la possibilità di partecipare alle entrate erariali dello Stato. In che modo?

La compartecipazione all’Iva e? prevista specificamente «allo scopo di finanziare il Fondo perequativo per il finanziamento della sanita?»[4]. La quota di tale compartecipazione varia da Regione a Regione è stabilita annualmente[5] ed è composta di due parti: una invariabile e un’altra che può essere “gonfiata” o, al contrario, “livellata” sulla base delle necessità della Regione specifica. Quest’ultima servirebbe a evitare la crescita degli squilibri socioeconomici fra regioni. Ora, se da un lato la percentuale di finanziamento perequativo è la stessa da Nord a Sud e tende a crescere (siamo passati dal 5% del 2002 al 30,5% del 2019), dall’altro permane un problema sulle modalità con cui, effettuando il calcolo del fabbisogno regionale, la percentuale viene tradotta in quantità esatta di denari. Il fabbisogno, infatti, è considerato come la media dei consumi finali della popolazione regionale (quelli sui quali lo Stato applica l’Iva), pur se sulla scorta di «parametri che tengono conto della popolazione, della capacita? fiscale, della dimensione geografica e del fabbisogno sanitario»[6] specifici. Incrociare i consumi con i dati storici significa parametrare il livello di benessere economico di quella Regione sulla base della sua propria storia, invece che sulla base dell’andamento medio dell’economia nazionale. Per meglio dire, i criteri per l’accesso ai fondi statali sono declinati sulla base dell’andamento dell’economia regionale, anziché nazionale. L’obiettivo, dunque, non è la riduzione o il mancato accrescimento delle diseguaglianze interregionali, quanto piuttosto impedire che l’acquisizione delle nuove autonomie determini un nuovo buco di bilancio regionale. Se il D. Lgs. 56/2000 stabilisce che la compartecipazione all’Iva «e? calcolata con DPCM utilizzando come indicatore di base imponibile la media dei consumi finali delle famiglie rilevati dall'ISTAT a livello regionale [corsivo nostro] negli ultimi tre anni disponibili» e, soltanto in ultimo, «a questa base viene applicata l'aliquota precedentemente stabilita»[7], e? chiaro che la variabile principale per determinare la quota di compartecipazione sia il gettito Iva che la Regione “produce”. Contrariamente a quanto sostenuto dai governi, perciò, la politica di finanziamento della sanita? non contrasta efficacemente l’azione dei “cicli economici”.

“Strano!” – dira? qualcuno –, perché? se negli ultimi anni l’inflazione e? aumentata allora anche il gettito Iva complessivo potrebbe essere aumentato. Eppure, «se si valuta la spesa [sanitaria] in termini reali, si registra un calo che l’ha riportata attorno ai valori del 2004»[8], [9].Gli attuali criteri federalistici per la distribuzione delle risorse finanziarie, dunque, stanno semplicemente consentendo un collasso controllato e graduale dei sistemi sanitari regionali, mentre ridimensionano il Ssn pubblico a vantaggio del privato.

III. Incremento o diminuzione del divario interregionale?

            La domanda posta dal titoletto qui sopra non è scontata. Anzitutto perché la dinamica del divario economico interregionale negli anni successivi all’approvazione dell’autonomia in Costituzione (2001) non è facilmente associabile agli effetti di questa politica specifica in quanto dipende da una molteplicità di fattori, come ad esempio le differenti traiettorie di sviluppo regionali o il contesto economico dei territori circostanti (anche esteri).Ad esempio, volendo prendere il Pil delle regioni raggruppate per area geografica(Nord, Centro e Sud)[10] si noterebbe che dopo il 2000 vi è stato un capovolgimento della situazione: dacché nel periodo 1995-2000 le tre macroaree crescevano in maniera abbastanza equilibrata (Nord +4,59%; Centro +4,7%; Sud +4,76%), la situazione di dieci anni più tardi (2000-2010) appariva profondamente diversa, in quanto nel Mezzogiorno semplicemente non sembrava essersi realizzata la crescita avvenuta nel resto del Paese (Nord +5,3%; Centro +5,26%; Sud +4,69%)[11]. Ciononostante, non è possibile attribuire con sicurezza il dato agli effetti dell’autonomia. Quel che possiamo fare è prendere uno di quei settori economici in cui gli effetti della regionalizzazione sono stati più evidenti: ancorala sanità, che nei bilanci regionali resta di gran lunga la voce di spesa più grande.

            Il Sistema Sanitario Nazionale era originariamente (1978) finanziato da un apposito fondo statale le cui risorse, al fine di arrivare a formulare una stima del fabbisogno annuale, venivano già allora ripartite fra le Regioni[12] in base a criteri demografici (numero ed età della popolazione regionale, per quanto pur sempre rapportati alla spesa sanitaria storica).

In seguito, il finanziamento del Ssn seguì le sorti comuni alle altre materie oggetto di autonomia. Prima di tutto venne parzialmente regionalizzato (col risultato di far nascere i famosi ticket):se i livelli essenziali di assistenza (Lea) venivano ancora garantiti col vecchio fondo statale per la sanità, il resto doveva ormai essere finanziato con fondi regionali autonomi[13]. Verso il finire degli anni ’90, poi, anche il finanziamento della sanità diventò principalmente regionale (Irap, Irpef).

A quel punto, per evitare l’approfondirsi dei disequilibri tra Regioni il legislatore optò per la nascita di un fondo perequativo. A questo però finì per sovrapporsi e sostituirsi il preesistente fondo statale per la sanità[14]: né prima, né dopo l’autonomia, dunque, le sanità regionali erano indipendenti dai finanziamenti statali (un problema di bilanci regionali, questo, che le prime leggi autonomiste hanno aggravato). Ciò ha comportato per anni lo stallo del processo di autonomizzazione e difatti gli anni ’10 sono stati testimoni di un aumento del grado di controllo statale, espresso con le limitazioni sulla fissazione degli importi delle tasse regionali, coi “piani di rientro” dai disavanzi di bilancio[15], con un maggiore monitoraggio statale (con relative eventuali sanzioni) sull’attuazione dei Lea e dei “piani di rientro”, nonché in ultimo con la possibilità, per la Regione, di accendere un mutuo trentennale con lo Stato per il risanamento economico[16].Questa situazione ha fatto precipitare molte realtà del Mezzogiorno in una spirale di “risanamento” infinita, perché pressoché irrealizzabile. Ladiffusione della sanità privata, il potenziamento di quella integrativa e la contemporanea, progressiva dismissione della pubblica, hanno fatto il resto.

Ma oggi, in un Paese come l’Italia, la devoluzione delle competenze alle Regioni è un approccio amministrativo sostenibile e democratico? Secondo uno studio della Funzione Pubblica Cgil (2017) in Lombardia le entrate regionali coprivano il 40% del fabbisogno sanitario, nel Lazio il 37 e in Emilia-Romagna il 35, mentre in Puglia e Campania il 16% e in Calabria e Basilicata soltanto l’8. Inoltre «Un possibile aumento di 0,5 punti dell’addizionale Irpef produce un gettito di 630 milioni in Lombardia, solo di 135 in Campania, di 51 in Calabria e di 19 milioni in Basilicata»[17]. Stando così le cose si condanna il Mezzogiorno a un sottosviluppo sanitario obbligato, determinato dalla rincorsa per garantire i Livelli Essenziali e da uno sforzo perpetuo per il contenimento della spesa. La privatizzazione poi, pur colpendo la popolazione da Nord a Sud, avvantaggia ulteriormente le regioni settentrionali, che attraggono più investimenti.

Particolarmente dure sono le critiche dell’Anaao, l’associazione dei medici, che parlano di concorrenza selvaggia per acquisire le risorse necessarie. Fra l’altro sono ancora vigenti i tetti di spesa in materia di personale nella Pa, ragion per cui il ricorso a interinali e terzo settore diverrà obbligato e i servizi sanitari continueranno a deteriorarsi.

  1. L’autonomia regionale col Governo Meloni (L. 86/2024)

            La L. 86/2024 è la nuova disposizione attuativa della Riforma del Titolo V costituzionale, avente quindi come scopo la definizione di norme e criteri per la regolazione di quanto già approvato precedentemente in altre leggi e non, come ci si potrebbe aspettare, la predisposizione di un piano politico ex novo. Di conseguenza bisogna tenere presente che il Governo sta attuando una legge promulgata dal centro-sinistra.

Le principali questioni da affrontare sono tre:

-           l’incremento delle materie regionalizzabili e le modalità con cui farlo. Una delle novità[18]  è la possibilità di regionalizzare le materie trasversali[19], o anche soltanto degli ambiti specifici di queste, come ad esempio la “tutela della concorrenza economica”;

-           il Parlamento mantiene un potere limitato nella definizione e nella rescissione degli accordi Stato-Regioni. La contrattazione continuerà ad avvenire sostanzialmente col Governo, in quanto le Camere potranno emettere solamente degli atti di indirizzo non vincolanti sugli schemi (bozze) di accordo, mentre dovranno poi approvarlo o respingerlo direttamente nella sua versione definitiva e non modificabile[20]. La recente evoluzione della normativa sull’autonomia, però, richiederebbe una maggiore democrazia istituzionale;

-           il rischio di una consistente frammentazione normativa e burocratica. Il trasferimento di poteri agli Enti locali predispone naturalmente la proliferazione di norme ad hoc in luogo di un’unica normativa nazionale e, in generale, la complicazione dei processi amministrativi gestionali. Causa, inoltre, l’aumento del carico di lavoro per gli Enti locali, già spesso e volentieri pesantemente sotto organico. Il Governo ha giocato la vecchia carta della “razionalizzazione amministrativa”, semplificandole procedure per l’accesso, la gestione e l’utilizzo dei fondi concessi alle Regioni[21]. Sarà sufficiente? Un piano straordinario di assunzioni per Regioni e Comuni sarebbe quantomai necessario.

I problemi, però, non finiscono qui. Generalmente la regionalizzazione integrale di una materia comporterà l’obbligo di garantire il rispetto di determinati Livelli Essenziali di Prestazioni (Lep), a tutela del benessere economico e sociale e dell’omogeneità di sviluppo fra territori diversi[22]. Sarà importante capire quali saranno in concreto questi Livelli, dato che su questo il Governo deve ancora legiferare, ma alcuni dei rischi sono ipotizzabili fin da ora: forti pressioni per la privatizzazione dei settori in difficoltà; rischio di revoca dell’autonomia per le Regioni inadempienti, probabilmente quelle più povere (qualora i Lep non vengano rispettati, la nuova normativa[23] prevede la possibilità di revoca dell’autonomia sulla materia cui i Lep si riferivano).

C’è poi una terza ipotesi che vogliamo avanzare, probabilmente la più grave. I Lep esistono da oltre vent’anni[24] ma, ciononostante, in genere nessuno sa se vengano rispettati o meno. Il problema sembra essere il sistema di gestione e monitoraggio, la cui implementazione risulterebbe difficile e costosa. E se è vero che «le regioni, per la gran parte, già oggi non sono all’altezza del compito loro richiesto dalla legge», e che «La carenza dei dati di monitoraggio impedisce di fatto l’esercizio del potere sostitutivo del governo previsto dall’articolo 120, comma 2 della Costituzione e dall’articolo 3 comma 5 della legge che sta per entrare in vigore»[25] (la L. 86/2024 è operante dal 13 luglio scorso), allora le acque iniziano a farsi torbide. È forse possibile che il percorso verso l’autonomia regionale si stia configurando – e non per caso – come un combinato disposto di fattori che permettono di fornire un unico quadro di sviluppo per un Paese capitalista che, dal punto di vista economico, avrebbe bisogno di due cose diverse? Ossia: territori economicamente performanti in grado di garantire livelli europei di prestazioni e quell'integrazione delle filiere economico-produttive anch’essa tipica dell'Europa centrale; territori meno sviluppati che non devono costituire un costo per lo Stato, il quale tramite la deregolamentazione de facto originata dalla fallimentare gestione dei Lep vorrebbe per il momento rinunciare alla possibilità di revocare l’autonomia. Si tenga presente, infatti, che «Alla individuazione dei Lep dovrebbe seguire la determinazione dei costi standard (di efficienza) delle attività che concretizzano i Lep stessi, per poi arrivare infine al fabbisogno standard complessivo necessario sia a quantificare il finanziamento [statale] necessario a garantire i Lep (…), sia a calcolare i meccanismi perequativi»[26] per i territori economicamente meno sviluppati.

Nei piani del legislatore il soddisfacimento dei Lep su tutto il territorio nazionale garantirebbe quel livello minimo di unità territoriale in grado di consentire allo Stato di smettere di finanziare le Regioni con trasferimenti ad hoc (e anche su questo ci sarebbe molto da ridire…). Di conseguenza, in mancanza di dati di monitoraggio sul livello di soddisfacimento dei Lep lo Stato procede ai trasferimenti erariali sostanzialmente sulla base delle necessità di bilancio regionali, con ciò accettando implicitamente i divari esistenti fra i territori.

Chiudiamo prendendo a esempio i Lep della materia “Tutela e sicurezza del lavoro”, istituiti alcuni anni fa su mandato del Jobs act ma rimasti largamente inapplicati. Pur trattandosi di “livelli minimi di prestazioni” da assicurare a tutta la popolazione residente come parte del diritto alla cittadinanza, secondo dati Anpal nel Mezzogiorno vengono “attivate” solamente il 69,06% delle azioni che garantirebbero il completo rispetto dei Lep, mentre Centro e Nord viaggiano intorno al 76%. Anche i dati generali parlano di un Paese diviso in due: il tasso di assunzioni a tempo indeterminato è del 22,84% nel Nord, del 20,91% al Centro e solo del 15,56% nel Meridione; la presenza di imprese con saldi occupazionali positivi a carattere permanente è, rispettivamente, del 42,73%, 40,46% e 36%; le assunzioni di lavoratori con elevate competenze sono a 13,72%, 13,7% e 9,96%[27] (nonostante la diffusione delle aziende ad alta specializzazione del lavoro sia ancora “a macchia di leopardo” anche fra le Regioni settentrionali).

Almeno per il momento, quindi, i Leplasciano libere le realtà regionali di seguire traiettorie di sviluppo socioeconomico precipue, assecondando tendenze e caratteristiche preesistenti dei mercati del lavoro locali. Ad esempio, se i lavoratori dipendenti impiegati nei settori hi-tech erano, nel 2012, il 3,96% al Nord, il 3,65% al Centro (col traino dell’area romana) e l’1,9% al Sud, nel 2023 sono rispettivamente il 4,79%, 4,35% e 2,46%. Probabilmente vaste sacche di arretratezza coesisteranno con autentiche punte di diamante, il cui aumento andrà di pari passo con l’estensione delle aree economico-produttive del Paese in grado di sostenere la concorrenza internazionale. Ora, con l’istituzione dei Lep anche per molte altre materie, il timore è che quanto avvenuto con le politiche attive del lavoro possa verificarsi anche in sanità, nell’istruzione, nei trasporti, nella gestione dei beni culturali e dell’ambiente. Considerando, poi, che sostanzialmente i Lep non passano per il Parlamento (vengono approvati con DPCM[28]), è possibile che il Governo ne approvi larga parte senza suscitarvi attorno il minimo dibattito; nel Parlamento, come sui media e nella società civile in generale.

[1] Il divario tra la spesa sanitaria pro-capite del Nord-Ovest e quella del Mezzogiorno, ad esempio, è più che raddoppiato negli anni 2000-2018. Dati: M. Ciocci, F. Spagnolo, La spesa in sanità: i dati CPT per un’analisi in serie storica a livello territoriale, p. 13, Fig. 6. CPTInforma, n. 3/2020, per conto di Nucleo di Verifica e Controllo, Area 3, “Monitoraggio dell’attuazione della politica di coesione e Sistema dei Conti Pubblici Territoriali”.

[2] L. Cost. 3/2001, art. 119, c. 3.

[3]Vale la pena ricordare che i beneficiari non sono solo gli Enti locali ma anche le attivita? economiche private, nei limiti e modalita? stabiliti dalla normativa.

[4]Documentazione parlamentare della Camera dei Deputati, Focus del 14/02/2022.

[5] D. Lgs. 56/2000, art. 5, cc. 2 e 4.

[6]Documentazione parlamentare della Camera dei Deputati, Focus del 14/02/2022.

[7]Ibidem.

[8]Luca Gerotto: L’evoluzione della spesa sanitaria, Osservatorio conti pubblici italiani, Università Cattolica del Sacro Cuore, 14/03/2020.

[9] Fra il 2010 e il 2019 sono state promulgate oltre dieci leggi che, al netto dell’inflazione, stabilivano una riduzione degli stanziamenti per la sanità (la Legge di Stabilità per il 2015 si spinge addirittura a chiedere alle Regioni un contributo di 4 miliardi di €). È così, dunque, che nel decennio 2010-2019 «il finanziamento pubblico del SSN è aumentato complessivamente di € 8,8 miliardi, crescendo in media dello 0,9% annuo, tasso inferiore a quello dell’inflazione media annua pari a 1,07%». Se confrontiamo la spesa sanitaria pro-capite italiana con quella della media Ue viene fuori che siamo passati da un gap di 44$ nel 2010 a ben 873$ nel 2022. La spesa sanitaria in rapporto al Pil è stata del 6,27% nel 2023 e, in previsione, sarà del 6,2% per il 2026. Prima della pandemia, nel 2019, eravamo al 6,4.

[10] Per quanto riguarda le tre macroaree la suddivisione è la seguente: Nord (Lombardia, Veneto, Emilia-Romagna, Piemonte, Toscana, Liguria, Friuli-Venezia Giulia, Trentino-Alto Adige, Valle d’Aosta); Centro (Lazio, Abruzzo, Marche, Umbria); Sud (Campania, Puglia, Molise, Calabria, Basilicata, Sicilia, Sardegna).Infine si tenga presente che al netto dell’inflazione tutte le percentuali di crescita risulterebbero più basse e che la ricchezza territoriale non corrisponde a quella della popolazione pro-capite.

[11] Nostra elaborazione su dati Istat.

[12]L. 833/1978.

[13]D. Lgs. 502/1992, D. Lgs. 517/1993, D. Lgs. 229/1999.

[14]D.L. 347/2001.

[15]L. 311/2004. Lo Stato revoca alla Regione inadempiente parte dell’autonomia precedentemente concessa, assumendo una quota di controllo maggiore

[16] La Sentenza della Corte Costituzionale n. 149/2010 ha stabilito che i finanziamenti dello Stato sono necessari in quanto è quest’ultimo a dover risolvere la contraddizione fra le poche risorse economiche disponibili e l’egual diritto di tutti i cittadini alla salute.

[17]Antonio Marchini, La sanità in Italia dalle sue origini ad oggi, p. 45. https://www.fpcgil.it/wp-content/uploads/2021/06/LA-SANITA-IN-ITALIA-DALLE-SUE-ORIGINI-AD-OGGI.pdf

[18]L. 86/2024, art. 2, c. 2.

[19]In base all’Art. 117 della Costituzione esistono delle materie di competenza esclusiva statale (come la Difesa), altre di competenza concorrente fra Stato e Regioni e che sono quindi “regionalizzabili” e, infine, quelle di cosiddetta “competenza trasversale”. Queste ultime non presentano «i caratteri di una materia di estensione certa, ma quelli di una funzione [corsivo nostro] esercitabile sui più diversi oggetti» (Sentenza Corte Cost. n. 14/2004, punto 4).Stiamo parlando di: sostegno all'innovazione per i settori produttivi; grandi reti di trasporto e di navigazione; produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell'energia.

[20] L. 86/2024, art. 2, cc. 4 e 8.

[21]L. 86/2024, art. 10, c. 1, lett. “a” e “b”.

[22] Secondo l’Ufficio Parlamentare di Bilancio la mancanza dei Lep per alcune materie, come per esempio la previdenza complementare e integrativa, potrebbe «implicare la rimozione di qualunque fattore di unitarietà in settori potenzialmente oggetto di regionalismo differenziato, se non si provvede in altro modo a garantire la tutela dell’unità giuridica ed economica della Repubblica e ad assicurare il rispetto della normativa internazionale e sovranazionale» (in “Commissione parlamentare per le questioni regionali, Audizione dell’Ufficio parlamentare di bilancio nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla determinazione e sull’attuazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, p. 34”).

[23] L. 86/2024, art. 7, c. 1.

[24]DPCM 29 novembre 2001.

[25]Lucia Valente, Dove l’autonomia regionale è già realtà: i Lep nei servizi per il lavoro, «laVoce.info», 17 Luglio 2024. Si veda anche L. 86/2024, art. 7, c. 1.

[26]Luciano Cimbolini, Autonomia differenziata: materie, Lep, costi e fabbisogni per costruire il sistema, «Norme&Tributi+», inserto de «ilSole24Ore», 3 Luglio 2024.

[27] Nostra elaborazione su dati Ussl: Ufficio di Statistica di Sviluppo Lavoro Italia Spa (ex-Anpal Spa), Rapporto SISTAN 2023 - Domanda di Lavoro per CpI, https://public.tableau.com/app/profile/ufficio.di.statistica.sviluppo.lavoro.italia.spa/viz/RapportoSISTAN2023-DomandadiLavoroperCpI_17086755405150/home. In questi ultimi dati abbiamo inserito la Regione Toscana fra le regioni del Nord, anziché del Centro, mentre l’Abruzzo è stato assegnato al Centro invece che al Sud. È una scelta degli autori, compiuta nel tentativo di restituire un quadro più corretto e realistico della situazione.

[28]Decreto del Presidente del Consiglio dei Ministri.

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