A 38 anni dal genocidio di Sabra e Chatila. Non dimentichiamo. Giustizia per i palestinesi!
di Paolo Di Lullo
"Erano milioni e il loro ronzio… era eloquente quasi quanto l’odore.
Grosse come mosconi, all’inizio ci coprirono completamente, ignare della differenza tra vivi e morti.
Se stavamo fermi a scrivere, si insediavano come un esercito – a legioni – sulla superficie bianca dei nostri taccuini, sulle mani, le braccia, le facce, sempre concentrandosi intorno agli occhi e alla bocca, spostandosi da un corpo all’altro, dai molti morti ai pochi vivi, da cadavere a giornalista, con i corpicini verdi, palpitanti di eccitazione quando trovavano carne fresca sulla quale fermarsi a banchettare.
Se non ci muovevamo abbastanza velocemente, ci pungevano.
Perlopiù giravano intorno alle nostre teste in una nuvola grigia, in attesa che assumessimo la generosa immobilità dei morti.
Erano servizievoli quelle mosche, costituivano il nostro unico legame fisico con le vittime che ci erano intorno, ricordandoci che c’è vita anche nella morte.
Qualcuno ne trae profitto. Le mosche sono imparziali.
Per loro non aveva nessuna importanza che quei corpi fossero stati vittime di uno sterminio di massa.
Le mosche si sarebbero comportate nello stesso modo con un qualsiasi cadavere non sepolto.
Senza dubbio, doveva essere stato così anche nei caldi pomeriggi durante la Peste nera.
All’inizio non usammo la parola massacro.
Parlammo molto poco perché le mosche si avventavano infallibilmente sulle nostre bocche.
Per questo motivo ci tenevamo sopra un fazzoletto, poi ci coprimmo anche il naso perché le mosche si spostavano su tutta la faccia.
Se a Sidone l’odore dei cadaveri era stato nauseante, il fetore di Shatila ci faceva vomitare.
Lo sentivamo anche attraverso i fazzoletti più spessi.
Dopo qualche minuto, anche noi cominciammo a puzzare di morto.
Erano dappertutto, nelle strade, nei vicoli, nei cortili e nelle stanze distrutte, sotto i mattoni crollati e sui cumuli di spazzatura."
(Robert Fisk, "Il martirio di una nazione. Il Libano in Guerra")
Sono passati esattamente 38 anni dal massacro di Sabra e Chatila, 43 ore, due giorni e due notti di mattanza. Tra i 700 ed i 3.500 vennero massacrati dal 16 al 18 settembre del 1982 da miliziani libanesi cristiano- falangisti, sotto la supervisione e con il sostegno logistico dell’esercito di Tel Aviv che aveva occupato da poche ore Beirut ovest. 5.000 furono i dispersi.
Dal campo di Chatila era possibile vedere il tetto dell'Ambasciata del Kuwait, sul quale ammirava soddisfatto, Ariel Sharon. Il campo fu illuminato a giorno per tutto il tempo del massacro, perché nessuno uscisse vivo. Presumibilmente si trattò di una vendetta per l'attentato al quartier generale della Falange nella zona cristiana di Beirut, in cui perse la vita, il 14 settembre, il neo presidente libanese Gemayel, insieme ad altri 26 dirigenti falangisti.
Il giorno seguente le truppe israeliane invasero Beirut Ovest. Il 10 settembre, 11 giorni prima della data prevista, le forze multinazionali - statunitensi, francesi ed italiani - che avrebbero potuto difendere i campi profughi dopo la partenza da Beirut dei fedayin palestinesi e far rispettare l’impegno israeliano a non entrare nella parte occidentale della città assediata dal giugno precedente, si erano prematuramente ritirate. Sino ad oggi nessuno ha pagato, nessuno ha chiesto perdono al popolo palestinese e alle vittime dell’eccidio. Eppure il 16 dicembre 1982, con la risoluzione 37/123, sezione D, l'Assemblea delle Nazioni Unite condannò il massacro, definendolo "un atto di genocidio".
Nel suo messaggio presidenziale del 31 dicembre 1983 ai cittadini italiani, anche l'allora Presidente della Repubblica Italiana, Sandro Pertini, disse di Sabra e Shatila e di Ariel Sharon: “Io sono stato nel Libano.
Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile che dovrebbe essere bandito dalla società”.
"Da un muro all'altro della strada, rattrappiti o inarcati, i piedi di qua e il capo contro il muro opposto, i cadaveri gonfi e neri in cui continuamente inciampavo erano sempre di palestinesi e libanesi. Per me, come per tutta la popolazione sopravvissuta, girare per Chatila e Sabra era come giocare alla salta-cavallina. Basta un morto bambino a volte per bloccare una strada, sono strade così strette, quasi dei vicoli, e i morti talmente tanti! Mandano un odore che ai vecchi è familiare: a me non dava fastidio. Ma quante mosche! Se sollevavo la pezza, o il giornale arabo posato su una testa, le infastidivo. Inferocite dal gesto, mi venivano a sciami sul dorso della mano, in cerca di cibo. Il primo cadavere che ho visto era quello di un uomo di cinquanta o sessant’anni.
Avrebbe avuto una corona di capelli bianchi, se una ferita (un colpo d’ascia, mi è sembrato) non gli avesse aperto il cranio. Una parte del cervello annerita era a terra, vicino alla testa. Tutto il corpo poggiava su un mare di sangue, nero e coagulato. La cintura non era allacciata, i pantaloni si tenevano con un solo bottone. I piedi e le gambe del morto erano nudi, neri, violetti e malva: forse era stato sorpreso nella notte o all’alba? Fuggiva?
Era steso in una stradina immediatamente sulla destra dell’ingresso del campo di Chatila, che si trova di fronte all’Ambasciata del Kuwait. Il massacro di Chatila deve essersi consumato nei sussurri o in un silenzio totale, se gli Israeliani, soldati e ufficiali, pretendono di non aver sentito niente, né d’essersi accorti di niente nonostante occupassero questo edificio dal pomeriggio di mercoledì.
La fotografia non coglie le mosche, né l'odore bianco e greve della morte; e neppure dice che per proseguire bisogna saltare da un cadavere all'altro.
Ai primi morti, mi ero sforzato di contarli. Giunto a dodici o quindici, avvolto dall’odore, dal sole, micidiali, non ho più potuto, confondendosi tutto.
A Shatila, molti sono morti e il mio affetto, il mio amore per i loro cadaveri putrescenti, era grande anche perché io li avevo conosciuti. Neri e gonfi, putrefatti dal sole e dalla morte, erano ancora fedayn.
Verso le due del pomeriggio di domenica, tre soldati dell'esercito libanese, col fucile puntato, mi hanno condotto a una jeep dove sonnecchiava un ufficiale. Ho chiesto:
«Parla francese?».
«English».
Era secca la voce, forse perché l'avevo destato di soprassalto. Ha preso in mano il mio passaporto. Poi, in francese:
«Viene di là?» (con la mano indicava Chatila).
«Sì».
«E ha visto?».
«Sì».
«Lo scriverà?».
«Sì».
Mi ha reso il passaporto. Mi ha fatto segno di andare. I tre fucili si sono abbassati. Avevo passato quattro ore a Chatila. Ne avevo per ricordare circa quaranta cadaveri. Tutti - e dico: tutti - erano stati torturati, probabilmente da ubriachi che cantavano, ridevano, tra l'odore di polvere e già di carogna. Indubbiamente ero solo, intendo dire il solo europeo (con poche vecchie palestinesi, ancora aggrappate a un cencio bianco strappato; con pochi giovani fedayn disarmati) ma se cinque o sei esseri umani non fossero stati là, se avessi scoperto io quella città abbattuta, i palestinesi atterrati, neri e gonfi, io sarei impazzito. Dove ero stato? Quella città in briciole e a terra che ho visto o creduto di vedere, percorsa, sollevata, trasportata dall'odore possente della morte, c'era stato davvero tutto ciò?".
(Quattro ore a Chatila di Jean Genet, primo europeo ad entrare, il 19 settembre 1982, a Chatila)
In tanti, uniti ai superstiti del massacro di Sabra e Chatila, di cui si conoscono mandanti ed esecutori, chiediamo che sia fatta giustizia per la memoria dei morti e per i vivi. Chiediamo che i superstiti e tutto il popolo palestinese ricevano le scuse formali per il peggior crimine del secolo scorso. Crimine per il quale nessuno ha ancora pagato, nessuno ha risarcito i palestinesi, né moralmente né economicamente.
Noi resteremo con i palestinesi, continueremo a denunciare i crimini sionisti, a chiedere giustizia. Perché, non è solo uno slogan, ma non ci può esser pace senza giustizia.