Un quesito (che ci riguarda) sui fatti in Romania

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Un quesito (che ci riguarda) sui fatti in Romania

 


di Antonio Di Siena



Riflettendo sugli eventi che stanno sconvolgendo la Romania - e che in prospettiva potrebbero travolgere anche il quadro politico dell’intera Unione europea - c’è un quesito cruciale che bisogna porsi.




Epurando il tema da qualunque fronzolo, riducendo la questione all’osso, è infatti necessario chiedersi: quale che sia la ragione, all’interno di un sistema che si assume come democratico è giusto escludere dalle elezioni un dato candidato? E ancora, è compatibile con l’ordine democratico escludere il candidato favorito, quello che raccoglie il consenso maggioritario del corpo elettorale?

Sembra una domanda dalla facile risposta, in realtà è tutto il contrario. In Italia, ad esempio, la XII disposizione transitoria e finale della Costituzione sancisce il divieto esplicito di ricostituzione del partito fascista. Il nostro impianto giuridico cioè, dice che siamo un paese democratico, in cui le elezioni sono libere e tutti possono parteciparvi, tutti tranne un’unica formazione.

Siamo quindi davanti non a un sistema giuridico “neutro”, bensì politicamente orientato. Un sistema che nasce da qualcosa (eventi storici, politici e bellici), agisce in favore di qualcosa proteggendosi da qualche altra cosa. Ha cioè una direzione ben definita e identifica chiaramente un “nemico”, uno soltanto. È quindi giuridicamente assolutamente lecita la possibilità di escludere dalle elezioni un preciso partito politico, nonostante questo possa ipoteticamente incontrare il consenso della maggioranza della popolazione. Attenzione però, perché la norma non agisce sempre ma solo quando ci si ritrova davanti a un partito che persegua palesemente i medesimi obiettivi del disciolto PNF con i medesimi metodi. La legge infatti non è mai stata ritenuta applicabile a movimenti o singoli esponenti che accettavano la dinamica (e la dialettica) democratica come ad esempio il fu Movimento Sociale. Non è una differenza da poco, perché il nostro sistema non bandisce le idee ma esclusivamente metodi e finalità esplicitamente antidemocratici. Il che distingue, per l’appunto, una democrazia (quantomeno giuridica) da un regime.

Ora, pur non essendo un esperto di diritto rumeno vorrei azzardare un ragionamento di carattere para “comparatistico”, anche perché entrambi gli ordinamenti sono ritenuti compatibili con la normativa UE. Il riferimento è l’art.40 della costituzione rumena che prevede che “tutti i cittadini possano associarsi in partiti politici, a patto che questi non mettano in pericolo il pluralismo politico, i principi dello stato di diritto, la sovranità, l'integrità o l'indipendenza del paese”. Una norma estremamente più generica rispetto alla molto specifica XII disposizione transitoria italiana, e potenzialmente molto meno “democratica” perché lascia spazio a una enormità di interpretazioni, specialmente grazie al richiamo a “sovranità e indipendenza”.

I fatti sono noti. Nel 2024 Calin Georgescu, alla testa di un movimento indipendente, vince il primo turno delle elezioni presidenziali (22% di voti) con un programma fortemente antitetico rispetto all’agenda Ue/NATO.

Per gli organi di garanzia rumeni però il voto è stato viziato da “interferenze straniere” (russe), tramite TikTok, le elezioni vengono annullate e rimandate a maggio 2025. Qualche giorno fa Georgescu e il suo partito presentano domanda per partecipare alle nuove elezioni ma niente da fare, trattandosi di un “fascista con simpatie filorusse” vengono esclusi dalle presidenziali, con buona pace dei sondaggi che solo un mese fa lo davano al 47%.
Si dirà che il soggetto è quel che è: eclettico, controverso, palesemente conservatore, negazionista, ammiratore di Ion Antonescu (il “duce” rumeno), “putiniano” eccetera eccetera, quindi giusto così e discorso chiuso.

Ovviamente le cose sono più complicate. E non tanto perché molte delle posizioni di Georgescu erano note da tempo, ma ciò non gli ha comunque impedito di fare carriera all’ONU, per cui è stato direttore esecutivo dell'Istituto dell'indice di sostenibilità globale delle Nazioni Unite a Ginevra in qualità di esperto di sviluppo sostenibile. Oppure di essere quattro volte (QUATTRO) tra i papabili per il ruolo di primo ministro a capo di un governo tecnico nel 2010, 2011, 2012 e 2016. Quanto perché quali che siano le sue posizioni su famiglia, aborto, scienza, clima, guerra o vattelappesca esse sono state sempre presentate pacificamente, all’interno della dialettica democratica senza l’intento di sovvertirla e per di più incontrando il favore di una porzione molto ampia di cittadini rumeni. La messa al bando, quindi, più che i metodi pare voglia colpire le intenzioni o peggio ancora le idee, il che fa una differenza enorme. Perché col pretesto di tutelare lo Stato da derive antidemocratiche trasforma de facto quello stesso stato in una democratura, all’interno della quale non ci si preoccupa nemmeno più di salvaguardare le apparenze rituali.

Ci sono (?) stati finanziamenti e ingerenze estere però, osserverà più o meno acutamente qualcuno.

Ora, al netto del fatto che l’idea che quattro bot su TikTok possano realmente condizionare un voto nazionale che coinvolge decine di milioni di cittadini appartenenti ad ogni fascia d’età, mi sia consentita una domanda retorica: ma perché i grandi social network stranieri, con i loro algoritmi, non influenzano quotidianamente e pesantemente l’opinione pubblica sui temi chiave? Sul punto basti ricordare le censure su Facebook, gli eventi che hanno portato all’acquisizione di Twitter da parte di Musk o le recenti dichiarazioni di Zuckerberg relative a come lavorassero gli algoritmi del suo social durante il periodo pandemico. E ancora: ma perché i grandi mass media (tv, giornali, agenzie di stampa anglo-americane) non utilizzano la loro posizione di presunta autorevolezza (e di palese oligopolio) per indirizzare costantemente (non diciamo manipolare che se no qualcuno mi da del complottista) l’opinione pubblica su temi come ad es. economia e guerra?

E i soldi poi? La Open Society Foundations di Soros finanzia da decenni non si sa bene quanti e quali partiti ed esponenti politici presenti al parlamento Ue e in quelli nazionali (oltre che decine e decine di ONG) con l’obiettivo di far sì che essi ne sostengano agenda e interessi. Non è anch’esso un modo di interferire con l’indipendenza di una comunità democratica? Per di più in un momento storico in cui i finanziamenti pubblici ai partiti sono sempre più malvisti, il che li obbliga giocoforza a dipendere da ricchi “filantropi” privati.

Il punto quindi non riguarda soldi o influenze esterne, quanto piuttosto la provenienza di entrambi. Da ponente vanno bene, da levante molto meno. Perché c’è da difendere la “civiltà occidentale” fondata sui diritti umani da derive oscurantiste e anti-progressiste, osserverà ancora più acutamente qualcuno. Che ogni sistema politico (nazionale o sovranazionale che sia) abbia una propria ideologia e lotti per preservarla non lo scopriamo oggi e non dovrebbe scandalizzare. Ma se tale ideologia, alla prova dei fatti, si dimostra null’altro che un paravento ipocrita allora il discorso cambia. Diversamente qualcuno dovrebbe spiegarmi perché - senza voler scomodare le giunte militari del recente passato occidentale - i fondamentalisti islamici sono buoni o cattivi, alleati o nemici, a seconda dei casi, a seconda del “regime” che combattono. I diritti umani o li si invoca e difende sempre e comunque, oppure si dimostrano essere un altro espediente retorico, né più ne meno degli altri trattati più sopra. Cosa resta quindi? A ben guardare pochissimo altro.

Se ne può dedurre un principio. L’impianto di diritto positivo su cui presuntamente si fonda l’ordine occidentale (e la sua molto presunta supremazia etica) non è di carattere assoluto, benché scritto nero su bianco su Carte Fondamentali ritenute (a parole) più sacre e intoccabili della Bibbia. Al contrario si piega costantemente (senza però quasi mai mutare la propria forma esteriore) alle esigenze del potere (e non delle semplici maggioranze), unico vero detentore dello jus, con buona pace della sovranità popolare. Alla luce di tutto ciò, quindi, l’unica risposta possibile al quesito iniziale è: “dipende”.

Vista dalla prospettiva del potere è certamente possibile ritenere “giusto” un provvedimento di esclusione. Dall’altra parte ovviamente no. Specificare che il potere in mano a pochi è mero “kratos” senza “demos” sarebbe assolutamente superfluo, se non fosse che fa tutta la differenza del mondo tra chi è democratico soltanto a parole e chi lo è per davvero.

Antonio Di Siena

Antonio Di Siena

Direttore editoriale della LAD edizioni. Avvocato, blogger e autore di "Memorandum. Una moderna tragedia greca" 

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