Tu vuo’ fa’ il Nativo Americano
di Raffaella Milandri
Sono svariate le persone che celebrano cerimonie native o fingono di essere connessi agli Indiani d'America, appropriandosi di una cultura che non gli appartiene e sfruttando un popolo che affascina un vasto pubblico. Il motivo di questi fake? Spesso per soldi, sia negli Stati Uniti, sia in Italia, sia in altri paesi. Facciamo un viaggio in una terra immaginaria e visitiamo questa strana tribù. Siamo nella tribù dei Wannabe (che vuol dire "vorrei essere", inteso come brutta copia): non-nativi americani che rivendicano l'eredità o la spiritualità indiana. Ne conoscerete senz’altro qualcuno. Negli Stati Uniti, ad esempio, è molto diffuso vantare tra gli antenati una “principessa” Cherokee, in barba al fatto che tale titolo, tra i Nativi, non esisteva. Perché i Wannabe si appropriano, fabbricano e inventano un'identità o una spiritualità nativa? È per puro guadagno finanziario? Fa parte di un progetto colonialista di parlare per conto dell'Altro? Una crisi esistenziale altamente soggettiva?
Esaminare le motivazioni dei Wannabe è un argomento delicato, dove le buone intenzioni si scontrano con vecchie abitudini razziste e dove il ricamo narrativo si trasforma facilmente in auto-illusione. È dove il personale è politico e la politica diventa personale. Ci sono molte sottocategorie di Wannabe, ma il membro più comune di questa tribù – che potremmo chiamare il Quasi Nativo – è la persona bianca che rivendica una "spiritualità nativa", un maestro nativo o un sedicesimo di sangue nativo. Il mitico antenato nativo nella famiglia del colono bianco conferisce, ad esempio, un elemento popolare e positivo a una narrazione di colonizzazione, sfruttamento e saccheggio.
La domanda assillante sui Wannabe è: perché lo fanno? Perché così tanti bianchi modellano un'identità nativa dal nulla? C'è qualcosa che unisce questa tribù indisciplinata? L'unico denominatore comune pare che sia "l'opportunità finanziaria". In effetti, ci sono molti casi di bianchi che fanno soldi mentre trafficano in identità finto-native, ma forse non tutto si riduce ai soldi. Secondo un censimento americano del 2010, più di un quarto dei Nativi Americani vive in povertà, contro solo il 10% dei bianchi. Ci sono quindi più soldi da fare nel mondo bianco che nella riserva indiana. Ho il sospetto che la rivendicazione o simulazione dell'identità nativa conferisca al potenziale autore una sorta di capitale simbolico che funziona in modo inversamente proporzionale al privilegio bianco. Impersonare falsi personaggi nativi ha permesso a certi bianchi di raggiungere la notorietà. Un esempio, come vedremo dopo, è l’attore Iron Eyes Cody, in realtà di origini italiane.
Lo sciamano di plastica
Un altro termine usato per definire i membri di questa tribù è “sciamano di plastica”, o “popolo della medicina di plastica”. È un termine dispregiativo applicato a individui che tentano di spacciarsi per sciamani, persone sacre o altri tipi di leader spirituali, ma che non hanno alcun legame genuino con le tradizioni o le culture che affermano di rappresentare. In alcuni casi, lo "sciamano di plastica" può avere qualche connessione culturale o anche qualche lontana origine nativa, ma sta sfruttando la cultura nativa esclusivamente per il proprio ego, per potere o per denaro. Gli sciamani di plastica usano il misticismo di queste tradizioni culturali e la legittima curiosità dei ricercatori e appassionati sinceri per il loro guadagno personale. In alcuni casi, lo sfruttamento degli “studenti” e della cultura nativa può comportare la vendita di false cerimonie spirituali "tradizionali" come la capanna sudatoria, falsi manufatti, racconti falsi nei libri, visite illegittime di siti sacri e spesso addirittura la vendita di titoli spirituali. Spesso i simboli e i termini dei Nativi Americani sono adottati dagli sciamani di plastica e i loro adepti non hanno abbastanza familiarità con la religione nativa per distinguere le imitazioni e gli impostori. Ad esempio, è ben risaputo che i veri leader spirituali nativi americani – in America, in Italia o altrove – non chiedono mai soldi per partecipare alle loro cerimonie, per le quali hanno il massimo rispetto. E sicuramente non si fanno pubblicità sui social.
I “fake” Cherokee e i veri Cherokee
Sarà perché i Cherokee appartengono a una delle tribù più numerose, insieme ai Navajo, ma hanno subito davvero tanti tentativi di “imitazione” da parte di impostori più o meno insistenti. Tra i fake Cherokee, qualche anno fa, ha fatto scalpore Elizabeth Warren, una politica dei Democratici, per avere dichiarato una discendenza Cherokee che, però, non è stata mai provata; è stata accusata di avere ottenuto una cattedra universitaria grazie a questa rivendicazione etnica. Sono molti i personaggi della politica, del cinema, della musica e di altri contesti che hanno reclamato pubblicamente discendenza Cherokee, come se fosse una moda o una tendenza chic. “C’è una barzelletta nella Indian Country”, ha detto un portavoce della Cherokee Nation nel 2012. “Se incontri qualcuno che non penseresti che sia nativo, ma dice di essere nativo, è probabile che ti dirà di essere Cherokee”. “Ma i Cherokee sono tra le persone meglio documentate al mondo”, ha detto David Cornsilk, un ricercatore di genealogia Cherokee. “Probabilmente arriviamo terzi dopo le famiglie reali e i mormoni. Tra i registri del Governo degli Stati Uniti e le molteplici liste tribali esistenti con documenti di parentela, se hai ascendenza Cherokee, ce ne sarà sicuramente documentazione da qualche parte”.
Tra i “fake-Cherokee” va annoverato Bill Clinton, ex presidente statunitense, che affermò nel 1998: “Mia nonna era per un quarto Cherokee”, peraltro senza mai provarlo. Poi il musicista Johnny Cash, che disse di essere per un quarto Cherokee, salvo poi dichiarare la sua piena discendenza scozzese. Anche l’attore Johnny Depp ha rivendicato antenati Cherokee (o forse, nel dubbio, Creek). Anche Cher avrebbe simulato una discendenza Cherokee per promuovere una canzone, “Half Breed”, ma risulta essere al 100% armena. Kevin Costner ha girato svariati film western, ma nel suo albero genealogico non c’è traccia di Cherokee; pare peraltro che tale discendenza gli sia stata attribuita da altri e non sia una sua dichiarazione. Anche Burt Reynolds ha affermato radici Cherokee, ma senza provarlo. Si aggiunge alla lista l’attore Chuck Norris, che si è dichiarato in parte Cherokee, ma non risulta in nessun documento ufficiale, tranne che in alcuni ruoli di film: la finzione trasfigurata in realtà. Anche Iron Eyes Cody (vero nome Espera Oscar de Corti), che ha ricoperto molti ruoli di nativo in produzioni cinematografiche, tra cui quello di Cavallo Pazzo, era un fake: di certo, vi erano solo le sue radici italiane. Altro volto famoso nei film western, Lou Diamond Philips: i suoi tratti esotici derivano dalla madre, di origini filippine. Dallo spettacolo alla boxe: anche Jack Dempsey avrebbe reclamato origini Cherokee, ma pare fosse di discendenza romena. Bene, la lista potrebbe andare avanti ancora, ma dedichiamoci ora a chi ha davvero in sé una parte di Cherokee, o almeno ha citato antenati, lasciando spazio a una certa attendibilità.
Elvis Presley pare avesse un trentaduesimo di sangue Cherokee, e che una sua antenata, Morning White Dove, fosse Cherokee. La storia venne fuori con il film “Flamingo Star”, in cui Elvis recitò nella parte di un sangue misto; il film peraltro era, per gli anni ’60, controcorrente e dalla parte dei Nativi. La discendenza pare sia stata confermata da diverse fonti.
Jimi Hendrix, la leggenda del rock: sua nonna paterna era Cherokee, e menzionava spesso il fatto con fierezza. Si trattava di Zenora “Nora” Rose Moore, afroamericana e per un quarto Cherokee.
Quentin Tarantino: ebbene sì, la madre del famoso regista, Connie McHugh, ha sangue Cherokee, pur se Tarantino non lo ha mai sbandierato ai quattro venti.
Wes Studi, nato nel 1947, è un attore e regista Cherokee famoso per i suoi ruoli come nativo americano in molti film, tra cui “Hostiles”, “Avatar”, “Balla coi Lupi”, “L’Ultimo dei Mohicani” e “Geronimo”. Da giovane si è distinto per un forte attivismo a favore dei Nativi Americani, e ha insegnato nelle scuole la lingua e il sillabario Cherokee.
La prova della verità, in merito a personaggi famosi Cherokee, è semplice: i media dei Nativi Americani, e in particolare quelli Cherokee, non parlano né citano mai i fake Cherokee.
Iron Eyes Cody
Il pericoloso sfruttamento della immagine dei Nativi Americani ha un esempio clamoroso, distorcendo clamorosamente la realtà e la percezione di questo popolo già abusato. La sua è probabilmente la lacrima più famosa della storia americana: Iron Eyes Cody, un attore in abiti da nativo americano, pagaia una canoa di corteccia di betulla su un'acqua che all'inizio sembra tranquilla e incontaminata, ma che diventa sempre più inquinata durante il viaggio. Tira a riva la barca e si dirige verso una trafficata autostrada. Mentre l'indiano solitario riflette sul paesaggio inquinato, un passeggero lancia un sacchetto di carta dal finestrino dell'auto. Il sacchetto scoppia a terra, spargendo involucri di fast-food sui mocassini di perline dell'indiano. Con voce severa, il narratore commenta: “Alcune persone hanno un profondo rispetto per la bellezza naturale che una volta era questo Paese. E altri no”. La telecamera zooma sul volto di Iron Eyes Cody e rivela una singola lacrima che scende, lentamente, sulla sua guancia. Link al filmato: https://youtu.be/8Suu84khNGY?si=gNm2qZeygc-iKvWA
La lacrima di Cody fece il suo debutto in televisione nel 1971, in una pubblicità per l'organizzazione anti-littering Keep America Beautiful. Apparsa in TV più e più volte nel corso degli anni Settanta, la lacrima circolò anche su altri media, su cartelloni pubblicitari e pubblicità su carta stampata, fissando per sempre l'immagine di Iron Eyes Cody come “l'indiano che piange”. Per molti americani, l'indiano piangente divenne il simbolo per eccellenza dell'idealismo ambientalista. Ma un esame più attento dello spot rivela che né la lacrima né il sentimento erano quello che sembravano. La campagna si basava su molti falsi. Il primo è che Iron Eyes Cody era Espera De Corti, un italo-americano che interpretava l'indiano sia nella vita che sullo schermo. L'impatto dello spot si basava sull'autenticità emotiva della lacrima dell'indiano piangente. Promuovendo questo simbolo, Keep American Beautiful (KAB) cercava di sfruttare l'abbraccio della controcultura all'indianità come identità più autentica della cultura commerciale. La seconda falsità consisteva nel fatto che il KAB era composto da aziende leader nel settore delle bevande e degli imballaggi tra cui Coca-Cola. Non solo erano l'essenza stessa di ciò a cui la controcultura era contraria, ma si opponevano anche fermamente a molte iniziative ambientali. L'indiano piangente non rappresentava un'adesione ai valori ecologici, ma indicava invece la paura dell'industria nei loro confronti. L'indiano che piange, un nuovo sforzo di pubbliche relazioni che incorporava valori ecologici ma distoglieva l'attenzione dalle pratiche dell'industria delle bevande e degli imballaggi. Il KAB ha praticato una forma di propaganda astuta. Dal momento che le aziende che hanno sostenuto la campagna non hanno mai pubblicizzato il loro coinvolgimento, il pubblico ha pensato che KAB fosse una parte disinteressata. L'indiano piangente forniva la lacrima che induceva al senso di colpa di cui KAB aveva bisogno per propagandare senza sembrare propagandistico e contrastava le rivendicazioni di un movimento politico senza sembrare politico. Nel momento in cui appare la lacrima, il narratore, con voce baritonale, intona: “La gente inizia l'inquinamento. La gente può fermarlo”. Facendo sentire i singoli spettatori colpevoli e responsabili dell'ambiente inquinato, lo spot deviava la questione della responsabilità dalle aziende e la collocava interamente nell'ambito dell'azione individuale, nascondendo il ruolo dell'industria nell'inquinare il paesaggio. L'impatto della campagna dell'Indiano Piangente è visibile ancora oggi nelle rappresentazioni mainstream dell'ambientalismo, che privilegiano l'aspetto personale rispetto a quello politico.
Ma c'è un ultimo modo in cui lo spot ha distorto la realtà. Nello spot, l'indiano che viaggiava nel tempo remava con la sua canoa in un lontano passato, apparendo come una reliquia visiva di un popolo indigeno che si supponeva fosse scomparso dal continente. Era presentato come un anacronismo che non apparteneva all'immagine. Una delle ironie più evidenti dello spot è che Iron Eyes Cody divenne l'Indiano che piange nello stesso momento in cui gli Indiani reali occupavano l'isola di Alcatraz nella baia di San Francisco, lo stesso specchio d'acqua in cui l'attore remava con la sua canoa. Gli attivisti indigeni non si presentavano come indiani del passato, ma come cittadini coevi che rivendicavano la terra. Gli attivisti di Alcatraz cercavano di sfidare i retaggi del colonialismo e di contestare le ingiustizie contemporanee - in altre parole, di affrontare le realtà delle vite dei nativi cancellate dagli anacronistici indiani che popolano i film di Hollywood. Al contrario, l'indiano che piange appare completamente impotente. Nello spot, tutto ciò che può fare è lamentare la terra che il suo popolo ha perso. Negli ultimi anni, le proteste su larga scala contro l'oleodotto Keystone XL, l'oleodotto Dakota Access e altri progetti di sviluppo dei combustibili fossili rappresentano un potente rifiuto dell'indiano piangente. Mentre l'indiano piangente appariva come un fantasma del passato che cancellava la presenza degli indiani reali dal paesaggio, questi attivisti hanno proposto soluzioni strutturali per l'ambiente, rivendicando al contempo i diritti fondiari degli indigeni. Andando oltre i messaggi individuali, hanno abbandonato i simboli statici del passato per immaginare un futuro giusto e sostenibile.
Concludendo, ci chiediamo: quanti danni possono fare ai Nativi, con le loro distorsioni della realtà e della cultura, i Wannabe e gli sciamani di plastica, ognuno di loro?