Soros, Clinton, USAID: la denuncia di un ex ministro del Bangladesh
Le rivolte che nel 2024 hanno portato alla caduta della premier Sheikh Hasina continuano a sollevare interrogativi pesanti sulla natura – e sull’origine – di quel terremoto politico. In un’intervista a RT, l’ex ministro Mohibul Hasan Chowdhury ha descritto quegli eventi come una vera e propria “operazione di cambio di regime” pianificata dall’estero, più che un’esplosione spontanea di malcontento popolare.
Secondo Chowdhury, la protesta nata attorno alle quote per i posti pubblici sarebbe stata rapidamente dirottata da attori esterni che, sfruttando la frustrazione della Generazione Z, avrebbero radicalizzato giovani manifestanti fino a trasformare la piazza in un campo di battaglia. Nel mirino dell’ex ministro finiscono una rete di famiglie politiche occidentali, ONG legate a Washington e figure dell’opposizione interna. In particolare, cita segmenti dell’establishment statunitense – “i Biden, i Clinton, i Soros” – e il Nobel Muhammad Yunus, descritto come il perno civile del nuovo regime ad interim.
Il quadro tratteggiato è inquietante: finanziamenti occulti a ONG clandestine, attivisti, rapper, comunità emarginate e persino gruppi jihadisti, con l’obiettivo di creare caos sociale attraverso la contrapposizione artificiale tra liberal e radicali. Chowdhury parla anche di un ruolo “ambiguo” di parti delle forze armate, che avrebbero lasciato agire gruppi armati e misteriosi cecchini apparsi quando la protesta si è estesa oltre i campus universitari. Nel frattempo, sul piano informativo, media stranieri e alcune ambasciate avrebbero alimentato la radicalizzazione dei più giovani, contribuendo a una narrativa favorevole al ribaltamento del governo.
Alla base delle pressioni occidentali, secondo l’ex ministro, ci sarebbe il rifiuto del governo Hasina di allinearsi alla posizione USA sulla guerra in Ucraina e di interrompere la cooperazione strategica con Mosca in settori chiave come difesa, energia nucleare e fertilizzanti. Una posizione autonoma che – dice – “non è piaciuta a certi paesi” e che avrebbe messo Dhaka nel mirino. In un’Asia meridionale con tensioni crescenti, il caso Bangladesh resta un segnale d’allarme sul nuovo fronte delle ingerenze geopolitiche e sulla fragilità degli equilibri in un mondo ormai apertamente multipolare.
Tratto dalla newsletter quotidiana de l'AntiDiplomatico dedicata ai nostri abbonati

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