Pino Arlacchi - Come combattere le menzogne del "partito della paura"

Pino Arlacchi - Come combattere le menzogne del "partito della paura"

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di Matteo Bortolon - La Fionda

 

Il testo di Pino ArlacchiContro la paura, comparso a fine 2020 per i tipi di Chiarelettere è un libro importante, sotto molti aspetti. Uno risiede nella biografia del suo autore, sociologo e studioso di criminalità che – a differenza di molti commentatori anche assai più di moda – non si è limitato a scrutare il mondo dal suo studio, ma avendo avuto ruoli di responsabilità apicali nelle istituzioni internazionali ha avuto modo di tastare in prima persona il polso di alcune dinamiche del mondo contemporaneo.

 

 

Un altro è il quadro che emerge dal libro, assai più ottimistico ed incoraggiante di quanto i vari profeti di sventure non ci facciano intravedere. La rappresentazione del mondo come un posto cupo e pericoloso, in cui tutto è in costante peggioramento – questo il messaggio – è falsa.

Il testo si compone di quattro parti. Nella prima, Sguardo d’insieme, si illustra la tesi di fondo: il « partito della paura » costituito dai maggiori media e dagli apparati di sicurezza ha l’interesse a dare l’immagine della contemporaneità fondamentalmente distorta. Sul piano internazionale ci sono molti progressi di cui non si parla, il declino di indicatori chiave quali povertà, suicidi, violenza privata, crisi, ecc. L’ascesa della Cina e la sua integrazione con le altre potenze asiatiche, India e Russia, non porterà ad una nuova Guerra Fredda ma ad un mondo multipolare sostanzialmente più pacifico.

Nella seconda sezione, L’inganno, si passano in rassegna singoli fenomeni, mostrando che secondo i database statistici disponibili su una prospettiva di lungo-medio periodo le guerre sono diventate più rare e meno cruente, tanto dopo il 1945, quando ai massacri delle due guerre mondiali si sono sostituire le guerre per procura e dovute al colonialismo, e ancor più dopo il 1989, quando dopo la fine della Guerra Fredda, a fronte del declino dei bilanci militari e del numero di soldati, sono rimaste le cosiddette guerre asimmetriche, molto meno cruente della battaglie delle trincee di un secolo fa. Lo « scontro di civiltà » profetizzato da Huntigton, tanto denso di approssimazione storica quanto di mitizzazione di conflitti politici cui si dà un carattere « culturale », non si è realizzato, nemmeno riguardo al terrorismo, che nonostante l’isterismo allarmista pompato a pieno regime sotto Bush, è da lungo tempo in declino (dagli anni Settanta ad oggi) anche se con improvvise fiammate di ripresa (anche dovute alle stesse guerre degli USA).

Anche le ricorrenti lamentele sul diffondersi di problemi di sicurezza non sono giustificate dai numeri: il numero degli omicidi è in discesa, il consumo di droghe ha un declino netto e la diminuzione dei profitti di tale mercato ha indebolito le mafie che non sono più quei centri di potere così influenti di vent’anni fa. 

Pure il numero di genocidi è diminuito: si pensi all’Asia che se nel Novecento ha visto alcune delle peggiori mattanze (come quello della Cambogia), ultimamente vede un tasso di violenza assai basso. 

Uno dei paragrafi più interessanti – che anticipano alcuni temi dell’ultima parte – è dedicato al rigetto della guerra da parte della cultura cinese, nel cui pensiero filosofico e nella cultura strategica – persino in quel Sun Tsu così celebrato in occidente – vi è un filone di disprezzo e scarsa considerazione della coercizione fisica: l’Impero di Mezzo ha infatti avuto diversi secoli di pace coi suoi vicini, in contrasto con la storia europa. 

Mentre nei secoli XVI-XVIII l’occidente cristiano vedeva la logica del mantenimento dell’equilibrio, col conflitto fra la potenza in ascesa e gli altri paesi che si coalizzavano, in Asia il sistema di relazioni si basava proprio sulla predominanza cinese come fattore di stabilità. 

Uno dei temi di fondo del libro pare ispirato ad una riflessione di base sul ruolo della Cina nel mondo: il baricentro del potere mondiale sul piano economico si sposta definitivamente verso le potenze atlantiche (gli Stati europei e gli USA) nel XIX secolo, con la rovina delle manifatture indiane e con l’invadente attacco occidentale alla Cina, la cui ascesa nel XXI secolo può essere considerata la fine di una parentesi di potere atlantico – anche alcuni storici considerano assai più breve e contestata di quanto la storia eurocentrica non faccia credere – in una tendenza di lunga durata di una centralità asiatica.

La terza parte, Promozione dell’inganno, approfondisce le forze dietro al « partito della paura », e cioè l’impero USA, denso di suprematismo morale e di riottosa insofferenza degli obblighi internazionali, che ha avuto nel post-guerra fredda un sussulto di ritorno di rampante militarismo nell’epoca dell’amministrazione Bush – tale deriva tuttavia, non ha portato ad una corsa mondiale al riarmo. È aspramente criticata la visione positiva, quasi nostalgica, della Guerra fredda come fattore di contenimento di avventurismi bellici: la competizione per il potere mondiale nel duello USA-URSS ha infatti esercitato spinte propulsive a favore di guerre per procura, golpe, invasioni e simili.

L’ultima sezione, I motori della pace, è più ambiziosa e cerca di sollevare lo sguardo verso la connessione fra natura umana e violenza. Tanto le ricerche sulle scimmie – gli animali che più hanno tratti geneticamente vicini a noi – che i rilievi degli psichiatri miliari (chi più di loro può avere abbondanza di materiale empirico sui soldati?) negano che vi sia una predestinazione alla violenza, ma appare assai più accettabile una visione della natura umana più complessa e sfaccettata: esiste l’impulso alla aggressività ma anche alla cooperazione. 

Sono le condizioni storico-sociali che attivano l’una o l’altra; condizioni costruite anche come dimensione politico-progettuale, quindi direzionabili in misura della creatività e razionalità volte a creare istituzioni e meccanismi per affrontare i bisogni, gestire la conflittualità in maniera misurata e ragionevole; ma anche del progresso etico-morale. 

Si riprende il tema del genocidio, già affrontato alla fine della seconda parte: non si tratta di episodi tragicamente scaturiti da una qualche barbarie primordiale o da un inesplicabile emergere di oscure pulsioni distruttive nelle masse. Le mattanze sono per lo più preordinate e orchestrate da piccoli gruppi per precisi intenti di dominazione ed in quanto tali possono essere previsti, individuati, fermati. L’autore crede che istituti come la schiavitù e il colonialismo sia finiti non solo per motivi di convenienza economica, ma per una mutazione della opinione pubblica mondiale.

Nelle Conclusioni viene ribadita una prospettiva positiva verso il nostro futuro: tanto il capitalismo finanziario che la dominazione militare USA sono in crisi; avanza a larghe falcate un futuro più incentrato sulla cooperazione e sul multipolarismo, non sulle ali di un idealismo slavato, ma nello stesso stesso cammino storico.

Il testo è un grande tributo all’idea di progresso umano, nel senso meno eurocentrico possibile, ed una vibrante protesta contro una martellante propaganda a favore di un mondo senza speranza. 

Se il pessimismo è a sua agio verso le sensibilità identitarie, con l’ossessione delle destra per la sicurezza e i nemici dell’occidente, non si trova male neppure nelle frange progressiste, ora erte verso i « mali del capitalismo » come sistema dominante, ora così sfiduciate dalla ascesa di forze antisistema percepite come perturbanti e distruttive da ritenere che la stessa idea di democrazia vada ridiscussa in senso più elitistico.

Quindi il testo risulterà tanto difficile da digerire per le destre che agitano gli spauracchi dell’invasione e che vorrebbero forti eserciti – per quanto il filo-occidentalismo che portava la Casa delle Libertà in piazza a sostegno del militarismo USA appaia piuttosto appannato o ridotto al ruolo di parente povero rispetto all’avversione alla Ue; ma sarà pure duro da accettare per i progressisti convertitisi al sostegno agli USA contro i « cattivi populisti » e la cattivissima Russia, una volta esauriti gli effetti della Guerra al Terrorismo grazie al greenwashing di Obama.

Va detto che si tratta di un’impostazione molto incentrata su  conflitti, relazioni diplomatico-commerciali, governance globale delle organizzazioni internazionali. 

Non si adotta un approccio marxista, né compare la correlazione guerra-capitalismo, cara a molti radicalismi, così da collocarsi piuttosto verso l’alveo delle teoria delle relazioni internazionali. 

In effetti se il primo rischia di avere uno sbocco fatalista – arrivando all’idea che senza dissolvere il capitalismo non ci sarà mai la pace – la maggior parte delle teorie del secondo settore sono inclini ad un realismo che sancendo la normalità della violenza tende ad avere – paradossalmente – lo stesso esito. 

Al contrario: la scuola realista è vivacemente contestata sulla base che tenderebbe a universalizzare la endemica conflittualità dei paesi europei, ignorando altri contesti, in specie quello asiatico come riserva di dati empirici un po’ più confortanti. 

Va anche detto che il profilo dell’autore – sociologo prestato alla politica e alle organizzazioni internazionali – differisce da quello degli esperti di dottrine sviluppatesi come « consiglieri del principe », il cui approccio interiorizza implicitamente il punto di vista degli apparati diplomatico-militari al servizio della logica di potenza. 

Si può invece più facilmente ravvisare una convergenza di ethos e di intenti con gli studi sulla pace, che tendono alla ricerca di alternative non armate di gestione dei conflitti e di valorizzazione del « people power » in varie declinazioni, nonché di una comprensione delle basi antropologico-culturali della conflittualità umana. 

E tuttavia rispetto a questi tipi di ricerche si avverte un’atmosfera diversa: mentre si ha l’impressione che nei peace studies le forze della pace agiscano piuttosto sottotraccia, in modo silenzioso ma potente, Arlacchi ci indica invece che un mondo più pacifico, giusto è già nelle cose stesse ed è pressoché a portata di mano. 

Difficile confutare i  numeri che vengono rovesciati sul lettore, più arduo capire se la traiettoria dell’umanità ha veramente imboccato tale direzione; a dispetto di ogni fatalismo, un intento, ci pare di intuire, del libro è di incoraggiare il lettore ad incamminarsi verso di essa.

 La Fionda

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La Fionda è uno spazio di elaborazione culturale e politica, che condivide alcune precise idee – statualiste, autenticamente democratiche e antiliberiste -, senza compromessi contraddittori né opacità furbesche. Ma che ha l’autentico desiderio di confrontarsi, di dare luogo a un dibattito vero, fecondo, senza tabù. Perché questo deve essere il tempo della nitidezza e dello spirito critico che non arretra di fronte a nulla.
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