Mattarella, le armi all'Ucraina e i giornali padronali
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Il 7 settembre, i maggiori giornali padronali riportano i passaggi principali del discorso tenuto il giorno precedente dal Presidente della repubblica Sergio Mattarella in Portogallo, in occasione del «vertice annuale del Gruppo Arraiolos, i sedici capi di Stato “uniti per l’Europa” che in un panel a porte chiuse parlano del conflitto» (Corriere della Sera) in corso in Ucraina.
In questo momento caratterizzato da un clima di mobilitazione a ogni costo, per cercare di arginare la crescente stanchezza delle masse per i ripetuti saccheggi perpetrati ai danni delle necessità sociali, a vantaggio delle crescenti spese di guerra, i passaggi presidenziali portati a modello di “unità europea” sono quelli in cui il Capo dello stato ha detto che è doveroso continuare a «sostenere l'Ucraina o sarà guerra mondiale» (La Stampa). Mattarella, si dice, «evoca gli errori nella Seconda guerra mondiale e insiste sugli aiuti militari», ricordando – come se a ogni lavoratore, pensionato, giovane, non venisse ricordato, spesso anche con ruvidi “tonfa”, ogni giorno – a chi non se ne fosse accorto «come l’Ue abbia reagito compatta e fedele ai suoi valori: è stata assicurata assistenza militare all’Ucraina, assieme a notevoli risorse finanziarie» (Corriere). Quando dunque parlerete di “valori”, ricordatevi per carità di cosa si tratta. E dunque, per evitare gli orrori di ottant'anni fa, la massima carica istituzionale, la figura garante di una Costituzione che rifiuta la guerra, chiede di non cessare l'invio di armi in un conflitto armato, che rende l'Italia parte in guerra. «Se Kiev cadesse assisteremmo a una deriva di aggressioni ad altri Paesi ai confini con la Russia», ha detto Mattarella, e ciò, con un occhio al periodo 1938-'39, condurrebbe a uno scontro totale e devastante.
In questi pochi passaggi riportati, ci sono almeno tre momenti che meritano attenzione. Innanzitutto, quello già accennato della lacrimevole omelia sul «motivo di tristezza» per le «tante vite stroncate» e per la «quantità di risorse bruciate in armamenti, ma al momento non c’è altra via» (Corriere): la via ci sarebbe e ci sarebbe stata già molto tempo prima di arrivare al febbraio 2022. Ma era proprio lì che si voleva arrivare, ignorando o rigettando ogni proposta di accordo e, oggi, le “risorse bruciate” le pagano i lavoratori e le masse popolari, mentre il capitale lucra affari d'oro: ora per quelle “risorse bruciate in armamenti”; dopo, ne lucrerà ancora di più, «nella prospettiva d’una ricostruzione» (Corriere) per la quale i più forti gruppi di investimento mondiali (BlackRock o JPMorgan) hanno già messo le mani in banca, ben acquartierati nei palazzi della Kiev nazigolpista.
Gli altri due momenti, pur afferenti al “maccartismo storico” sempre più attuale nell'Europa liberale, hanno più che altro – ma non solo – valenza storica. Da un lato, c'è il tentativo truffaldino di accostare l'espansione hitleriana a danno di alcuni vicini della Germania, favorita dal beneplacito delle “democrazie occidentali” e sfociata nel complotto di Monaco del settembre 1938 (cui prese parte anche l'Italia mussoliniana), alla vulgata propugnata dai golpisti di Kiev e dai loro più stretti alleati su presunte mire di Mosca che, dopo l'Ucraina, punterà a tutti i propri vicini, Paesi baltici e Polonia in testa. Come dire, se ora non facciamo vincere Kiev, poi sarà la volta degli altri. Qui si cela anche il tentativo poco velato di ritornare sul ritrito motivo dell'URSS “colpevole al pari della Germania nazista” per lo scoppio della Seconda guerra mondiale: ormai è diventato un “dogma della fede” attribuire le “malefatte di Mosca” alla sua “eredità sovietica”, insomma una sorta di indole innata dei “machi” di quelle parti. Così agguerriti, ci assicura Repubblica su postulato di Mikhail Podoljak, da riuscire a creare «Caos in Israele perché la Russia distrugge la sicurezza globale».
Dall'altro lato, si nota in quei passaggi presidenziali il sorvolo a piè pari (come a dire: chissenefrega, si cita il 1938 e lì l'accostamento con la guerra è immediato, non importa andar oltre) della storia europea anteriore; quella precedente anche all'andata al potere di Hitler, quella del Patto di Locarno del 1925, del Patto di intesa firmato a Roma nel 1933 tra Londra, Berlino, Parigi e Roma; della politica cosiddetta di “appeasement” che aveva l'obiettivo di dirigere verso est le ambizioni tedesche, ignorando criminalmente le proposte sovietiche di sicurezza collettiva in Europa.
Oltre novant'anni fa erano le “democrazie” che indirizzavano a est gli umori tedeschi di rivincita; oggi, sono ancora quelle stesse “democrazie” (più, ovviamente, la “più grande” di esse) che hanno spinto l'Ucraina «a combattere in questa guerra e non noi» come ha candidamente ammesso a Varsavia la Ministra della difesa olandese Kajsa Ollengren.
Fu grazie a una «pioggia dorata di dollari americani» - si dice nell'opuscolo edito nel 1948 dal SovInformBjuro “Falsificatori della storia”, in riferimento alle intese bancarie, commerciali e industriali anglo-tedesche-americane iniziate sin dagli anni '20 e continuate poi per tutta la durata della guerra - che fu fecondata «l'industria pesante della Germania hitleriana e, in particolare, l'industria bellica. Quei miliardi di dollari americani … ricostituirono il potenziale bellico tedesco e misero in mano al regime hitleriano le armi necessarie per le sue aggressioni». Evocare Monaco e tacere di almeno quindici anni di intrighi precedenti, risponde alla vulgata eurocentrica di ignorare l'inizio della guerra mondiale (ammesso anche da storici anglosassoni) già dal 1931, con l'aggressione giapponese alla Manciuria; ma risponde anche alla necessità, molto politicamente europeista, di accostare Germania hitleriana e URSS socialista nello scatenamento del conflitto.
A corollario delle esternazioni presidenziali, vale la pena ricordare come il discorso di Mattarella sia stato tenuto a «poche ore dalla strage di Kharkivi», (Corriere), che i media padronali attribuiscono ipso facto alla Russia, così come avevano fatto per la strage di Konstantinovka, lo scorso settembre, o per la diga di Kakhovka a giugno. In questo frangente storico, non sono ammessi dubbi sulla parola di Kiev: in principio era il Verbo, e il Verbo era presso Kiev e il Verbo era Kiev. Ogni dubbio è segno di debolezza, mentre invece la UE deve reagire «compatta e fedele ai suoi valori» (Mattarella).
E invece, su quel sito putiniano che è Ukraina.ru, già il 6 ottobre qualche dubbio lo si insinuava: a proposito del summit del 5 settembre a Granada, quei rammolliti dicevano, tra l'altro, che: «affinché gli europei fossero più accomodanti, in occasione del summit era necessario organizzare una grande provocazione bellica. E questa c'è stata, colpendo il villaggio di Groza, nella regione di Khar'kov, che ha causato la morte di circa 50 persone, riunite per il pranzo di commemorazione di un militare dell'esercito ucraino. “Una simile tragedia è molto vantaggiosa, per l'appunto per via Bankovaja [sede dell'Ufficio di presidenza], in base alla logica del “cui prodest”. Particolarmente nel momento in cui Zelenskij è in Spagna al forum internazionale” - scrive il canale telegram ucraino “Legitimnyj”, i cui autori, già il 1 ottobre, avevano avvertito che l'Ufficio di Zelenskij avrebbe potuto a breve mettere in piedi una grossa tragedia, perché l'Occidente continuasse i finanziamenti. Con lo stesso obiettivo, durante la visita di Antony Blinken a Kiev, l'esercito ucraino aveva bersagliato il mercato di Konstantinovka».
Nessuno dimentica il “sistema Izetbegovic” e le stragi dei mercati del 1992, 1994, 1995 a Sarajevo.