Le strategie della Turchia nel Corno d'Africa
di Gabriele Germani
L’11 dicembre, atterravano ad Ankara Abiy Ahmed (Presidente dell’Etiopia) e Hassan Sheikh Mohamoud (Presidente della Somalia). I due arrivavano da un anno turbolento, in cui tra i due Stati del Corno d’Africa vi erano stati forti momenti di tensione.
Motivo del contenzioso è stato il memorandum del primo gennaio 2024 tra Etiopia e il Somaliland, uno stato autoproclamatosi indipendente e non riconosciuto dalla comunità internazionale. L’accordo prevedeva che l’Etiopia avesse accesso ad un’area del porto di Berbera, sul Golfo di Aden, per funzioni commerciali e militari. Si trattava di un documento non vincolante, perché concordato tra uno stato sovrano e una repubblica presidenziale separatista, ma comunque simbolicamente rilevante. All’epoca si era parlato di una sorta di riconoscimento da parte etiope. L’accordo arrivava in una data particolare, poiché il primo gennaio è stato anche il giorno in cui l’Etiopia è entrata a far parte dei BRICS.
Addis Abeba aveva perso accesso al mare dopo l’indipendenza dell’Eritrea nel 1993.
Il Somaliland ha proclamato la propria indipendenza nel 1991 e può contare su un discreto appoggio da parte statunitense e britannica. La repubblica separatista coincide con l’ex colonia britannica in Somalia, distinta dal Gibuti (Somalia francese) e dal resto del territorio nazionale, in precedenza possedimento coloniale italiano. Tanto Washington, quanto Londra hanno in passato collaborato con le autorità locali, persino in operazione di addestramento anti-terroristico e non mancano investitori dell’Anglosfera nella regione.
I due presidenti si erano incontrati in precedenza separatamente con Erdogan, che conta su un forte ascendente in Africa orientale.
La Turchia è leader nel settore della vendita di armi (droni in particolare), ma anche nell’edilizia e più in generale gode di un certo soft power (andrebbe approfondito al riguardo il fenomeno delle dizi, le serie tv turche, o della musica anatolica).
In Somalia è presente una base militare turca (Camp Turksom) che ha formato circa un terzo dei membri dell’esercito locale. Come noto, chi forma gli uomini di un esercito stabilisce al suo interno dei legami di fedeltà. La Turchia stessa nei decenni addietro risentì di un’influenza simile nei confronti degli Stati Uniti (e possiamo supporre che il golpe del 2016, fu una buona occasione per un repulisti dei militari più zelanti verso gli alleati di Oltreoceano).
Ankara si è impegnata a vigilare le coste somale, notoriamente infestate dalla pirateria e da gruppi terroristici di varia natura, in cambio del 30% dei proventi della zona marittima esclusiva della Somalia (l’area di mare riservata a Mogadiscio). A corollario di questo quadro, Erdogan ha anche ottenuto per le aziende turche il diritto di trivellazione per ricercare di petrolio e gas.
Anche il vicino Gibuti, a inizio 2024, aveva aperto alla collaborazione in ambito militare con la Turchia.
Così la sera dell’11 dicembre dopo svariate ore di colloquio a porte chiuse, Somalia ed Etiopia sono giunte ad un accordo di massima, che prevede una maggiore definizione dello stesso nel corso del 2025.
Addis Abeba ha ottenuto il diritto di accesso al mare per le proprie attività; mentre Mogadiscio si è visto confermato come interlocutore unico sul tema. Nei primi giorni di gennaio sarà Erdogan a recarsi nel Corno d’Africa e l’accordo prevede che i due paesi avviino nei primi mesi del nuovo anno le consultazioni definitive.
Ennesimo successo diplomatico quello nel Corno d’Africa che conferma la fase ascendente di Ankara in ambito internazionale: dalla forte influenza nel Caucaso, garantita dagli ottimi rapporti con l’Azerbaigian, fino ai recentissimi fatti siriani.
Si ribadisce una preferenza dell’attuale leadership turca per gli spazi interstiziali, a cavallo tra Europa, Asia e Africa, snodi decisivi per i traffici mondiali:
- Il Caucaso, nodo tanto lungo la direttrice Est/Ovest, tanto quanto lungo l’asse Nord/Sud;
- La Siria, snodo di molti progetti energetici e di collegamento, dal Qatar alla Cina in molti ambivano a quegli spazi come aree di transito.
- Il Corno d’Africa e il conseguente corridoio costituito dal Mar Rosso, in cui ancora oggi passa una parte significativa del commercio mondiale.
L’area MENA allargata è in pieno fermento e vede l’ascesa di nuovi attori al suo interno.
Decisiva la partizione a tre che emerge nel mondo musulmano e che vede contrapposti (semplificando grossolanamente):
- L’asse delle petromonarchie, centrato sull’Arabia Saudita e sugli Emirati Arabi Uniti, che si collega idealmente al wahabismo;
- L’asse Turchia-Qatar, dove la prima è la caserma e il secondo la banca; generalmente collegato ai Fratelli Musulmani (seppur con molte criticità interne);
- Infine, l’asse della resistenza sciita, Iran – Hezbollah – Ansarallah e fino a qualche giorno fa: la Siria di Assad.
Il terzo si sta dimostrando ad oggi molto fragile: colpito pesantemente da Israele in ogni suo spazio, decapitato dell’appoggio siriano, con il terribile rischio che una nuova escalation libanese scopra Hezbollah stanco e isolato.
Il primo è tradizionalmente (anche per questioni di prestigio) il faro simbolico dell’area. Riyad per ricchezza, alleanze (il rapporto preferenziale con gli USA) e posizionamento (il controllo di La Mecca e quindi dei pellegrinaggi interni al mondo islamico) è sempre stata una sorta di grande guida per tutta l’area.
Infine, il secondo asse che talvolta ambisce a rimpiazzare i sauditi come interlocutore privilegiato dell’Occidente, altre volte a mostrarsi pronto a un nuovo ordine mondiale, che conduce una partita scaltra e fatta di tante piste, per questo anche più difficile da interpretare.
Il gioco del mondo multipolare piano piano si dipana e diventa sempre più difficile capire chi giochi e con chi, sempre più attori agiscono lungo la propria traiettoria e sempre più difficile è capire il quadro generale.
La domanda inquietante è se noi in Europa, in Italia, si abbia una classe dirigente all’altezza dei tempi.