La promessa non mantenuta: La nascita di una nuova opinione pubblica con internet
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di Michele Blanco*
La promessa era che internet e i social media sarebbero stati uno spazio pubblico di dibattito di estrema diversità, partecipazione, democratico e plurale in cui mille comunità avrebbero discusso i loro interessi in contemporanea per migliorare la vita di tutti, dando vita a ragionamenti e creazioni di grande profondità e originalità: “che cento fiori sboccino”, che cento scuole di pensiero rivaleggino in discussione costruttiva. Invece i social generalisti come Facebook,
Twitter e similari sono in buona parte lo spazio dove ogni giorno tutti discutono la stessa cosa, di solito di cose futili e utili alla distrazione di massa, la polemichetta del giorno, come avviene in modo particolare in Italia. Il tutto parte con un evento scatenante, una dichiarazione, da uno scivolone, un comportamento fuori luogo che viene portato all’attenzione del pubblico. Questo evento presto si trasforma in una discussione collettiva (o una sua rappresentazione farsesca), una folla di utenti che si raduna virtualmente chiedendo conto, pretendendo sanzioni, dimissioni ecc.
Alcuni parlano di vigilantismo online, o di polizia morale. Questa omologazione e uniformità ci allerta rispetto all’illusione che è alla radice del nostro essere utenti e generatori di contenuti, quella di essere individui autonomi, unici e possibilmente autentici. Di fatto buona parte del dibattito e invece fortemente massificato, eterodiretto e “focale”. Procede a cascata a partire da quello che dicono i media, il più delle volte controllati dal potere, e quello che viene ritenuto di interesse generale, su cui dunque tutti hanno desiderio legittimo di esprimersi.
I social non hanno massificato la produzione della conoscenza o dell’informazione, alla faccia del famoso “citizen journalism”, hanno massificato l’accesso all’opinione o al commento, espandendo al massimo la definizione di commentariato. È per questa ragione che ogni giorno tutti commentiamo le stesse cose come pulsione di partecipazione all’esperienza collettiva, seguendo lo stesso istinto che ci porta a seguire altri grandi riti di massa, il calcio ad esempio. Per non essere tagliati fuori da un’esperienza comune, che per quanto degradante o deprimente potrebbe diventare un giorno oggetto di chiacchiera e giudizio collettivo, dovere sociale a cui nessuno si può sottrarre.
*Già pubblicato su "l'eguaglianza.it"