La nuova “Battaglia dello Jutland”: dove può portare la (folle) evoluzione delle sanzioni UE alla Russia
di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico
Liberali russi e consimili occidentali hanno messo a punto un rapporto sulla questione delle sanzioni anti-russe. Di sfuggita, merita dar conto del fatto che tra gli economisti russi (insieme a loro colleghi ucraini, di paesi UE e all'ex ambasciatore USA a Mosca Michael McFaul) che hanno messo mano al rapporto, figurano in primo luogo Sergej Guriev e Sergej Aleksašenko, nei confronti dei quali, il 15 novembre, la Duma russa ha chiesto alla Procura generale l'apertura di un'inchiesta in base agli articoli 284 e 275 del Codice penale: “appelli all'introduzione di misure di carattere restrittivo” nei confronti della Russia e “tradimento” della patria.
Infatti, nel rapporto si parla della riduzione del tetto del prezzo del petrolio russo dapprima a 45 dollari e, successivamente, a 30; anche se, a ben vedere, la misura non influisce in misura significativa sul commercio russo. Si chiede inoltre di multare le compagnie energetiche occidentali che non rispettino tale tetto, fino a vietare loro ogni attività con la Russia; mentre quelle che, nonostante tutto, rimangono operative in territorio russo, si vedranno imporre tasse del 100% sui profitti.
Non finisce qui: si propone di metter fine a ogni fornitura di gas russo (tranne il gas che transita per l'Ucraina) ai paesi UE e di introdurre un'imposta sull'acquisto di gas per tutti i paesi che sostengono le sanzioni. Nei confronti dei paesi asiatici, si parla di costringerli a rinunciare ai prodotti energetici russi, imponendo misure antidumping e altre restrizioni.
In tutte queste proposte è chiarissima l'impronta yankee, dato che esse, in fin dei conti, danneggeranno essenzialmente i paesi europei, ancora in buona parte dipendenti dalle risorse energetiche russe. Una volta costretta la UE a sostituire grandi volumi di forniture, queste possono essere "cavallerescamente" offerte agli USA. S'intende: al prezzo yankee.
Il gioco sembrerebbe fatto. C'è però un “ma”. La Commissione europea, con le lacrime agli occhi, si è vista costretta a ritoccare sensibilmente al rialzo le proprie previsioni sul PIL russo: a dispetto delle sanzioni. Bruxelles parla di un +2% quest'anno e rivede la precedente previsione di +1,3 nel 2024, portandola a +1,6%; da parte sua, il Ministero per lo sviluppo economico russo parla addirittura di un +3% nel 2023 e +2,3% per l'anno prossimo. Insomma, a dirla tutta, proprio per questo appare ora il nuovo rapporto sulle sanzioni di cui sopra. Qualcuno è duro di comprendonio.
Non a caso, nel rapporto si parla anche dei paesi asiatici, verso cui (soprattutto Cina e India) Mosca ha reindirizzato buona parte delle proprie esportazioni, soprattutto energetiche, sconvolgendo le previsioni liberal-europeiste. Inoltre, un grosso antidoto alle sanzioni è venuto dallo stesso governo russo, diventato il principale investitore nel paese, così che i settori più sensibili dell'economia russa sono stati supportati da programmi e sussidi. «Il principale motore dell'economia è dato dalle spese di stato» afferma l'economista russo Mikhail Koroljuk e i settori trainanti sono costruzioni, industria, metallurgia, trasporti, banche e agricoltura.
Il punto critico, afferma Koroljuk, è la carenza di manodopera e il problema può essere risolto solo aumentando la produttività del lavoro; per far questo «sono necessari investimenti e, affinché questi arrivino, c'è bisogno di benefici fiscali per quelle imprese che si impegneranno nella crescita della produttività del lavoro, ricorrendo anche all'intelligenza artificiale». Al tempo stesso, afferma l'economista, la carenza di quadri influisce anche sull'aumento dei prezzi. Le imprese vanno a caccia di collaboratori e aumentano i loro stipendi; redditi più elevati stimolano i consumi e anche l'inflazione.
Ma, nonostante tutto, a ovest si insiste con le sanzioni; in particolare quelle che investono, appunto, il settore energetico. E in questa crociata un ruolo di primo piano viene ora affidato (o imposto) a Copenaghen, il cui compito dovrebbe esser quello di chiudere il mar Baltico al transito del naviglio (specificamente: petroliere) russo: un vero e proprio blocco navale, insomma, poco diverso da quello tentato dagli hitleriani all'inizio dell'invasione dell'URSS, nel 1941. Sembrerebbe che Bruxelles abbia “suggerito” alla Danimarca di controllare e, se del caso, bloccare, le petroliere russe che attraversano le sue acque, quale misura contro l'elusione del tetto al prezzo del petrolio. Non a caso, la quasi totalità di petrolio e carbone russi trasportati per il Baltico (circa il 60% dell'export petrolifero russo) attraversano lo stretto di Danimarca.
Ora, la navigazione attraverso gli stretti del Baltico è tutt'oggi regolamentata dal trattato di Copenaghen del 1857, che annullava il cosiddetto “Pedaggio del Sund” e consentiva – e consente - la libera circolazione attraverso gli stretti, senza pedaggi, delle navi di tutti i paesi aderenti.
Il portavoce presidenziale russo Dmitrij Peskov ha detto di non aver notizia di piani danesi, ma che in ogni caso il Cremlino «ammonisce in anticipo sulla necessità di rispettare le regole del commercio marittimo internazionale».
Gli stretti danesi rivestono infatti un'importanza notevole nel trasporto di risorse energetiche russe, in particolare carbone e petrolio. Nel 2022 il trasporto di quest'ultimo attraverso gli stretti è ammontato a 180 milioni di tonnellate per i carichi partiti dai porti di Ust-Luga e Primorsk.
In teoria, afferma Jurij Selivanov su News-Front, con cavilli giuridici Bruxelles potrebbe giustificare tutto, anche il blocco dei trasporti russi nel Baltico. Altra cosa è però la reale forza, inclusa quella militare, in grado di rendere effettivo quel blocco. È davvero in grado, da sola, la marina danese di rendere effettiva la decisione UE? Oppure chiederà l'aiuto di un paio di portaerei USA? E se queste sono fortemente impegnate in Medio e in Estremo Oriente, lasceranno veramente quelle destinazioni per correre in aiuto di Copenaghen, sfidando “Kalibr” e “Kinžal” russi?
Se oggi qualcuno a Bruxelles, a oltre un secolo di distanza, ha in mente di rinverdire una Skagerrakschlacht, una “Battaglia dello Jutland” in cui, al posto di incrociatori armati di cannoni, vadano in scena vascelli lanciamissili e aerei da caccia armati di missili, possono ben mutuarsi le parole pronunciate a suo tempo da Vladimir Putin a proposito di alcuni vaneggiamenti occidentali di sconfiggere la Russia sul campo di battaglia. «Che dire... che ci provino un po'».
Ma a chi serve tutto questo?