Il Poker delle monete è allo “stallo messicano"
di Giuseppe Masala per l'Antidiplomatico
Nonostante l'eco mediatica relativa alla scomparsa di Papa Francesco sia fortissima, non si placano le polemiche provenienti dall'America tra il Presidente Trump e il Presidente della Federal Reserve, la banca centrale americana.
Segno questo che la situazione non è affatto tranquilla per quanto riguarda la stabilità del sistema monetario-finanziario d'oltre Atlantico.
Del resto lo sappiamo bene, gli squilibri dei conti nazionali che si protraggono per troppo tempo pongono le classi dirigenti di fronte a delle scelte dolorose: o rischiare l'implosione del sistema finanziario o rischiare il meltdown della moneta nazionale. Questo perché le politiche di allentamento monetario (quali l'abbassamento dei tassi o nella peggiore delle ipotesi Quantitative Easing) necessari alla sopravvivenza delle istituzioni finanziarie nel caso in cui ci fosse una fuga di capitali esteri rischiano però di condannare la moneta nazionale ad un progressivo depauperamento del proprio valore. Una situazione questa in stile argentino, giusto per fare un esempio eclatante.
Una situazione che però ormai può essere ipotizzata anche per gli Stati Uniti e per il Dollaro. I conti nazionali ormai fuori controllo, a partire dalla Posizione Finanziaria Netta passiva per oltre 26mila miliardi di dollari, espone il sistema finanziario a stelle e strisce di fronte al rischio di una fuga di capitali con conseguente rischio di crollo di banche e istituzioni finanziarie nello stile di quanto avvenne nel 2008. Con una differenza sostanziale però: nel 2008 il governo degli Stati Uniti aveva un debito pubblico basso e poteva salvare (come effettivamente avvenne) tutti, dalle banche, alle assicurazioni fino alle case automobilistiche. A 17 anni di distanza questa possibilità è sostanzialmente preclusa, visto che il debito pubblico americano ormai viaggia verso il 120% del Pil. Dunque per evitare una fuga di capitali non rimane che la scelta di tenere alti i tassi. Ed è questa la strada che sembra aver scelto l'attuale presidente della FED Jerome Powell.
Scelta però sgradita a Trump che per far ripartire l'economia reale vorrebbe tassi più bassi di modo da far riaprire i rubinetti del credito necessari allo scopo. Evidentemente Trump e i suoi uomini non ritengono possibile un crollo di Wall Street (e delle banche) dovuto ad una crisi causata dalla fuga dei capitali esteri. Evidentemente Jerome Powell la vede in maniera opposta.
Ed è da qui che nasce la violentissima polemica in corso tra la Casa Bianca e la Federal Reserve, dove il Tycoon newyorkese non perde occasione per insultare Powell con epiteti quali “major loser”, grande perdente, che in una società iper competitiva come quella a stelle e strisce può essere considerato un insulto sanguinoso.
Quello che però va capito è che gli insulti di Trump verso la FED non possono essere derubricati a livello di sterile polemica politica tipica di tutto il mondo ma ad un fatto politico di primaria importanza che rompe un dogma delle liberal democrazie occidentali: l'assoluta indipendenza dal potere politico delle banche centrali.
Dunque siamo di fronte ad un fatto di rilevanza politica fondamentale, al pari dell'imposizione dei dazi attuata dall'amministrazione Trump contro il resto del mondo. Due dogmi fondamentali dell'ordine liberal democratico vengono così messi in forte discussione dall'amministrazione Trump: quello del libero commercio e quello dell'indipendenza della banca centrale, che poi si sostanzia nell'autonomia dei mercati finanziari dalla volontà democratica.
Fatti questi, che indipendentemente dal giudizio politico che se ne vuole dare, chiariscono l'estrema gravità della situazione che gli Stati Uniti e il mondo stanno vivendo.
Estrema gravità che è data anche dal fatto che al momento nessuno dei grandi player mondiali (sostanzialmente USA, Cina, UE e in misura minore Russia e Giappone) sembrano disponibili a cedere di un millimetro rispetto alle proprie posizioni.
Trump vorrebbe reindustrializzare gli USA per avere una bilancia commerciale in attivo ma allo stesso tempo vuole mantenere il dollaro come moneta standard per gli scambi internazionali, così da consentire a Wall Street dell'afflusso delle riserve in dollari che accumulano le banche centrali e le istituzioni finanziarie e le aziende industriali in tutto il mondo.
Allo stesso tempo la Cina, il Giappone e l'Europa vogliono mantenere a tutti i costi il ruolo di grandi manifatture del mondo. E non intendono diventare importatori netti con la conseguenza di perdere sia parte del loro tessuto industriale sia – lentamente ma inesorabilmente – le enormi ricchezze accumulate.
Che la partita sia ad un punto che se fossimo dei pokeristi dovremmo chiamare di “stallo messicano” pare evidente. Nessuno cede dalle proprie posizioni e anzi si tentano strategie per spaventare l'interlocutore.
Gli americani continuano ad imporre tariffe draconiane all'import dagli altri paesi; solo oggi Washington ha annunciato dazi del 3521% sui pannelli solari provenienti dalla Cambogia, Thailandia, Vietnam e Malesia. Allo stesso tempo le banche centrali degli altri paesi vendono massicciamente titoli di stato a lungo termine degli Stati Uniti per rimpiazzarlo con l'acquisto di titoli a breve termine: una mossa che sa tanto di minaccia e che avvisa il governo americano della mancanza di fiducia sulla sostenibilità del proprio debito nel lungo termine.
In questo panorama di stallo messicano della guerra delle valute e dei commerci tutti i dogmi e tutte le logiche degli ultimi decenni sembrano ormai superate.
Se Trump mette in discussione l'indipendenza della Federal Reserve e il dogma del libero commercio, anche la Cina sembra pronta a cambiare completamente il proprio approccio, offrendo all'Europa di formare un alleanza per contrastare l'offensiva trumpiana a colpi di dazi sull'import. Si annunciano davvero tempi interessanti (e pericolosi)!