Il lavoro povero a lungo negato viene finalmente attenzionato

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Il lavoro povero a lungo negato viene finalmente attenzionato

 

di Federico Giusti

La povertà dei salariati è una eredità dei tragici 40 anni neoliberisti, non basta avere un regolare contratto per conquistare una vita dignitosa, se si lavora in qualche cooperativa o negli appalti, se siamo costretti al part time ci sono buone probabilità di non arrivare a fine mese. Si è poveri pur lavorando per salari da fame e contratti sfavorevoli raggiungendo una retribuzione pari o inferiore al 60% della mediana nazionale, il fenomeno si sta diffondendo nei paesi Ue ma la situazione italiana, in virtù di 40 anni nei quali la perdita del potere di acquisto è stata incessante, è forse la più drammatica tra i paesi del vecchio continente.

Anche la Cgil, alla vigilia del Referendum , prende atto della situazione ammettendo (tardivamente) che tra le cause della povertà salariale va registrata l’assenza del salario minimo ma dimentica al contempo i tanti contratti nazionali (inclusi molti di quelli siglati dalla triplice) costruiti ad arte per ridurre il costo del lavoro, il deterioramento delle condizioni di vita negli appalti e nei subappalti, il ricorso strutturale al part time risultato anche del fuoco incrociato (associazioni datoriali e sindacati rappresentativi) contro il decreto dignità. E a queste elementari considerazioni bisogna aggiungere il sistema con il quale sono calcolati gli aumenti contrattuali, quel codice Ipca imposto dalla Ue ma solertemente voluto dai sindacati in nome della lotta alla inflazione.

Le vere cause della povertà dei salariati se non rimosse sono posizionate in secondo piano dalle ricerche sul lavoro dalla Cgil che si sofferma invece “sulle cause strutturali a determinare, evidenziando in particolare quelle legate alla tipologia contrattuale, al tempo di lavoro, all’inquadramento professionale, alla dimensione d’impresa, al livello di istruzione e di competenze e, infine, al territorio”.

Prima di ogni ulteriore analisi e considerazione ogni organizzazione sindacale dovrebbe prima evidenziare i limiti della dinamica salariale, dal sistema di contrattazione all’abbassarsi progressivo della retribuzione oraria, dal ricorso strutturale al part time alla riduzione effettiva delle ore lavorate, dagli incentivi per ritardare la pensione all’innalzamento della stessa età pensionabile, dai contratti siglati al di sotto del costo della vita fino alla erosione del potere contrattuale per impedire rivendicazioni forti e miglioramenti effettivi

Se la Cgil ammette tra le cause principali della povertà salariale il continuo ricorso al part-time, la precarietà contrattuale e la discontinuità lavorativa, forse è arrivato il momento di rompere l’alleanza con Cisl e Uil e affermare nuove regole di rappresentanza nei luoghi di lavoro, prendere atto che Enti bilaterali, organismi paritetici, previdenza e sanità integrativa sono altre trappole mortali dalle quali prendere definitivo commiato. Ma operando queste scelte dirompenti esisterebbe un domani la Cgil? E non parliamo degli iscritti ma di quel sistema economico che ruota attorno a caf, patronati, fondi pensioni integrative, sanità private cresciuto esponenzialmente da 30 anni a questa parte.

Nel 2023 il salario lordo annuale medio nel settore privato, esclusi i settori agricolo e domestico, era pari a 23.662 euro, in aumento rispetto agli anni precedente ma inferiore di circa il 6% rispetto ai dati ufficiali della inflazione.

Il vero problema sta proprio nella perdita del potere di acquisto che si ottiene rapportando i salari al costo della vita, poi a ruota arrivano altre cause come la debolezza contrattuale e retributiva della forza lavoro a termine e part time.

Non commettiamo l’errore di pensare che la povertà lavorativa sia causata solo  da part time e mancata stabilizzazione della forza lavoro, questa condizione riguarda anche i contratti full time e a tempo indeterminato e ovviamente colpisce con maggiore asprezza gli anelli deboli della catena del lavoro.

Riportiamo due tabelle contenute nello studio della Cgil

La questione salariale e le basse retribuzioni in Italia

Tabella 1 - Salario lordo annuale medio (in euro) nel settore privato (esclusi settore agricolo e domestico) per tipologia contrattuale e tempo di lavoro, 2023

 

Salario lordo annuale medio (in euro)

Tipologia contrattuale:

 

tempo indeterminato

28.540

a termine

10.302

   

Tempo di lavoro:

 

full-time

29.508

part-time 

11.785

   

Media generale 

23.662

Fonte: elaborazione Ufficio Economia CGIL su dati INPS

Tabella 2 - Numero di lavoratori dipendenti del settore privato (esclusi settore agricolo e domestico) e incidenza percentuale per classe di importo del salario lordo annuale (in euro), 2023

 

N. lavoratori

Incidenza %

Fino a 5.000 euro

2.365.869

13,6%

5.000 - 9.999 euro

1.854.854

10,7%

10.000 - 14.999 euro

1.983.830

11,4%

15.000 - 19.999 euro

2.112.080

12,2%

20.000 - 24.999 euro

2.580.758

14,8%

25.000 - 29.999 euro

2.200.327

12,7%

30.000 - 34.999 euro

1.339.561

7,7%

35.000 - 39.999 euro

815.677

4,7%

40.000 - 44.999 euro

542.666

3,1%

45.000 - 49.999 euro

372.476

2,1%

50.000 - 59.999 euro

471.548

2,7%

60.000 - 79.999 euro

402.131

2,3%

80.000 euro ed oltre

340.824

2,0%

Totale 

17.382.601

100,0%

Fonte: elaborazione Ufficio Economia CGIL su dati INPS

L’analisi della Cgil è inappuntabile ma viziata da un errore politico di fondo ossia non  rimettere in discussione decenni di politiche contrattuali e di accordi quadro che hanno di fatto costruito un mondo del lavoro contraddittorio in cui il numero degli occupati cala nelle fasce di età nelle quali dovrebbe invece crescere (come avviene in altri paesi Ue), con un nanismo produttivo preoccupante, una riduzione delle ore lavorate, paghe orarie troppo basse e sacche di lavoro nero in ogni parte del paese. Siamo il paese dei contratti part time e con durata inferiore all’anno ma anche la nazione ove le buste paga risultano decisamente basse per una paga oraria contrattuale inferiore a quelle degli altri paesi europei, questa è la realtà da affrontare con una decisa inversione di rotta nelle politiche sindacali da intraprendere.

Prendiamo ad esempio i ritardi nei rinnovi dei contratti nazionali, avere pensato fosse sufficiente adottare una indennità di vacanza contrattuale pari a pochi euro al mese è stato un colossale errore ma anche un regalo concesso con troppa generosità alle associazioni datoriali e, nel caso della Pubblica amministrazione, allo Stato.

Altro aspetto dirimente è rappresentato dalla elevata incidenza delle qualifiche più basse nel mercato del lavoro italiano, dalla applicazione di troppi, decisamente troppi, contratti al ribasso, della impossibilità di associare a una data prestazione in un preciso ambito lavorativo, un determinato contratto di riferimento. Quando poi si associa alle basse qualifiche la scarsa scolarizzazione e specializzazione della forza lavoro dimentichiamo che in molti contratti nazionali è venuto meno l’obbligo aziendale alla formazione annuale che dovrebbe essere il volano per migliorare non solo l’inquadramento contrattuale ma anche la dinamica salariale.

Ben vengano ricerche analitiche di centri studi ma il passaggio immediatamente successivo alla ricerca dovrebbe investire proprio le politiche contrattuali e sindacali, il differenziale salariale con altri Paesi europei è frutto non solo dei ritardi nei processi innovativi ma anche di errate politiche in materia di salari, contratti e politiche del lavoro. Ma nella ricerca della Cgil non troverete spazio per qualche pur timida autocritica dell’operato sindacale, se le aziende vogliono competere sui mercati solo abbassando il costo del lavoro dovremmo chiederci perché sia stato possibile. E le risposte sono anche legate ai contratti nazionali costruiti di sana pianta per giustificare la riduzione del costo del lavoro, agli accordi di secondo livello, alle politiche di detassazione che portano la firma della stessa Cgil.

Analogo discorso andrebbe fatto rispetto a quella lunga stagione della precarietà costruita dagli allora governi di centro sinistra che hanno portato avanti la politica della somministrazione, degli apprendisti e dei contratti a termine fino alla debacle del jobs act. Ma quella stagione è iniziata con lo smantellamento di ogni grande azienda pubblica e dell’intervento statale nell’economia che poi ritroviamo tra le cause della debolezza del sistema produttivo italiano al cospetto di Francia e Germania. Se le piccole aziende, con meno di 10 dipendenti, sono quelle ove registriamo la retribuzione oraria più bassa specie per i profili a bassa qualifica, pensiamo anche agli accordi di secondo livello concessi a questi imprenditori con continue deroghe peggiorative rispetto ai contratti nazionali.

Condividiamo quindi la necessità, e l’urgenza di offrire” una risposta rapida sul salario minimo orario” ma un salario dignitoso arriva anche in virtù di scelte sindacali e politiche molto chiare e dirompenti per abbattere la spirale dei bassi salari. E non ci sembra di intravedere alcuna rottura con il recente passato, e presente, orfano della concertazione.

 

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