I Nativi Americani, l’"acqua di fuoco" e le dichiarazioni razziste di Tim Sheehy

I Nativi Americani, l’"acqua di fuoco" e le dichiarazioni razziste di Tim Sheehy

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Una dichiarazione, resa pubblica ai primi di settembre, del candidato repubblicano Tim Sheehy del Montana, facoltoso proprietario di una compagnia di aerei ed elicotteri antincendio, ha suscitato un polverone parlando, in modo razzista e insultando la popolazione nativa, della famosa “acqua di fuoco”. Sheehy ha raccontato al suo pubblico, durante le raccolte fondi per la sua campagna: “Tutti gli Indiani, là fuori, sono ubriachi alle 8 del mattino” e “Ti fanno sapere se gli piaci o no, se ti gettano  lattine di birra”, nella Crow Reservation.

Anche il New York Times ha investigato sulla vicenda. Gli audio delle sue affermazioni sono stati resi pubblici da The Char-Koosta News, il giornale della Flathead Indian Reservation, in Montana. I leader tribali hanno chiesto ripetutamente a Sheehy di scusarsi pubblicamente. Nel Montana, ci sono otto tribù riconosciute a livello federale e sette riserve indiane. Inoltre, ci sono 74.130 nativi americani in età di voto nello Stato, secondo Four Directions Native Vote. Che sicuramente non lo voteranno. Andiamo a vedere insieme cosa c’è dietro al mito della “acqua di fuoco”, e perché l’alcol è, effettivamente, un problema per i Nativi Americani, sin da quando hanno incontrato l’uomo bianco.

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Arma per genocidio

E' documentato che l'alcol fu usato dai mercanti bianchi fin dal XVI secolo come merce di scambio e come “aiuto” nelle trattative commerciali: offrivano agli Indiani la famosa “acqua di fuoco” e, visti gli effetti devastanti che l’alcol provocava sui nativi, ottenevano pellicce e altri beni spesso a prezzi irrisori. Coyhis e White paragonano l’alcol a un’arma usata con premeditazione per sconfiggere e sterminare gli Indiani; alcol puro, da diluire con acqua, veniva portato dall’esercito per facilitare le missioni e le trattative del governo degli Stati Uniti in terra indiana (Don L. Coyhis e William L. White, Alcohol Problems in Native America: The Untold Story of Resistance and Recovery - The Truth about the Lie, Indipendent Publisher, 2006).

Rick McBride, sangue misto Cherokee, descrive l'alcol come “strumento” per concludere trattati con gli Indiani: “L'alcol, insieme a corruzione, frode e inganni, mina la storia dei trattati fra le tribù indiane e il governo degli Stati Uniti, che hanno determinato l’emorragia di territori nativi. Ogni moderno tribunale fuori dagli Stati Uniti dichiarerebbe molti trattati inapplicabili e non validi”.

Storicamente, l’alcol e i suoi effetti erano sconosciuti ai Nativi prima dell’arrivo degli Europei, tranne pochissime tribù che producevano bevande alcoliche usandole, insieme ad altre sostanze che alteravano la mente - come il peyote, in contesti rituali e raramente per il divertimento personale. L'intossicazione era “associata alla ricerca dell'illuminazione, ai poteri di guarigione e all’affrontare vittoriosamente la guerra”.  

La maggior parte dei nativi inizialmente rispose all'alcol con disgusto e sospetto. Consideravano l'ubriachezza “degradante per gli uomini liberi” e mettevano in dubbio le motivazioni di coloro che offrivano una sostanza così offensiva per i sensi e che “rendeva gli uomini sciocchi”. 

Ma quando gli Europei iniziarono a mettere a disposizione dei Nativi Americani una grande quantità di alcolici distillati e di vino, usandoli per dominare le trattative e per soggiogarli, spegnendo i loro intelletti, le tribù ebbero pochissimo tempo per adattarsi e sviluppare linee guida sociali, legali o morali per regolare l'uso dell'alcol.  Nel 1753, Benjamin Franklin scrisse nella sua autobiografia: “Gli Indiani sono estremamente inclini ad ubriacarsi, e quando lo fanno sono molto litigiosi e disordinati... in effetti, se il disegno della Provvidenza è quello di estirpare questi selvaggi per fare spazio ai coltivatori della terra, non sembra improbabile che il rum sia il mezzo designato”.

Nella sua ricerca, Raphael Lemkin, il giurista che ha coniato il termine genocidio, concluse che la distribuzione di alcolici fosse uno dei diversi strumenti (come i trasferimenti forzati, la distruzione dei simboli culturali e la “rieducazione” dei bambini) con cui i coloni europei-americani commisero il genocidio in Nord America.

Il problema dell’alcol nelle riserve oggi

L'uso dell'alcol come oggetto di scambio e la pratica dell'intossicazione per divertimento o per alleviare lo stress hanno gradualmente minato la cultura tradizionale dei Nativi Americani. Oggi il 12% delle morti nelle riserve è collegato all’alcolismo, dal quale sono capaci di limitarsi solo le donne, inferiori in percentuale. Incidenti mortali, malattie del fegato, omicidi e suicidi sono collegati all’alcol. Gli Indiani d’America sono vittime di un alcolismo feroce da circa quattro generazioni; la gioventù raggiunge in alcune tribù vette dell’80% nell’abuso di alcolici e di metanfetamina. Le ragioni principali? Si ritiene che, oltre ad uno storico “shock post-traumatico”, le cause siano una bassa autostima, depressione, il conflitto culturale di valori tra la loro cultura e quella dominante occidentale e, non ultimo, l’essere vittima di episodi di razzismo, a scuola o sul lavoro.

Esisterebbe anche un fattore genetico: un diverso metabolismo dell’alcol, collegato a genotipi enzimatici (ALDH1 e ALDH2) anche se gli studiosi non sono ancora concordi su questo punto.

L’alcol viene spesso assunto attraverso il “binge drinking”, una sorta di abbuffata di alcol, episodi acuti che lasciano intere famiglie prive di sensi e senza denaro.

In alcune tribù, il tasso di disturbo dello spettro fetale dell'alcol raggiunge l'1,5-2,5 per 1.000 nati vivi, più di sette volte la media nazionale mentre, tra i nativi dell'Alaska, il tasso di disturbo dello spettro fetale dell'alcol è di 5,6 per 1.000 nati vivi.

L’alcolismo, in realtà, è la punta di un iceberg, costituito da una miriade di problemi sommersi. L’HIS (Health Indian Service) e i governi tribali stanno cercando soluzioni, attraverso programmi di recupero, di prevenzione, di educazione.

Mi racconta David Dragonfly, dei Blackfeet: “Qui nella riserva abbiamo proibito l’alcol, poi lo abbiamo liberalizzato, poi ancora proibito: nulla cambia. Ci sono uomini pronti a implorare in ginocchio per avere un goccio d’alcol”.

James, un Oglala Sioux, mi confida: “Almeno tre notti la settimana mi ubriaco, finché non mi raggomitolo vicino a un muro. La mattina mi sveglio all’addiaccio, o in prigione. Ma poi sto bene”.

C’è chi se ne approfitta anche oggi

Nel 2012 ha fatto clamore il caso della Pine Ridge Reservation, che ha come membri tribali circa 45.000 Oglala Sioux, in Sud Dakota, alcolicamente e legalmente “asciutta” dagli anni Settanta,in quanto il governo tribale ha deciso di proibire la vendita d’alcol. Ciononostante è stata decimata dall’alcol. Incredibilmente, nel vicino paesino di Whiteclay, 10 abitanti, esistevano ben 4 negozi di liquori, che vendevano oltre 4 milioni di lattine di birra e liquore l’anno, 13.000 al giorno. Il governo tribale di Pine Ridge ha intentato una causa contro i negozi, contro la Anheuser-Busch, produttrice di birra, e altre fabbriche, con l’accusa di incoraggiare l’acquisto illegale, il possesso, il trasporto e il consumo dell’alcol nella riserva, dove l’alcol è proibito. Il governo tribale ha chiesto 500 milioni di indennizzo per spese mediche, assistenza sociale e di pubblica sicurezza causate dall’abuso di alcol e chiede un limite allo smercio di alcol in Whiteclay. Ma se si demonizza Whiteclay, attorno a ogni riserva indiana è pieno di altre “Whiteclay”: quando sono stata alla Shiprock Fair, il bellissimo pow wow dei Navajo, dove l’alcol è proibito, a soli dieci metri dai confini della riserva, arrivando da Gallup, in una stazione di servizio c’erano insegne megagalattiche che inneggiavano a liquori e birra fresca, e un via vai di nativi con casse di alcolici che venivano caricate in auto.

L’epilogo di Whiteclay

Esistono talvolta storie a lieto fine. Nel 2017 sono state revocate le licenze per la vendita di alcolici ai negozi di Whiteclay. Una grande vittoria per gli Oglala Lakota che, però, nel frattempo sono stati decimati dall’alcol. Tornando a Sheehy, visto cosa racconta la storia, dovrebbe solo tacere.  

 

 

Raffaella Milandri

Raffaella Milandri

 

Scrittrice e giornalista, attivista per i diritti umani dei Popoli Indigeni, è esperta studiosa dei Nativi Americani e laureata in Antropologia.
Membro onorario della Four Winds Cherokee Tribe in Louisiana e della tribù Crow in Montana. Ha pubblicato oltre dieci libri, tutti sui Nativi Americani e sui Popoli Indigeni, con particolare attenzione ai diritti umani, in un contesto sia storico che contemporaneo. Si occupa della divulgazione della cultura e letteratura nativa americana in Italia e attualmente si sta dedicando alla cura e traduzione di opere di autori nativi. Attualmente conduce un programma radiofonico sulla musica nativa americana, "Nativi Americani ieri e oggi" e cura la riubrica "Nativi" su L'AntiDiplomatico.

 

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