I monopolisti UE della guerra e le masse popolari

Non è vero che “le guerre sono tutte uguali”. Alle guerre volute e scatenate dagli interessi del capitale, occorre che le masse popolari oppongano la “guerra” per le proprie condizioni di vita, contro il profitti monopolistici.

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I monopolisti UE della guerra e le masse popolari

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

I cosiddetti “valori europei”, con cui si riempiono intere colonne di stucchevoli elegie in nome di una “democrazia” che, per i signori UE, nella sua eterna immutabilità, non conosce né contesto storico, né tantomeno contenuti di classe (e come potrebbe essere altrimenti, quando tutto si riduce a un “federalismo”, nato proprio in contrapposizione a ogni internazionalismo di classe, e al cui altare europeista pregano oggi le più svariate facce del demofascioliberalismo borghese?) passano oggi fluidamente in secondo piano, o addirittura scompaiono, non appena l'impegno del momento diventa quello di combattere “l'imperialismo russo”. Cioè: scatenare la guerra.

Nero su bianco, ora è tutto rappresentato nelle decisioni prese il 6 marzo a Bruxelles, per cui all'ordine del giorno sono mobilitazione e riarmo accelerato (come se fosse mai diminuito) contro la “minaccia proveniente dalla Russia”. Pronti a rispondere all'appello, ecco che, contro quella “minaccia”, si esige che si scenda in piazza «per l'Europa di von der Leyen, l'Europa armata che deve prendere il posto dell'America»: lo predica dal suo pulpito il signor Paolo Mieli, per esortare i “fedeli” a unirsi a coorte attorno alla fontana di san Pietro, prima che vi giungano di nuovo i cosacchi ad abbeverare i cavalli. E, se ispira qualche dubbio fra i “democratici” il progetto della jena teutonica antropomorfa per una «agevolazione al riarmo dei 27 stati», ecco che è pronta l'alternativa (si fa per dire) demoliberale: «un esercito europeo, che sarebbe più efficace anche in termini di deterrenza». Deterrenza: contro chi e che cosa? O dovrebbe piuttosto servire ad armare l'espansionismo dei monopoli “europeisti” in concorrenza mondiale coi capitali delle altre potenze globali? I demoliberali di via Sant'Andrea delle Fratte sostengono che «Trump ha deciso di prendere le parti di Putin, ricattando e umiliando l’Ucraina», perché tutti e due, insieme, vogliono «dividere e indebolire l’Europa»; e i demoliberali non possono «accettare che gli USA vogliano escludere l’Ucraina e la UE dai negoziati con la Russia».

Ma, gli stessi demoliberali, quante volte hanno “incluso” il Donbass nei loro appelli di “inclusione”, mentre loro esponenti, nel 2014, dal palco in majdan Nezaležnosti, inneggiavano al golpe nazi-europeista? Se oggi la signora Elly Schlein chiede di «dare un mandato chiaro e forte a una delle istituzioni europee perché possa sedersi a quel tavolo per difendere gli interessi di sicurezza ucraini ed europei», ricorda ella quale fosse stato il risultato del tavolo cui erano seduti, nel febbraio 2015, a Minsk, i signori Hollande e Merkel? Il risultato, o meglio l'obiettivo, era quello di dare tempo alle truppe di Petro Porošenko di riaversi dai duri smacchi di Ilovajsk e Debaltsevo, per ricominciare a terrorizzare i civili del Donbass, bombardando scuole, asili, ospedali, parchi giochi, edifici e infrastrutture pubbliche.

Il piano di riarmo dell'Europa di oggi, sia esso cucito alla “von der Leyen”, o ricamato dai demoliberali di Elly Schlein, non va in altra direzione che quella di «continuare a supportare un popolo invaso», secondo le litanie farisee antistoriche e antidialettiche su “aggredito” e “aggressore”, cieche al contesto internazionale che, come minimo da un paio di secoli, ha teso a fare dell'Ucraina una sorta di “nave ammiraglia” nella contrapposizione alla Russia.  Solo per “curiosità”, ricordiamo un passaggio del famigerato Zbigniew Brzezinski: «L'Ucraina, uno spazio nuovo e importante sullo scacchiere eurasiatico, è un centro geopolitico perché la sua stessa esistenza come Stato indipendente contribuisce a trasformare la Russia... Senza l'Ucraina, la Russia potrebbe ancora lottare per lo status imperiale, ma diventerebbe uno Stato imperiale in gran parte asiatico... Tuttavia, se Mosca riprende il controllo dell'Ucraina, con i suoi 52 milioni di abitanti e le sue grandi risorse, nonché l'accesso al mar Nero, la Russia riacquisterebbe automaticamente i mezzi per diventare un potente Stato imperiale diffuso in Europa e in Asia. La perdita dell'indipendenza dell'Ucraina avrebbe conseguenze immediate per l'Europa centrale, trasformando la Polonia in un centro geopolitico alle frontiere orientali dell'Europa unita» (La grande scacchiera, 1997).

Quale dovrebbe essere, dunque, la àfantomatica «proposta di pace europea»? Forse, proprio quella uscita il 6 marzo a Bruxelles? “Armarsi” e “Riarmarsi”. Stando a Bloomberg, a istigare il rigetto di “freni finanziari” per la nuova corsa agli armamenti sarebbe stata proprio la patria della jena antropomorfa, la Germania, per di più all'unisono con vincitori e perdenti elettorali: se la scorsa settimana, il candidato-cancelliere Friedrich Merz aveva presentato un vasto piano di spesa per l'esercito tedesco, ecco che oggi il cancelliere uscente Olaf Scholz dichiara che «a lungo termine, dobbiamo garantire che gli stati possano spendere quanto vogliono per la difesa». “Difesa” da chi? O invece guerra, e contro chi?

Per l'Italia, si parla già da tempo di portare le spese di guerra dall'attuale 1,5% del PIL al 2,5% e quindi al 3%, o addirittura al 5%, come si richiede da Oltreoceano. E non è inutile ribadire – anzi, su questo, occorre un ben preciso e argomentato discorso, che non le solite lacrime di biasimo e raccapriccio; occorrono piuttosto concrete cifre che entrino nella testa dei diretti interessati – da dove verranno tratti quei soldi e su quali tasche andranno a frugare, insieme, demofascioliberali uniti.

Per il momento, come nota l'analista militare Evgenij Umerenkov su Komsomol'skaja Pravda, a Bruxelles si è «deciso solo di ri-orientare la Banca europea per gli investimenti verso il finanziamento di programmi militari»; dopo di che, gli argomenti principe sono quelli di «determinazione e unità», su cui sono tutti favorevoli, a eccezione dell'Ungheria. Sullo specifico del sostegno alla junta nazigolpista di Kiev, il primo ministro slovacco Robert Fitso ha affermato che la metà dei fondi stanziati da Bruxelles per Kiev sono stati rubati e che dunque, come minimo, si dovrebbero fare accertamenti sulla corruzione ucraina.

Ora, date le «sempre più verosimili (e già in atto)» aggressioni (ovviamente russe), come dice qualche avventurista in vena di spedizioni armate sulla pelle degli altri, e preoccupati per la presunta scarsa «difesa militare dell’Europa», ecco che a Bruxelles si dirottano miliardi e miliardi verso i già di per sé esosi profitti dei complessi militari industriali, opzione su cui neofascisti e demoliberali sembrano distinguersi soltanto per la “nazionalità” dei monopoli da privilegiare.

E, a proposito del vertice di Bruxelles, svoltosi in un «momento decisivo per la sicurezza europea», a parere di Umerenkov si potrebbero tracciare due paralleli storici: nel 1933, appena salito al potere, Hitler iniziò la militarizzazione accelerata della Germania, ignorando tutte le restrizioni previste dal Trattato di Versailles; «sappiamo come è andata a finire», dice Umerenkov. Il secondo parallelo è quello della corsa agli armamenti in cui l'Unione Sovietica si lasciò trascinare negli anni '80 in risposta al programma reaganiano di “Guerre Stellari”: «si rivelò un bluff, ma l'URSS, esauritasi nel tentativo di rispondere all'America, presto scomparve». Chiaramente, si può legittimamente obiettare che altre cause, anche prima degli anni '80 e più interne che estere, causarono il voluto abbattimento dell'Unione Sovietica; ma il punto evidenziato da Umerenkov è un altro: «Se l'Europa vuole iniziare una nuova corsa agli armamenti, e lo dice apertamente e persino in modo provocatorio, si accomodi»; farà la stessa fine dell'URSS.

Per il momento, tralasciando le pur significative omelie anglo-franco-teutoniche a proposito di spiegamento di “contingenti di pace” in Ucraina, di “ombrelli atomici” francesi sull'Europa, di scholziani discorsi sulla continuazione dell'armamento europeo dell'Ucraina, mentre Varsavia, prima per bocca del ministro della guerra Wladyslaw Kosiniak-Kamysz e poi del presidente Andrzej Duda, esclude la necessità e l'eventualità di spedire truppe, in particolare polacche, in Ucraina. Tralasciando la macroniana nervosa “disponibilità” a incontrare Putin, dopo che il presidente russo aveva paragonato le uscite dell'omologo gallico alle vicende napoleoniche e alla loro conclusione sul suolo russo. Senza infine soffermarsi sulle macroniane ridicole pretese secondo cui la volontà europea sarebbe «quella di essere una potenza di pace e di equilibrio» e che gli appelli ad armarsi sarebbero una «scelta a favore della pace», come “dimostrano” - aggiungiamo noi - le inequivocabili parole di quel capitano ucraino di un reggimento di droni d'attacco, secondo cui, dato che oggi Kiev non è in grado di riconquistare Crimea e Donbass, deve però mantenere le rivendicazioni territoriali per poter ricominciare la guerra tra molti anni. Tralasciando tutti questi discorsi, prima che la guerra scoppi davvero e data l'annosa carenza di una vera coscienza di classe, animata non da generici “pacifismi” chiesastici, ma da una dura e conseguente contrapposizione ai piani bellicisti dei monopoli e dei loro servitori demofascioliberali, a nostro parere, il punto centrale in questo momento dovrebbe riguardare le parole d'ordine su cui concentrarsi per cercare di portare milioni di persone a contrastare i piani guerrafondai delle borghesie europee.

Nello specifico, più che il ripetersi di fraseologie che rimangono “astratte” per molte persone, la contrapposizione ai piani di guerra dovrebbe riguardare specificamente, direttamente e concretamente il tema di ciò che le masse popolari, gli operai, tutti i lavoratori hanno da perdere dai piani monopolistici di riarmo, in fatto di diritti, anche i più “liberali”, quelli sbandierati dalla stessa borghesia fintanto che fa comodo mascherare con essi la soppressione di altri, fondamentali, diritti sociali e soppressi poi, ancora dalla stessa borghesia, non appena divengano ostacolo alla mobilitazione per la guerra. Appare oggi quanto mai impellente concentrasi sul tema di ciò che le masse popolari hanno da perdere in fatto di condizioni di vita, di lavoro, di sicurezza sociale e sanitaria, prima ancora di arrivare a perdere la vita stessa per la guerra che, di nuovo la stessa borghesia che proclama «di essere una potenza di pace» scatenerà non appena le perdite di profitti raggiungeranno livelli per i quali i padroni non possono più essere padroni. Su questi temi, oggi, occorre cercare di sensibilizzare e raccogliere le più ampie masse popolari. Non è facile, nelle condizioni della decennale aggressione ideologica demofascioliberale. Ma occorre tentare. Non è vero che “le guerre sono tutte uguali”. Alle guerre volute e scatenate dagli interessi del capitale, occorre che le masse popolari oppongano la “guerra” per le proprie condizioni di vita, contro il profitti monopolistici.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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