I dazi possono fermare la decadenza degli Stati Uniti?
di Domenico Moro
L’atteggiamento del presidente Trump riguardo ai dazi appare ondivago: in una serie ininterrotta di dichiarazioni i dazi vengono messi, poi tolti e rimessi ancora. Il 2 aprile, il “giorno della liberazione” secondo la retorica trumpiana, sono stati annunciati dazi elevati per quasi tutti gli stati mondiali. Alla Ue sarebbero stati applicati dazi del 20%. Qualche giorno dopo, Trump li ha sospesi per 90 giorni, ma ha mantenuto dazi al 10% per tutte le merci e i dazi sull’acciaio e sull’alluminio al 25%. Inoltre, ha innalzato i dazi contro la Cina al 145%, salvo qualche giorno dopo esentare dall’aumento tutta una serie di prodotti elettronici provenienti dal paese asiatico.
La ragione di questo passo indietro sta nel fatto che Big tech, che ha appoggiato Trump, sarebbe stata penalizzata dai dazi alla Cina, visto che da lì provengono molti componenti e prodotti finiti delle multinazionali statunitensi, come l’iPhone della Apple. Inoltre, prima della pausa di 90 giorni, Barclays aveva stimato un calo di tutti i fondamentali economici. Il Pil per il terzo trimestre era previsto in contrazione dell’1,5% e nel quarto dello 0,5%, cosa che avrebbe provocato una recessione. L’inflazione sarebbe passata dal 3,4% della fine del 2024 al 4% di fine 2025, mentre la disoccupazione sarebbe aumentata.
Secondo alcuni, dentro il campo trumpiano ci sarebbe una spaccatura tra, da una parte, il segretario al Tesoro, Scott Bessent, e il segretario al commercio, Howard Lutnik, che premevano per un approccio più morbido e, dall’altra parte, il consigliere di Trump per il commercio e la manifattura, Peter Navarro, e il capo dei consiglieri economici, Stephen Miran, che hanno una posizione più dura. In particolare Stephen Miran rappresenta la vera eminenza grigia che sta dietro la politica dei dazi, avendo teorizzato il loro uso in A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System.
La decadenza degli Usa secondo Todd
La spiegazione della politica dei dazi sta nella situazione di decadenza, politica, culturale ed economica, in cui versano gli Usa. Sulla decadenza economica degli Usa è interessante quanto rileva il sociologo francese Emmanuel Todd. “Tra l’inverno e il giugno 2023” - scrive Todd - “un profluvio di studi ha rivelato che gli Stati Uniti non erano in condizione di produrre le armi di cui l’Ucraina aveva bisogno”[i]. I punti di forza dell’economia statunitense sono, da una parte, il gas e il petrolio, e, dall’altra parte, le Gafam[ii] e la Silicon Valley. In mezzo, tra questi due settori, c’è la manifattura, che è stata terribilmente ridotta negli ultimi decenni. La carenza produttiva statunitense è stata messa allo scoperto dalla guerra in Ucraina, attraverso la banalissima incapacità di produrre un numero sufficiente di proiettili da 150mm, standard della Nato. Ma non c’è nulla che gli Usa possano produrre in quantità sufficiente, compresi i missili.
Secondo Todd, il Pil americano, che è il maggiore del mondo, è in realtà gonfiato da servizi alle persone la cui efficacia e utilità è dubbia. Per questa ragione, il sociologo francese propone di passare dal Pil (prodotto interno lordo) a un nuovo indicatore della produzione di ricchezza, il Pir (prodotto interno reale). Il Pil pro capite Usa era nel 2022 di 76.000 dollari. Di questi solo il 20%, circa 15.200 dollari, è composto di settori fisici dell’economia (industria, trasporti, edilizia, miniere, agricoltura). L’ammontare del Pil rimanente è in servizi, equivalenti a 60.800 dollari. Ma di questa cifra esisterebbe realmente solo il 40%, pari a 24.320 dollari. In questo modo si otterrebbe un Pir pro capite di 39.520 dollari, leggermente inferiore al Pil pro capite dei paesi dell’Europa occidentale.
Un altro indicatore della reale potenza di un paese è lo scambio di beni reali con l’estero. In questo ambito gli Usa mostrano un enorme deficit commerciale: essi consumano molto più di quanto producono. L’America, dice Todd, vive su flussi di importazioni non coperti da esportazioni bensì da emissioni di dollari, grazie al fatto che il dollaro è la valuta di riserva mondiale. La dipendenza dall’estero, in termini di deficit commerciale, è aumentata del 60%, al netto dell’inflazione, tra 2000 e 2022 e nonostante la svolta protezionistica avviata da Obama, rafforzata da Trump e proseguita da Biden.
Ma il declino degli Usa è non solo materiale bensì anche umano. L’industria della difesa negli anni ottanta impiegava 3,2 milioni di lavoratori, oggi ne impiega solo un milione. Nonostante abbia oltre il doppio della popolazione della Russia, l’America produce il 33% di ingegneri in meno. Si è generata una fuga di cervelli da ingegneria e materie scientifiche verso figure dei servizi, come avvocati, banchieri e altre figure, che Todd definisce parassitarie. Per questa ragione, gli Usa sono diventati dipendenti nei settori Stem (Science, Technology, Engineering, Mathematics) dai lavoratori importati, che sono passati dal 16,5% sul totale nel 2000 al 23,1% nel 2019.
La carenza di ingegneri si riflette anche sulla reale potenza militare degli Usa. Un esercito moderno si regge sulle sue capacità tecniche, dal momento che la maggior parte dei suoi ufficiali, soprattutto nei reparti tecnici dell’aeronautica e della marina, sono ingegneri. L’incapacità a formare un numero adeguato di ingegneri “fa nascere più di un dubbio sul reale potenziale dell’esercito americano nell’eventualità di un grande conflitto. È per questo motivo che la fuga dei cervelli verso le scuole di diritto o di economia e commercio minaccia direttamente la potenza militare americana. Non si vince una guerra imponendo al nemico sanzioni economiche o bloccando i suoi conti.”[iii]
Perché i dazi secondo Miran
Di fronte a questa situazione di decadenza, è emersa all’interno di una fazione delle élite statunitensi la necessità di reagire, ristrutturando il sistema del commercio mondiale. A esprimere questa tendenza è Stephen Miran, che spiega le cause della decadenza americana e i modi per uscirne. Secondo Miran i problemi degli Stati Uniti – in particolare la deindustrializzazione e delocalizzazione e la crescita abnorme del deficit commerciale e del debito pubblico – possono essere fatti risalire al fatto che il dollaro statunitense è valuta di scambio e di riserva mondiale.
Secondo il Fondo monetario internazionale, ci sono 12 trilioni in riserve nel mondo detenute da istituzioni ufficiali. Di queste il 60% è in dollari statunitensi. Dal momento che il dollaro ha il particolare status di moneta di riserva mondiale, gli altri paesi sono costretti ad acquistare asset in dollari, a partire dai titoli di stato, determinando una costante sopravvalutazione del dollaro rispetto alle altre valute. Con un dollaro “forte”, i consumatori statunitensi trovano conveniente acquistare prodotti dall’estero; mentre le imprese che producono negli Usa si trovano doppiamente svantaggiate, sia sul mercato interno sia sui mercati esteri, perché le loro merci risultano più costose.
Dal momento che, per queste ragioni, le importazioni aumentano e le esportazioni diminuiscono, il debito commerciale cresce. Inoltre, le imprese americane, essendo svantaggiate nella competizione con le imprese estere, devono chiudere o trasferirsi all’estero. Questo problema si accresce nelle recessioni, perché il dollaro e i titoli di stato sono un asset “sicuro” e la loro domanda cresce nelle crisi. Ciò, rileva Miran, ha determinato la perdita di milioni di posti di lavoro nella manifattura e la crisi di molte città industriali, dove cresce la dipendenza dagli aiuti statali e dagli oppiacei.
In una economia normale, la crescita del debito commerciale dovrebbe generare alla lunga la svalutazione della moneta del paese importatore, che renderebbe le sue merci più competitive, riducendo il debito commerciale. Questo, però, negli Usa non avviene, a causa del fatto che il dollaro è valuta di riserva mondiale e la richiesta di riserve non diminuisce. Da qui la permanente situazione di deficit commerciale. Ma lo status del dollaro incide anche sulla sostenibilità del debito pubblico. Infatti, gli Usa, essendoci una costante richiesta di titoli di stato statunitensi, dice Miran, possono aumentarne l’emissione senza che per questa ragione aumentino i tassi di interesse sul debito stesso.
Secondo Miran, gli Usa forniscono al mondo gli asset di riserva, linfa vitale per i sistemi globale commerciale e finanziario, e la sicurezza. Quest’ultima è garantita dalle Forze armate statunitensi e dallo status di riserva che permette di impartire sanzioni economiche a chicchessia. Il problema, sostiene sempre Miran, è che gli Stati Uniti pagano questo “servizio” al mondo libero con la perdita di competitività dell’industria, ottenendo in cambio condizioni di prestito solo modestamente più economiche. Inoltre, Miran sembra dare ragione a Todd, quando dice che la delocalizzazione, che deriva dallo status del dollaro, determina una deindustrializzazione che mina anche la potenza militare degli Usa. Infine, lo status del dollaro è sempre più difficile da sostenere perché gli Usa, oltre a diminuire il loro potere militare, crescono meno di quanto cresca l’economia mondiale: la quota statunitense del Pil mondiale è passata dal 40% degli anni ’60 al 26% odierno.
Come si può risolvere questo problema? Naturalmente gli Usa non possono rinunciare allo status del dollaro come valuta di riserva, tanto che, come ricorda Miran, Trump ha minacciato di punire quei paesi che dovessero abbandonare il dollaro. Inoltre, non ci sono alternative al dollaro oggi, visto che lo yuan cinese non ha le caratteristiche per essere valuta di riserva e l’euro, sebbene le abbia, è la valuta di un’area economica che ha ridotto la sua quota sul Pil mondiale più degli Usa.
Per questa ragione la soluzione prospettata da Miran è l’introduzione di dazi. I dazi presentano effetti collaterali negativi, dal momento che determinano l’aumento dei prezzi dei beni importati e con essi dell’inflazione. Tuttavia, Miran dice che l’aumento dei prezzi è compensato dai movimenti valutari. Il rafforzamento del dollaro, come avvenuto durante la prima presidenza di Trump, può compensare in gran parte l’aumento del prezzo. In questo caso, si ottiene un aumento delle entrate statali attraverso i dazi, senza generare inflazione. Ma anche se un tale controbilanciamento non dovesse esserci, col tempo gli alti prezzi incentiveranno una riconfigurazione delle catene di fornitura e i produttori americani miglioreranno la loro competitività. Probabilmente, i dazi non determineranno una rilocalizzazione delle produzioni a basso valore aggiunto, per le quali economie più povere hanno maggiori vantaggi comparati, ma difenderanno le produzioni ad alto valore aggiunto, impedendone la fuga all’estero, e riequilibreranno la bilancia commerciale.
Punti di debolezza dell’analisi e della proposta di Miran
La domanda che dobbiamo porci è: i dazi possono risolvere la condizione di decadenza economica degli Usa? Come Emmanuel Todd, noi pensiamo che il declino statunitense abbia un carattere irrevocabile. In primo luogo, perché la sopravvalutazione del dollaro non è la causa primaria della delocalizzazione, della deindustrializzazione e del crescente debito commerciale che affliggono gli Stati Uniti. La causa primaria è la sovraccumulazione assoluta di capitale. Questo significa che è stato accumulato troppo capitale in mezzi di produzione rispetto alla capacità di raggiungere un profitto adeguato. Ne consegue una tendenza alla caduta del saggio di profitto. Da qui la spinta a trasferire i capitali o nella speculazione finanziaria o nei Paesi meno sviluppati dove il saggio di profitto è più alto, come nei paesi dell’Estremo Oriente, a partire dalla Cina.
La globalizzazione, che è stata indicata come la causa delle sofferenze della classe operaia americana (e occidentale), non è niente altro che la conseguenza, per dirla con David Harvey, di uno spatial fix, cioè di un “aggiustamento nello spazio” della produzione capitalistica[iv]. Un tale trasferimento geografico della produzione è tipico dell’accumulazione capitalistica: i paesi di più vecchia industrializzazione devono, per forza di cose, trasferire la produzione verso i paesi di nuova industrializzazione che presentano condizioni migliori di accumulazione. Così è accaduto, dopo la Gran Bretagna, anche agli Usa, che hanno visto le loro produzioni spostarsi prima verso l’Europa occidentale e poi verso l’Asia.
Lo sganciamento del dollaro dalla convertibilità con l’oro (1971), che permette agli Usa di finanziare debito commerciale e pubblico stampando dollari, è concomitante alla espansione delle transnazionali statunitense in l’Europa occidentale[v] e al presentarsi di permanenti e sempre più grandi deficit della bilancia commerciale, che hanno inizio nel 1968, durante la guerra del Vietnam. Lo status di valuta di riserva e la sopravvalutazione del dollaro hanno consentito di compensare l’espansione all’estero delle imprese statunitensi e la creazione di deficit della bilancia commerciale.
Il dollaro, inoltre, è, come dice Todd, una “malattia incurabile”: “L’America produce infatti il dollaro, che è la valuta del mondo, e la sua capacità di estrarre ricchezza monetaria dal nulla la paralizza.”[vi] Todd fa riferimento al Dutch disease, ossia a quella condizione particolare per cui un paese ha abbondanza di una risorsa naturale – di solito gas o petrolio - da cui deriva l’aumento del valore della sua moneta la cui forza frena lo sviluppo di altri settori dell’economia.
Lo stesso accade agli Usa che dispongono di una risorsa illimitata, il dollaro. Per questa ragione è difficile correggere un sistema del genere, essendo molto più facile produrre valuta che produrre beni. L’introduzione di dazi contro la concorrenza dell’industria straniera perde la sua efficacia se la vera concorrenza viene da una emissione interna di moneta. Infatti, l’aumento del deficit commerciale persiste nonostante la svolta protezionistica ufficiale di Obama, rafforzata dalla prima presidenza di Trump e proseguita da Biden.
Ma ci sono anche altri elementi nel ragionamento di Miran che non tornano. Secondo Miran l’apprezzamento del dollaro dovrebbe compensare l’aumento nominale dei prezzi provocato dai dazi, come è accaduto durante la prima presidenza di Trump. Al contrario, oggi stiamo assistendo al processo inverso: il dollaro si è indebolito del 9% da inizio anno su un basket di valute internazionali, mentre l’euro è vicino all’1,14 nei confronti del biglietto verde[vii]. Di conseguenza, in assenza di un controbilanciamento valutario, i dazi provocheranno una diminuzione del potere d’acquisto dei consumatori americani, colpendo molti settori popolari che avevano votato per Trump.
Ma anche rispetto al debito pubblico ci sono dei fatti che mal si conciliano con quello che sostiene Miran. Infatti, recentemente si è registrata una fuga dal dollaro e dal debito pubblico statunitense, dovuta ai maggiori acquirenti esteri di debito pubblico statunitense, Giappone e Cina. Non a caso recentemente i rendimenti dei titoli di Stato statunitensi, i Treasury, sono cresciuti mettendo in difficoltà l’amministrazione Trump. Alcuni commentatori, si sono spinti a ventilare l’ipotesi che Trump abbia sospeso per 90 giorni i dazi universali superiori al 10% dopo aver convinto gli stati esteri a comprare titoli di stato americani in un’asta dove effettivamente gli acquisti di Treasury sono stati quasi tutti esteri[viii].
Teoricamente in una condizione di incertezza gli investitori dovrebbero rivolgersi verso i beni rifugio che tradizionalmente sono quattro: il dollaro, i Treasury, il franco svizzero e l’oro. Di fatto, i primi due non stanno funzionando. Al contrario, il franco svizzero è ai massimi (del resto come lo yen e l’euro) e l’oro va benissimo, essendo acquistato da parte delle banche centrali non allineate al dollaro, soprattutto quella della Cina, che provano a costruire una base più consistente di riserve estere indipendenti, proprio a scapito di dollaro e Treasury. Non è un caso che l’amministrazione Trump stia spingendo per aumentare gli acquisti interni di debito nazionale. Le critiche di Trump al presidente della Fed, Powell, nascono dalla volontà di costringere la banca centrale a fare politiche espansive basate non solo sulla riduzione dei tassi d’interesse ma anche sull’acquisto di Treasury. Inoltre, il Tesoro statunitense sta lavorando a una riforma contabile per le banche in modo da permettergli di comprare più titoli di Stato nazionali di quanto sia possibile fare ora[ix].
Comunque c’è da dire che le sanzioni – contrariamente a quanto sostiene Miran - sono un’arma spuntata. Non solo non hanno piegato l’economia della Russia, ma hanno creato un effetto boomerang, ossia la fuga dal dollaro. Infatti, il sequestro illegale dei beni russi all’estero, compreso il congelamento delle riserve in dollari, ha scatenato la paura di tutte le élite internazionali, che avevano sempre investito le loro ricchezze in asset in dollari, per cui, come dice Todd: “sottrarsi all’impero del dollaro è diventato un obiettivo ragionevole per tutti, anche se ciò richiede di procedere in maniera cauta e graduale”[x].
Anche l’instabilità dovuta ai continui scossoni impressi da Trump nuoce al dollaro, come sostiene Wellington management, uno dei maggiori gestori mondiale di asset finanziari, “l’erosione dell’integrità istituzionale Usa potrebbe compromettere lo status di valuta di riserva del dollaro”[xi]. Se l’obiettivo di Miran e Trump era quello di indebolire il dollaro, è stato raggiunto.
I dazi come strumento per risolvere il declino dell’egemonia statunitense
Il concetto di base prevalente nell’amministrazione di Trump è che gli Usa sono stati “sfruttati” dal resto del mondo come fornitori di valuta mondiale, necessaria per gli scambi di merci e finanziari, e di sicurezza. Questa doppia funzione è costata agli Usa un enorme deficit commerciale e enormi spese militari, che hanno gonfiato il debito pubblico.
Ora, quei paesi che, secondo le parole del vice-presidente Vance, sono dei “parassiti” devono porre fine alle pratiche commerciali scorrette, comprando più made in Usa, e aumentare le spese per la difesa. Miran e Trump dimenticano, però, che, in realtà, il dollaro per gli Usa anziché un peso è stato “l’esorbitante privilegio”, come lo definì negli anni ’60 il francese Giscard d’Estaing, che ha permesso per decenni all’America di vivere sul lavoro altrui e di ridurre il salario reale dei lavoratori statunitensi grazie ai prodotti a basso prezzo provenienti dalla Cina e da altri paesi del terzo mondo. E dimenticano che la presunta “fornitura di sicurezza” al mondo è stata invece l’esercizio della forza contro chiunque non si allineasse ai desiderata dell’imperialismo Usa.
Da quanto abbiamo detto sopra si ricava che ben difficilmente i dazi hanno come vero scopo quello di ridurre il deficit commerciale statunitense. Il dollaro, infatti, permette di sostenere sia il deficit commerciale sia il debito pubblico, per lo meno finché rimane la valuta di riserva mondiale.
Qual è allora la funzione dei dazi? Secondo noi, è una funzione triplice. In primo luogo, i dazi sono il tentativo di conservare la base manifatturiera che rimane e magari reinternalizzare alcune produzioni che hanno carattere strategico, come l’acciaio e l’alluminio, su cui Trump ha messo dazi del 25%. La base manifatturiera e in particolare le produzioni come quella di acciaio sono, infatti, legate alla capacità di avere una industria bellica in grado di confrontarsi con quella cinese in un possibile scontro armato. In secondo luogo, i dazi dovrebbero servire a indebolire proprio la Cina, come sembrerebbe provare il mantenimento dei dazi al 145% (ad eccezione dei prodotti elettronici) nel momento in cui nei confronti degli altri paesi Trump ha sospeso per 90 giorni l’aumento dei dazi. La Cina, infatti, è il vero avversario sistemico per gli Usa, tanto che anche il tentativo di chiudere la guerra in Ucraina è dovuto alla volontà di concentrare le energie contro il paese estremo orientale.
L’obiettivo principale è, però, il terzo, ossia usare i dazi come strumento di negoziazione, soprattutto per mantenere il dollaro nel suo status di valuta di riserva, nonostante la riduzione dell’importanza dell’economia statunitense su quella mondiale e nonostante la fuga dal dollaro e dal debito pubblico statunitense di diversi paesi, tra cui la Cina. I dazi, in questo senso, non sono il fine ma lo strumento di una strategia più profonda e articolata. I dazi - e anche l’ombrello difensivo statunitense – hanno l’obiettivo di costringere i partner commerciali e militari statunitensi a acquistare titoli di stato a lunghissimo termine, fino a 100 anni, i cosiddetti “matusalem bond”. L’attuale Segretario al Tesoro, Scott Blessent, prevede di trasformare i titoli a breve e medio termine detenuti da investitori stranieri in obbligazioni a lunghissimo termine. In pratica, i dazi e l’ombrello militare sono parti di un meccanismo per bloccare il capitale estero all’interno dell’ecosistema del debito Usa. L’obiettivo è aumentare il controllo degli Usa sui flussi di capitali internazionali, trasformando i Treasury in un “asset imprigionato” che non può essere liquidato senza subire perdite significative.
In questo modo, il fine di Trump e Miran è chiaro: quello di sostituire progressivamente gli acquirenti asiatici di Treasury con i partner militari e geopolitici degli Usa. In cambio di protezione e sconti sui dazi, si chiederà un impegno a lungo termine sul debito americano. Un patto che potrebbe ridefinire l’equilibrio finanziario globale nei prossimi decenni. La posta in gioco è “la capacità degli Usa di restare il fulcro del sistema economico globale con il dollaro al centro e il debito americano come architrave di un nuovo ordine economico mondiale”.[xii] Il tutto teso verso un obiettivo ambizioso: ridefinire l’intera architettura geopolitica post-globalizzazione.
Saranno centrati questi tre obiettivi? A quanto è dato di vedere, è improbabile che i dazi creino serie difficoltà alla Cina e alla sua capacità in termini di innovazione tecnologica. Infatti, la Cina sta sfidando con successo gli Usa anche su produzioni tecnologicamente avanzate, come l’intelligenza artificiale, i semiconduttori, le batterie e le auto elettriche. Inoltre, è difficile che i dazi possano condurre a reinternalizzare produzioni ormai delocalizzate all’estero, sebbene i sindacati dell’auto e alcune associazioni imprenditoriali, tra cui quelle dell’acciaio[xiii] e dei pannelli solari[xiv], abbiano espresso la loro soddisfazione per l’introduzione dei dazi sui loro prodotti. Anche la possibilità di costringere gli alleati, soprattutto gli europei, a comprare “matusalem bond” è tutt’altro che certa. Infatti, come dice Giovanni Tamburi, fondatore di Tamburi Investment Partners, gli europei non dovrebbero cadere nella trappola di comprare bond a lunga scadenza in cambio di un alleggerimento dei dazi “perché ormai è chiaro che a Trump fa comodo un dollaro debole, per cui se comprassimo titoli con lunghe durate avremmo forti rischi sul cambio”[xv].
Concludendo, se l’avvento dell’amministrazione Trump è un tentativo di reagire alla decadenza degli Usa, c’è la netta sensazione che tale tentativo avvenga fuori tempo massimo.
Note
[i] Emmanuel Todd, La sconfitta dell’Occidente, Fazi editore, Roma 2024, p. 264.
[ii] Gafam è un acronimo che sta per le maggiori multinazionali tecnologiche statunitensi: Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft.
[iii] Emmanuel Todd, op. cit., p. 274-275.
[iv] David Harvey, “Globalization and the Spatial Fix”, Geographische revue, 2/2001.
[v] Giovanni Arrighi, Il lungo XXI secolo, il Saggiatore, Milano 2003, p.400
[vi] Emmanuel Todd, op. cit., p. 277.
[vii] Vito Lops, “Wall Street cade dietro I chip Nuovo record dell’oro a 3.350 $”, il Sole 24 ore, 17 aprile 2025.
[viii] Morya Longo, “Acquisti record dall’estero in asta: così è finita la bufera sui Treasury”, il Sole 24 ore, 10 aprile 2025.
[ix] Morya Longo, “Tesoro Usa in difesa dei T Bond con norme allentate per le banche”, il Sole 24 ore, 17 aprile 2025.
[x] Emmanuel Todd, op. cit., p.311.
[xi] Affari & Finanza, la Repubblica, 4 aprile 2025.
[xii] Vito Lops, “I dazi primo step della strategia Bond a 100 anni per il debito Usa”, il Sole 24 ore, 2 aprile 2025.
[xiii] Il presidente dell’associazione dei produttori dell’acciaio ha affermato che la siderurgia Usa <<è in retromarcia per l’export>> e una <<stabile fornitura di acciaio domestico è cruciale per la sicurezza economica e nazionale>>. Marco Valsania, “Barriere tariffarie e non, la lista nera Usa che accusa i partner”, il Sole 24 ore, 3 aprile 2025.
[xiv] Tim Brightbill della American Alliance for Solar Manufacturing Trade Committee così si è espresso sui dazi introdotti da Trump sui pannelli solari: <<È una vittoria decisiva per il manifatturiero americano>>, Marco Valsania, “Da Bessent aperture alla Cina Super dazi sui pannelli solari”, il Sole 24 ore, 23 aprile 2025.
[xv] Alessandro Graziani, “L’Europa non ceda al ricatto di Trump sul maxi debito Usa”, il Sole 24 ore, 10 aprile 2025.