Gaza e il dispositivo dell'auto-assoluzione nella democrazia dello spettacolo

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Gaza e il dispositivo dell'auto-assoluzione nella democrazia dello spettacolo

 

di Pasquale Liguori

 

C’è una scena da teatro dell’assurdo che si consumerà il 7 giugno, in pieno centro a Roma. Una manifestazione “per Gaza”, a distanza di venti mesi da quel 7 ottobre che ha aperto le porte dell’inferno, e a distanza di oltre cinquantamila morti palestinesi (cifra tragicamente sottostimata). Una manifestazione organizzata dalle principali opposizioni politiche italiane che, in parte significativa e per tutto questo tempo, hanno balbettato, eluso, tergiversato. Una piazza tardiva, ipocrita, disarmata, che puzza di sapone: è il grande lavacro collettivo della coscienza occidentale.

Sia chiaro, ben distinguendo la partecipazione dalla organizzazione: in piazza ci saranno anche donne e uomini genuinamente indignati, che da mesi si battono contro il genocidio in atto. Ma sul palco - ed è qui che si consuma lo scandalo - saliranno soggetti che quel genocidio lo hanno coperto con l’ambiguità, con l’equidistanza, con il silenzio. Soggetti che, in questi mesi, si sono ben guardati dal partecipare alle centinaia di iniziative genuine, radicali che hanno invaso strade, piazze, università. Presidi, assemblee, accampamenti e cortei repressi a suon di denunce e manganelli - quando non apertamente criminalizzati. E non di rado erano proprio loro, quelli che il 7 giugno prenderanno il microfono, a condannare e dissociarsi da quelle lotte. 

E allora eccoci qui: la voce a chi ha taciuto, il palco a chi ha rinnegato. Una farsa che si presenta come giustizia, ma è solo il gesto finale di una lunga catena di ipocrisie. Una messa in scena di coscienze riciclate.

Questa manifestazione non denuncia il genocidio: lo metabolizza. Non si oppone alla guerra: la digerisce. È la manifestazione dell’occidentale pulito che finalmente si sente abbastanza sicuro da poter dire “adesso basta”, quando tutto è già stato fatto. È il punto d’arrivo di un processo di decantazione del crimine, che trasforma l’orrore in occasione mediatica e moraleggiante, una sorta di penitenza pubblica a costo zero.

Come siamo arrivati a questo punto? La risposta sta nella logica perversa della democrazia liberale in decomposizione, che non si fonda sulla verità, ma sulla simulazione del dibattito. Qui non si prende posizione: si rappresenta la posizione. Non si compie un atto di solidarietà - si firma la comparsa a una funzione liturgica laica che serve solo a ripulire le mani insanguinate del silenzio.

Per mesi, questi stessi partiti - PD, sinistra da salotto - hanno giustificato, assecondato il “diritto all’autodifesa” di Israele. Mai si sono distinti in pratiche politiche eclatanti, efficaci contro il blocco umanitario, le tonnellate di bombe quotidiane, l’uso di armi al fosforo, sulle fosse comuni nei cortili degli ospedali. Adesso, che Gaza è ridotta a polvere, si chiamano le masse al gesto purificatore. 

La piattaforma della manifestazione non pronuncia nemmeno la parola genocidio. E tuttavia tra gli invitati c’è Rula Jebreal, autrice di un libro intitolato proprio “Genocidio”. Un esercizio di contorsionismo verbale degno di una tragedia beckettiana. Accanto a lei, Gad Lerner, che - va ricordato - ha contribuito alla narrativa infamante degli “stupri di massa” del 7 ottobre: una menzogna mai verificata, ma utile per far passare l’immagine del palestinese infoiato, animalesco, incompatibile con la civiltà: il colonialismo dei corpi riformulato in versione mediatica.

Questa non è una piazza di opposizione. È una piazza di recupero simbolico. Gaza diventa oggi - solo oggi - una leva per costruire opposizione politica interna, per tentare disperatamente di far fronte a un governo fascista contro cui non si è riusciti a produrre alcuna resistenza politica reale. E allora Gaza diventa lo strumento, il paravento, il simulacro. Il lutto altrui viene cooptato per riempire il vuoto di strategia, di visione, di lotta.

Come avrebbe detto Gramsci, “la crisi consiste proprio nel fatto che il vecchio muore e il nuovo non può nascere”. Ma qui non nasce nulla. Qui si ricicla. Qui si prende in prestito la morte dell’altro per certificare un’identità che non c’è più. È l’intellettuale organico al vuoto, l’oppositore senza opposizione, che si aggrappa a Gaza per colmare l’irrilevanza.

Foucault ci ha insegnato che il potere non reprime soltanto: produce soggettività, seleziona discorsi, distribuisce visibilità. E questa manifestazione è esattamente ciò: un dispositivo di gestione del dissenso, un contenitore sicuro dove confinare l’indignazione, neutralizzarla, e rispedirla in forma sterilizzata nei circuiti della democrazia-spettacolo.

In questa piazza si celebra il potere dell’autoassoluzione. Non si accusa Israele col suo progetto sionista, si salva l’occidente. Non si dà voce alla resistenza palestinese, la si elude!, per dar sfogo al rimorso. Gaza viene ridotta a sfondo, a cornice, a paesaggio tragico su cui rimettere in scena la commedia dell’impegno civile liberal, europeo. Il lutto non è più un fatto politico, ma una performance morale.

Che dire, infine, di chi ha protestato fin dal primo giorno? Di chi ha parlato di genocidio, apartheid, pulizia etnica, quando ancora non era “accettabile” dirlo? Di chi ha portato in piazza la parola resistenza quando le televisioni parlavano solo di “terrorismo”? Alcuni saranno presenti, forse, tenuti a bada dal vergognoso “servizio d’ordine” predisposto dai leader organizzatori. Una neo-polizia per l’occasione, a tutela e sicurezza del grande spettacolo della riabilitazione occidentale? Altra feature antropologicamente ridicola, socio-politicamente infame di questo evento, all'indomani del decreto governativo appena divenuto legge e così apparentemente osteggiato dalle stesse “opposizioni”. 

Eppure, non è solo la viltà ad aver generato questa piazza. È l’astuzia. È l’opportunismo di un ceto politico morente, che per rimanere rilevante prende in ostaggio Gaza. Ma la verità è che Gaza non ha bisogno di queste voci. Gaza non è un trampolino per rientrare in gioco. 

Cosa resterà? Nulla. Non una svolta, non una rottura reale. Solo fotografie in posa, dichiarazioni inette, e l’illusione di aver fatto la propria parte. 

I libri di storia non riporteranno il 7 giugno di Roma, nemmeno in una nota a piè di pagina. Non lascerà traccia, se non quella di un alito maleodorante, svanito in fretta come tutte le ipocrisie che si compiono in nome del bene ma solo quando è tardi, troppo tardi. 

Gaza è e sarà l’accusa vivente contro chi ha taciuto.

 

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