Editoriale del WSJ: Operazione per insabbiare il genocidio a Gaza
Il recente editoriale pubblicato dal Wall Street Journal, attribuito a Yasser Abu Shabab, un leader locale di Gaza legato a una milizia armata associata all'ISIS e, secondo diverse analisi critiche, armato da Israele per contrastare Hamas, non rappresenta un'analisi autonoma né una voce autentica della realtà palestinese.
Si tratta piuttosto di un'affermazione elaborata sotto l'influenza delle forze coloniali che cercano di giustificare la violenza sistematica e il genocidio subiti dalla popolazione di Gaza, facilitando al contempo la frammentazione e il controllo interno attraverso alleanze tattiche con attori locali.
Lungi dal riflettere una voce autentica o una prospettiva legittima della popolazione palestinese, questo editoriale non è altro che una dichiarazione politica costruita nel quadro della strumentalizzazione coloniale che cerca di giustificare la violenza sistematica e la frammentazione interna. Dando spazio a una figura del genere – un "leader" di un gruppo armato legato a interessi stranieri – su un organo di stampa altamente influente, si sta mobilitando una strategia discorsiva di insabbiamento mediatico, nel tentativo di legittimare il genocidio nascosto a Gaza e di sostituire la resistenza unitaria dietro narrazioni di divisione e sottomissione all'occupante.
Yasser Abu Shabab: un attore locale e chiave nella rete regionale
La figura di Abu Shabab illustra la complessità interna di Gaza e la strumentalizzazione di gruppi disparati per la frammentazione e il controllo sociale. Secondo quanto riportato, Abu Shabab, nato a Rafah nel 1993 e appartenente alla tribù beduina Tarabin, è passato da attività criminali – tra cui accuse di traffico di droga – alla guida di una milizia che monopolizza il controllo di alcune aree, nell'ambito di una rete armata con il diretto sostegno di Israele.
Questo supporto include la fornitura di armi e prerogative tattiche esplicitamente mirate a indebolire Hamas e a controllare la popolazione in un contesto di guerra. Piuttosto che essere un'espressione spontanea o rappresentativa della resistenza palestinese, il suo ruolo è chiaramente subordinato agli interessi coloniali, che utilizzano alleanze tattiche con attori marginalizzati per aggravare la disintegrazione e giustificare massicce operazioni militari.
Pubblicando editoriali di questo tipo, organi di stampa come il Wall Street Journal contribuiscono ad amplificare questa narrazione funzionale, sostituendo la complessità del conflitto con immagini semplificate e legittimanti di occupazione e pulizia sociale.
Barbarie costruita nel linguaggio: necropolitica e disumanizzazione
L'estrema violenza perpetrata a Gaza non si verifica nel vuoto. Prima che le bombe cadano e le vite dei civili scompaiano, il terreno discorsivo viene preparato con una politica di parole che priva l'altro del suo pieno status di soggetto politico e umano. In questo contesto, il testo attribuito ad Abu Shabab funge da preambolo discorsivo alla barbarie, presentando alcuni attori armati locali – controllati o operanti sotto Israele – come un'"alternativa pragmatica", oscurando e minimizzando il contesto di occupazione, blocco e apartheid a cui Gaza è sottoposta.
Queste parole fanno parte di un inventario necropolitico: la normalizzazione dello sterminio e della sofferenza di massa come "danni collaterali necessari" che legittimano politicamente la violenza indiscriminata, la distruzione della società e l'impossibilità di una vita dignitosa. Disumanizzazione e frammentazione sono i primi passi verso il genocidio materiale.
La complicità esplicita della stampa occidentale
Il Wall Street Journal, pubblicando questo tipo di dichiarazioni e fornendo copertura a personaggi come Abu Shabaab, si inserisce in un più ampio schema di responsabilità dei media occidentali nella crisi palestinese. Lungi dal svolgere il ruolo cruciale che dovrebbe, la stampa mainstream replica e amplifica narrazioni parziali che legittimano la strategia di sterminio di Israele, dipingono la resistenza palestinese come un fenomeno disfunzionale o terroristico e reinventano una versione della realtà conveniente alla politica estera statunitense e israeliana.
Questo comportamento mediatico non solo mette a tacere gli attori e le voci legittimi che chiedono giustizia e riconoscimento, ma contribuisce anche a costruire e mantenere una narrazione egemonica di disumanizzazione e delegittimazione, essenziale per sostenere strutture coloniali e violente.
L'Iran nella narrativa occidentale: ragionamento distorto e orientalismo persistente
All'interno di questo meccanismo discorsivo, l'Iran occupa un posto centrale come "nemico esterno" per eccellenza, presentato in modo monocromatico e semplificato come un attore irrazionale, fanatico e belligerante. Questo gesto discorsivo – che alcuni pensatori critici della regione hanno analizzato rigorosamente – fa parte di una lunga tradizione di orientalismo, in cui il Medio Oriente è ritratto attraverso due prismi esclusivisti: "nemico" o "altro" irrazionale.
Questo immaginario sistemico ha distorto la comprensione politica dello Stato iraniano e ne ha oscurato la logica strategica e diplomatica, che include la razionalità politica, il perseguimento della sicurezza nazionale e le legittime aspirazioni all'interno dell'ordine regionale. La rappresentazione mediatica prevalente non riconosce queste caratteristiche, favorendo invece una narrazione riduzionista che giustifica sanzioni, blocchi e azioni militari con conseguenze umanitarie devastanti.
L'Iran diventa così una figura retorica che sostiene politiche di esclusione e violenza, impedendogli di realizzare concretamente il dialogo o l'integrazione guidata a livello regionale. Questo approccio contribuisce a una dinamica di escalation permanente e al prolungamento del ciclo del conflitto.
Silenziamento strutturale e il costo per Gaza
Questa dinamica mediatica si traduce nel silenziamento esplicito delle voci che denunciano l'occupazione, l'apartheid e il blocco, legittimando al contempo la narrazione della "guerra al terrore" come spiegazione sufficiente per la distruzione sistematica delle infrastrutture, dei servizi di base e delle vite dei civili.
Il risultato immediato è l'impunità per i crimini internazionali e il perpetuarsi di una situazione umanitaria insopportabile, in cui morte e distruzione diventano statistiche tollerate dal pubblico occidentale affascinato da una narrazione razzista al servizio di interessi di potere.
Verso una critica necessaria e un cambiamento discorsivo
Per affrontare questa logica necropolitica e imperialista, la critica deve affrontare il modo in cui la barbarie inizia nel linguaggio: spogliare l'altro dell'umanità e legittimarne lo sterminio discorsivo è il primo passo verso l'impiego della violenza fisica. Denunciare la prosecuzione dell'Orientalismo e smantellare le immagini stereotipate dell'Iran e della regione è una condizione necessaria per aprire spazi di dialogo più onesto e di resistenza politica efficace.
Questo approccio richiede il riconoscimento di Hamas come attore legittimo nella politica palestinese, nella logica strategica iraniana e nella complessa rete di interessi e resistenze transregionali, lontano dalla distinzione manichea tra amici e nemici.
Conclusione
L'editoriale del Wall Street Journal attribuito a Yasser Abu Shabab non è un'analisi indipendente, ma piuttosto un altro strumento della macchina mediatica israeliana e occidentale per insabbiare il genocidio in corso a Gaza. Amplificando le voci al servizio dell'occupante e demonizzando sistematicamente l'Iran, l'editoriale contribuisce alla frammentazione della popolazione palestinese e legittima le politiche di sterminio sostenute dai media.
La realtà di Gaza richiede una narrazione critica che riconosca lo sfruttamento mediatico, sfidi l'orientalismo prevalente e promuova la sovranità regionale e i diritti umani.
Solo una prospettiva che combini rigore analitico, onestà storica e rispetto per la pluralità può offrire una base per resistere alla violenza necropolitica e procedere verso una soluzione giusta.