“Come si liquida un popolo”? La normalizzazione dell’occupazione palestinese spiegata da Diana Carminati

“Come si liquida un popolo”? La normalizzazione dell’occupazione palestinese spiegata da Diana Carminati

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di Giulia Bertotto


Nel pomeriggio del 14 dicembre a Roma si è svolta la presentazione con dibattito del saggio di Diana Carminati “Come si liquida un popolo. La normalizzazione dell’attivismo pro-Palestina in Italia” (DeriveApprodi 2023), condotta dall’antropologa Alessandra Ciattini, con Wasim Dahmash per l’associazione Gazzella Onlus[1] e l’attivista Vera Pegna, tra gli interventi. Diana Carminati, già docente di Storia Contemporanea a La Sapienza, ha cercato di rispondere alla domanda: “Come si liquida un popolo?”, in che modo, da almeno 75 anni, si cerca di rimuovere dalla storia il popolo palestinese?

Non solo con le bombe, non esclusivamente con la distruzione dell’economia, con la sete e la disoccupazione, ma con la normalizzazione della questione palestinese, concetto chiave del testo. L’assunzione della situazione di violenza coloniale come fatto ingiusto a livello giuridico ed etico ma incontrastabile, ormai solito, entrato nel disfattismo comune, una sorta di rinuncia alla lotta, accompagnato dalla rassegnazione alla condizione di occupazione, è infatti la più perniciosa insidia.

La normalizzazione porta infatti alla depoliticizzazione della solidarietà e alla trasformazione della questione coloniale in una emergenza umanitaria senza responsabili, come se i palestinesi fossero vittime di un flagello naturale o di un cataclisma spaziale. Normalizzazione della violenza coloniale, e conseguente normalizzazione delle proteste e dei boicottaggi, il più grande pericolo per il popolo vessato.

Il ricchissimo saggio di Carminati ricostruisce anche le lotte per la liberazione della Palestina in Italia, le implicazioni politiche e sociali del nostro paese nei rapporti con Israele, Palestina e paesi arabi, i fallimenti dei diversi partiti e movimenti nel cercare di sostenere la resistenza.

L’autrice riporta dettagliatamente ricerche sul campo, documenti internazionali, estratti da conferenze e articoli, dichiarazioni ufficiali e dati di archivi di stato di diversi paesi. Prendiamone una, di Lorenzo Veracini, docente di studi postcoloniali all’Università di Melbourne, la quale ci aiuta a focalizzare meglio il concetto di normalizzazione: “La prospettiva di «Due stati per due popoli» sorvola sul progetto del sionismo come movimento di colonialismo di insediamento, dà per scontato lo stato ebraico come Stato che sostiene un suo diritto esclusivo su quella terra con conseguente discriminazione dei non ebrei e pulizia etnica, rifiuta di riconoscere i diritti della diaspora palestinese e dei palestinesi di Israele, ma considera la situazione di una sola comunità, quella dei territori occupati”[2].

 

Wasim Dahmash, ricercatore di Lingua e Letteratura araba presso la facoltà di Lingue e Letterature straniere dell’Università degli Studi di Cagliari, spiega al pubblico che già dall’ ottobre del ‘48 ci fu un primo bombardamento da parte dell’aviazione israeliana su un campo profughi, durante la distribuzione dei viveri da parte della Croce Rossa. Laddove non è possibile l’eliminazione diretta di tutti gli autoctoni, si mette in atto quello che lo storico israeliano Ilan Pappé chiama “genocidio incrementale”. Detto in modo franco e duro: si uccide direttamente quel numero di esseri umani che la tecnica e l’occhio della comunità internazionale permettono, il resto dei nativi è espulso o costretto alla fuga dalla fame.

Nel suo illuminante intervento Vera Pegna ci fa notare almeno tre cose che diamo per assodate e su cui si fonda l’atteggiamento normalizzante. La prima: perché diamo per certo che l’ONU sia legittimata a spartire la Palestina?

Generalmente, anche nei dibattiti politici televisivi, condotti da giornalisti niente affatto sprovveduti, si ignora completamente il diritto dei popoli a resistere ad un’occupazione, sancito dal diritto internazionale[3], e ricordiamo che il Principio di autodeterminazione dei popoli è già contenuto nei Quattordici Punti di Wilson, stabiliti nel congresso che seguì la Prima guerra mondiale. 

All'inizio dell’occupazione la confusione era alimentata anche dal fatto che non era uno stato sovrano ad occupare un altro stato sovrano, ma un movimento, quello sionista. Gli inglesi, dal canto loro, avevano ben inteso l'opportunità di un bastione-spia, un baluardo occidentale, in territorio a maggioranza islamica, e si erano sfregati le mani davanti alla richiesta dei dirigenti sionisti di uno stato in Medioriente, spiega Pegna. Ma anche parlare della Palestina solo dal 1948 contribuisce al processo di normalizzazione, cancellando l’identità e la memoria di questo popolo, che sembra esistere solo per contrasto, cioè dall’avvento dell'occupante, mentre la sua storia è quella di una antica civiltà, portatrice di un patrimonio artistico, letterario, di usi e costumi. I palestinesi non nascono come rifugiati ma come popolo, col proprio vigore culturale e spirituale e con il suo carattere politico.

Proviamo allora a porci la domanda contraria: come si sostiene la lotta di un popolo che viene sistematicamente e deliberatamente oppresso, umiliato e decimato? Leggendo e studiando, parlando con gli altri senza smettere di ascoltare, partecipando alle manifestazioni e ai dibattiti. Non cedendo mai alla tentazione della normalizzazione.



[1] Gazzella Onlus è un'associazione senza fini di lucro che si occupa di assistenza, cura e riabilitazione dei bambini palestinesi feriti da armi da guerra, essenzialmente nel territorio di Gaza e soprattutto attraverso l'attivazione di adozioni a distanza dei bambini feriti.

[2] Il testo riportato è del 2013, p. 187 di “Come si liquida un popolo”.

[3] “Nel diritto internazionale, l’affermazione dell’autodeterminazione dei popoli – frutto di un processo graduale a lungo contrastato dai paesi occidentali e fortemente collegato, nella prassi, alla fortunata azione dell’ONU a favore della completa decolonizzazione – è ormai acquisita sul piano consuetudinario limitatamente al divieto di tre specifiche fattispecie, qualificate come crimini internazionali: la dominazione coloniale, l’occupazione straniera e i regimi di segregazione razziale (apartheid) o altrimenti gravemente lesivi di diritti umani fondamentali”, Enciclopedia Treccani.

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