Bruxelles s'indigna? L'ascesa dei "sovranisti" è un effetto della crisi, non la causa

Bruxelles s'indigna? L'ascesa dei "sovranisti" è un effetto della crisi, non la causa

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Di Lorenzo Ferrazzano

Varsavia, 31 marzo 2020


A Varsavia ha incominciato a nevicare solo dopo la primavera, quest'anno. Tutti sono rimasti stupiti per aver trascorso un inverno senza la magia o il fastidio della neve, che per un momento è arrivata. Ulica Bora Komorowskiego è una delle arterie della città, a pochi chilometri dal centro. 

Oggi è deserta; l'asfalto e i viali erbosi che costeggiano le quattro corsie sono bianchi e desolati. Solo un auto attraversa la carreggiata; è la polizia che attraverso gli altoparlanti chiede ai cittadini di restare in casa. Così il lockdown, la parola del secolo, sta cambiando anche questa capitale di Visegràd; una regione politica che ci spaventa.

Nei giorni scorsi, in piena epidemia, c'è chi non ha perso occasione per rimarcare il vecchio tormentone polemico tra “sovranisti” e “europeisti”; da quasi quaranta giorni la conta dei morti aveva relegato in un angolo queste ridicole categorie. Eppure c'è chi non è ancora in grado di superare i vecchi schieramenti. 

Come l'assessore alla sanità del Lazio, che accusando la Polonia di aver sottratto alla dogana 23 mila mascherine dirette verso la sua regione, ha aggiunto che episodi del genere dimostrano come «i sovranisti non aiutano nessuno, se non se stessi». Dimenticando che i primi a giocarci questo brutto tiro siano state Germania e Francia, i fondatori della Ue, e non qualche oscuro sovranista.

Eppure le differenze tra Europa occidentale ed Europa orientale ci sono, e il recente caso dell'Ungheria lo dimostra. Ma si tratta di distanze storiche e antropologiche, e non - come crediamo ad Ovest - di abissi morali: non esiste un'Europa più giusta e più equa dell'altra. Per riconoscerlo bisognerebbe affrancarsi dalla banalità dei moderni schemi politici, e cercare di capire.

In questi casi capire significa storicizzare. Ed ogni lavoro di storicizzazione presuppone un atto di comprensione. A sua volta, comprendere l'altro significa riconoscere le nostre mancanze. Perché ogni analisi del “nemico” funziona come uno specchio dal doppio riflesso: il primo ci mostra la nostra superbia, la nostra supposta superiorità morale; il secondo ci rivela i nostri errori storici. Se lo si fissa con sincerità.


  Capire l'Est

Dall'altra parte, oltre a noi, c'è l'Est. Un immenso spazio di terra governato per secoli da realtà sovrastatali d'ogni sorta. Il pugno di ferro degli Asburgo è stato allentato dai violenti irredentismi del XIX secolo, l'imperialismo russo è crollato sotto i colpi della Grande Guerra e interi popoli sono stati spazzati via dalla follia del nazismo. 

Dal 1945 l'ideologia comunista si è imposta in aperto contrasto con le tradizioni culturali e religiose dell'Est. E poi i fatti di Budapest, Praga, Danzica e Varsavia; chi conosce questi Paesi ritrova in tutta la loro drammaticità queste ferite che niente potrà mai rimarginare.

Nel 1989 mentre a Berlino si buttava giù il muro, in Occidente gli amministratori delegati delle multinazionali assaporavano già il luccichio del denaro. La transizione democratica è stata guidata dalla liberalizzazione del mercato, non dal rispetto dell'egualitarismo. 

Scrive Milan Kundera ne L'Ignoranza (Adelphi): "L'Impero sovietico è crollato perché non poteva più tenere sotto controllo nazioni desiderose di affermare la propria sovranità. Ma quelle nazioni sono ora meno sovrane che mai. Non sono libere di decidere né la loro economia né la loro politica estera, e neppure gli slogan pubblicitari". 

Il conservatorismo morale di questi Paesi è il risultato storico degli ultimi secoli: noi europei occidentali, tra l'altro decisamente lontani dall'aver realizzato democrazie perfette, non abbiamo il diritto di contestarglielo; saranno solo le nuove generazioni ad alleggerire il peso della storia, loro sono le uniche legittimate a reinventare la propria identità.

Non esiste al mondo realtà sovranazionale, né tantomeno la dispotica Bruxelles, che sia in grado di convincere l'Europa orientale ad abbandonare il suo modus operandi, per quanto questo ci sembri  autoritario (e lo è). Noi, da parte nostra, abbiamo il compito storico di trovare l'umiltà di riconoscere i nostri errori.
 
Come siamo ridicoli quando pretendiamo di insegnare la democrazia all'Est, nonostante l'abbiamo integrato in Europa e nella Nato per isolare la Russia, e non per spirito di fratellanza. Come siamo farseschi quando alterniamo alla ripugnanza per Visegràd l'amorevolezza verso l'Ucraina maidanista.

E come abbiamo fatto a non provare vergogna quando, rimescolando ogni giorno vecchi e nuovi valori universali, abbiamo invitato Erdogan e Netanyahu ad unirsi al “sogno europeo”? Probabilmente, se l'integrazione si fosse compiuta, oggi ci saremmo indignati della contraddizione imperante tra i “valori Ue” e il massacro dei curdi. Ma sempre troppo tardi.

Lo sviluppo politico dell'Est è perfettamente lineare con la sua difficile storia. Sta all'Europa occidentale, a quel che ne resta, capire che l'errore è stato commesso da noi, integrandoli per puro opportunismo nonostante le distanze politiche. E sebbene si preferisca addossare le colpe di questa crisi politica ai “sovranisti”, costoro sono l'effetto del disastro, e non la causa. Eppure un'autocritica sincera ci spaventa, ci spoglia, e ci riempie d'imbarazzo.
 
Memoria e coscienza (per chi ce le ha) rivelano ogni mancanza. Così preferiamo ignorarle, o trasformale. «Il futuro», scrive ancora Kundera, «è solo un vuoto indifferente che non interessa nessuno, mentre il passato è pieno di vita e il suo volto ci irrita, ci provoca, ci offende, e così lo vogliamo distruggere o ridipingere».

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