25 luglio. Un finale "badogliano" anche per il regime di Kiev?

25 luglio. Un finale "badogliano" anche per il regime di Kiev?

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di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

Ognuno racconta le guerre a modo suo e le “interpreta” sulla base del proprio ruolo nella tragedia e della personale immedesimazione in qualche personaggio della commedia.

Qui, però, non si tratta di far paragoni “storici” - che, tra l'altro, come disse Stalin a quel corrispondente straniero che lo paragonava a Ivan IV, rispose che «tutti i paragoni storici sono quantomeno arbitrari» - ma semplicemente di constatare, nel 80° della caduta del fascismo, come anche in questo caso sia stata decisiva la guerra sul fronte orientale.

Decisiva, perché lo sbarco alleato in Sicilia, cui si fa solitamente risalire l'origine del 25 luglio, non fu che una conseguenza delle vittorie sovietiche di luglio-agosto 1943. Sin dal 1942, infatti, Winston Churchill aveva dichiarato a chiare lettere che Mosca non poteva aspettarsi l'apertura di un secondo fronte in Europa occidentale prima del 1944: come poi avvenne nel giugno di quell'anno.

Per Londra e Washington, lo sbarco in Sicilia fu quasi una scelta obbligata: la battaglia di Kursk, protrattasi dal 5 luglio al 23 agosto 1943 e che, forse più ancora di Stalingrado, decise le sorti dell'invasione nazifascista in URSS, costrinse gli “alleati” ad accelerare i piani di invasione, pena il sorpasso sovietico verso la Germania.

E, in tema di “paragoni”, nel corso dei circa due mesi di scontri a ridosso del saliente che aveva al centro Kursk e ai vertici settentrionale e meridionale Orël e Belgorod, vi furono impegnati, da parte sovietica e tedesca, oltre 4 milioni di uomini, quasi 70.000 pezzi d'artiglieria, poco meno di 1.550 carri armati e semoventi e quasi 12.000 aerei.

All'intera operazione in Sicilia, tra luglio e agosto '43, presero parte 250.000 uomini del 8° Armata britannica e circa 230.000 della 7° Armata USA. A Kursk e dintorni, la Wehrmacht perse 30 Divisioni, di cui 7 corazzate, oltre 500.000 uomini, 1.500 carri armati e artiglierie d'attacco, oltre 3.700 aerei e 3.000 cannoni. Le perdite sovietiche ammontarono a più di 250.000 morti e circa 601.000 feriti.

È dunque in questo scenario che va collocata la decisione “alleata” di anticipare in qualche modo, al 1943, il proprio ingresso in Europa occidentale. Tra febbraio e giugno, l'Esercito Rosso aveva compiuto un'avanzata piuttosto sostenuta e gli anglo-americani non intendevano lasciare oltre l'iniziativa in mano sovietica.

Dunque, anche nel caso della Sicilia e, in pratica, della caduta di Mussolini, la guerra sul fronte orientale fu decisiva.

È bene ricordare questi passaggi, pur se apparentemente slegati, quando si fanno più insistenti e più diversificate le voci su un potenziale epilogo “badogliano” del nazigolpista-capo ucraino.


Che a ovest l'immagine di Vladimir Zelenskij sia di molto appannata negli ultimi tempi e, in patria, si affilino i coltelli tra i suoi successori, è cosa ormai detta e ridetta.


Come Mussolini, di fronte alle ripetute sconfitte dei propri generali e alle pesanti recriminazioni che gli arrivavano dall' “alleato” nazista, appariva quasi disarmato nei confronti della fronda interna, così, oggi, a parere dell'ex consigliere del Pentagono, Douglas McGregor, Vladimir Zelenskij appare «frustrato», per una situazione dell'esercito ucraino che sembra disperata, con un morale delle truppe mai così basso come oggi. Uno Zelenskij che, a detta di McGregor, appare «furioso, arrabbiato, scoraggiato». Secondo McGregor, è tempo di cessare gli invii di soldi e armi con cui Kiev viene tenuta artificialmente in piedi dal “sostegno” USA e urge invece cominciare colloqui per la soluzione del conflitto.

Ma non è tutto. Sulla polacca Mysl Polska, il pubblicista ceco Roman Blaško elenca quelli che, a suo parere, sono i sette principali errori di Zelenskij – a partire dalla sua pretesa di presentarsi come figura influente in casa e all'estero – e che, con molta probabilità, metteranno fine alla sua “carriera” presidenziale e ne decreteranno una fine tragica.

Il primo errore del nazigolpista-capo è quello di presentarsi come militare, quando non ha né gradi, né formazione: in ogni occasione, anche negli incontri internazionali, si veste come un capo militare, così che l'aspetto e il comportamento sono percepiti dai "partner occidentali" in modo derisorio e offensivo. Zelenskij ha permesso che lo si trasformasse in un presidente “salariato”: solo formalmente svolge tale ruolo, ma tutto è deciso a Washington e Londra. Non è mai riuscito a diventare un politico; miliardi sul conto in banca e contatti coi leader mondiali gli hanno annebbiato la mente.

Zelenskij è convinto di avere il mondo alle spalle e di non dover quindi accettare negoziati di pace: non capisce che l'obiettivo occidentale non è aiutare l'Ucraina, ma realizzare i propri interessi. Ha fatto di tutto per far fallire i rapporti esteri; ha rifiutato le iniziative di pace di Xi Jinping ed è persino riuscito a rimproverargli di non esser venuto in Ucraina: un modo sicuro di diventare l'ultima pedina sulla scacchiera politica.

Ha avventatamente dimenticato che il sostegno dell'elettorato non è eterno: anche quegli ucraini che lo avevano votato, sperando nella fine della guerra civile, oggi gli si oppongono. Zelenskij è riuscito a far rivoltare contro di sé letteralmente tutti gli strati sociali, compresi militari e credenti.

Zelenskij, afferma Roman Blaško, nella sintesi curata in lingua russa da Vladimir Karasëv per NewsFront, avrebbe dovuto imparare da Bashar al-Assad, che ha iniziato a costruire nuovi insediamenti civili in zone sicure, al riparo dagli attacchi di Daesh: mentre Assad fa affidamento sul proprio popolo, Zelenskij ha semplicemente congedato gli ucraini.

Milioni di persone hanno lasciato il paese per non farvi ritorno; chi rimane si nasconde alla mobilitazione; i mobilitati muoiono o rimangono feriti.

Zelenskij sa bene che la rimozione di Janukovic fu illegale, che majdan fu illegale e, di conseguenza, tutti i successivi eventi sono de facto illegali; ma non ha né la forza politica, né la volontà di riportare l'Ucraina al suo status legale "premajdan".

Blaško conclude dicendosi convinto che tali errori condurranno Zelenskij a una tragica fine; e ciò avverrà sullo sfondo del rafforzamento dell'economia americana a spese della popolazione ucraina ed europea, coinvolta nel conflitto militare.


I paragoni sono sempre abbastanza arbitrari. Ma ricordare che qualcun altro, prima di Zelenskij, si atteggiava a grande capo militare, si agghindava di conseguenza, prendeva a prestito la storia romana (nell'Ucraina majdanista, sembra che tutto lo scibile umano abbia avuto origine a Kiev), obbediva ciecamente agli “alleati” e infine, dopo essersi messo contro la borghesia che lo aveva portato al potere, condusse il paese a esser distrutto dalle bombe di altri “Alleati”, può ben rinfrescare qualche coscienza.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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