Trump e il Canale di Panama: una storia di minacce e controversie
di Gabriele Germani
Il buon Donald Trump ha pensato bene di citare la vicenda Panama, legata al noto Canale nel suo discorso inaugurale. Non proprio un buon auspicio per un Presidente degli Stati Uniti, avviare il mandato minacciando un altro Stato sovrano e membro dell’ONU; potrebbe essere l’ennesimo record stabilito da The Donald.
I precedenti sono noti: Trump durante l’interregno dopo la vittoria elettorale, ma prima dell’incarico ufficiale, si è divertito a minacciare (trollare?) tutti i vicini dal Canada al Messico, dalla Groenlandia (e quindi per interposto ruolo, la Danimarca membro UE e NATO) a Panama. Le minacce nei confronti del piccolo paese centroamericano riguardano il Canale, snodo centrale del traffico tra Atlantico e Pacifico e decisivo per gli scambi marittimi dalla costa est a quella ovest. L’alternativa è aggirare il continente intero, arrivando fino alla Patagonia e superando le amiche Falkland. Intendiamoci, non che gli USA non potrebbero permetterselo, Milei e Londra sarebbero ben contenti di ospitare un grande traffico mercantile da un lato all’altro dell’Oceano e fare da tappe nel Monopoli del commercio mondiale; ma difficilmente questo renderebbe le già costose merci USA competitive con quelle cinesi… Addio MAGA e rilancio dell’industrializzazione.
Ma quale sarebbe il problema tra Panama e gli USA?
Il costo delle tariffe di transito e soprattutto, secondo il miliardario alla Casa Bianca, il controllo cinese dell’infrastruttura. Gli Stati Uniti avrebbero investito nel progetto più che in qualsiasi altro e sacrificato migliaia di uomini nel piano non per vederlo finire nelle mani della Repubblica Popolare.
Donald dimentica anche di raccontare come gli USA crearono lo stato panamense separandolo, armi alla mano, dalla Colombia proprio per permettere la costruzione del viadotto su acqua.
Rimane inoltre oscura l’allusione alla presenza cinese. Panama è un paese in mano a governi filo-occidentali, sono lontani i refoli di sovranità dell’epoca Torrijos e Noriega. Ogni tentativo di allargare il cappio di Washington è costato caro alle élite locali.
I trattati Torrijos-Carter permisero allo stato centroamericano di riprendere il controllo del canale nel 1999, annullando i precedenti accordi risalenti al 1903. Gli USA non perdonarono mai le gesta di questo coraggioso patriota, per giunta di una patria da loro creata, così pochi anni dopo le trattative, nel 1981, Omar Torrijos morì in un incidente in elicottero, come sovente accade ai governanti non comodi alla Casa Bianca.
In piccolo, la svolta panamense segnava il più generale flusso degli anni Settanta nel sistema-mondo, le risorse affluivano da Nord a Sud e la presenza dell’URSS permetteva che questo traffico non fosse disturbato.
Nel 1983, un uomo della CIA fece un colpo di Stato: Manuel Noriega. Formato dai servizi segreti statunitensi e addestrato come un fantoccio dell’imperialismo, diventò presto scomodo ai suoi vecchi padroni.
Il mondo stava cambiando, l’imminente caduta dell’URSS scuoteva le fondamenta del Sud Globale dando spazio a tentativi coraggiosi tra nazionalismo e socialismo.
Col tempo, la CIA iniziò a temere che Noriega fosse vicino a Cuba o ai sandinisti in Nicaragua e ancora peggio ipotizzò un collegamento con la Libia di Gheddafi, un eroe africano dell’antimperialismo.
L’accusa fu di traffico di droga e riciclaggio di denaro (Panama era un noto santuario per i narcos in fuga dalla Colombia e paradiso fiscale). Accuse vere, ma su comportamenti che la CIA aveva favorito negli anni, perché?
Perché quel processo di emancipazione globale degli anni Settanta era stato interrotto dalla scure neoliberista, che voleva un grande mercato mondiale e la libertà di spostamento per tutti i capitali.
Il traffico della droga serviva a portare una merce pregiata dal Sud al Nord, a creare caos endemico in regioni chiave (come le Ande o l’istmo), a giustificare gli interventi e la presenza militare (basti pensare al supporto che USA e Israele fornirono alla Colombia contro le FARC) e a far circolare l’economia occidentale. La droga arrivava sui mercati occidentali, faceva fuggire i soldi al Sud, ma fatta eccezione per una tesaurizzazione episodica (grandi villone in mezzo alle baracche), questi tornavano al Nord, come? Attraverso i paradisi fiscali, che facevano da lavanderia e rimandavano i soldi sporchi nelle borse valori dei paesi a capitalismo avanzato.
Il commercio della droga e i paradisi fiscali sono anelli di valore decisivi per il sistema-mondo capitalista.
La droga aveva altri vantaggi indiscussi: addormentava una parte del disagio sociale e permetteva politiche di repressione interna (la guerra al narcotraffico).
La parabola di Noriega si concluse con un breve conflitto indetto da Bush padre e l’occupazione del paese centroamericano. L’episodio fu preceduto dai soliti giochetti da rivoluzione arancione: le signore della borghesia bene scesero in piazza a sbattere le proprie pentole, probabilmente causando disagi non da poco alle proprie collaboratrici domestiche di origini native.
Sono passati anni da allora, ma le contraddizioni interne a questo sistema-mondo continuano ad esplodere ciclicamente: non importa quanto gli USA reprimano le fughe centrifughe, Panama tornerà a spingere verso fuori e gli imperialisti torneranno a schiacciare ogni misura di emancipazione.