Quel colonialismo così duro a morire - Intervista ad Angela Lano

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Quel colonialismo così duro a morire - Intervista ad Angela Lano

 

Un gruppo di accademici dell’Università federale brasiliana di Bahia ha recentemente costituito il “Nucleo di ricerca sugli studi coloniali e de-coloniali nel Nord Africa e Medio Oriente” con l’obiettivo di analizzare e decostruire le congiunture geopolitiche neocoloniali occidentali in atto nel mondo arabo e islamico (Africa settentrionale e orientale, Vicino e Medio Oriente). Del gruppo fa parte la ricercatrice e giornalista italiana Angela Lano, che abbiamo deciso di intervistare in quanto, oltre ad essere specializzata in studi orientali, è autrice di vari libri su temi legati alla cultura islamica ed è direttrice responsabile dell’agenzia di stampa InfoPal.it, voce essenziale per rompere la narrazione mass mediatica basata su cronache parziali, quando non menzogne vere e proprie elaborate e dettate dalla hasbara israeliana.

Prima di iniziare l’intervista ricordiamo che Angela Lano, nell’ormai lontano 2010 ha fatto parte della flottiglia di pacifisti internazionali che aveva tentato di rompere l’assedio di Gaza portando aiuti umanitari. Si trattava di un gruppo di imbarcazioni denominato freedom flotilla, che marina e aeronautica militari israeliane aggredirono in piena notte in acque internazionaliquindi con un’azione di pirateria, uccidendo 10 pacifisti e arrestando tutti gli altri. Un’operazione per la quale Israele non pagò mai e che, addirittura, da parte dei più meschini media fascistoidi italiani venne perfino lodata perché, in fondo, il crimine verso gli inermi rientra in quel sistema sub-valoriale che, dal ventennio nero del secolo scorso in poi, viene definito semplicemente fascista. I fatti di quella terribile notte sono raccontati dalla Lano in un libro pubblicato quello stesso anno e titolato “Verso Gaza”.

Da parecchi anni Angela si divide tra l’Italia e il Brasile, come ricercatrice in Università brasiliane (Università federale di Bahia e PUC Goiás) sui temi legati all’Africa musulmana, al Medio Oriente, e all’Islam[1] .Visto che ci conosciamo da anni lavorando entrambe, tra le altre cose, sul doloroso tema definito  “questione” palestinese,  iniziamo l’intervista con una domanda forse indiscreta ma necessaria.


Intervista

P.C.: Questo nuovo incarico ti allontanerà dal tuo impegno mediatico per la Palestina? Se così fosse verrebbe a mancare una voce importante nell’informazione relativa a quella terra che il sionismo ebraico tiranneggia e terrorizza da prima ancora della fondazione dello Stato di Israele.

A.L.: Spero di no, se continua ad esserci interesse in questo, credo, importante lavoro professionale di informazione e comunicazione… Purtroppo il mainstream, le figure autoreferenziali e dai mille selfie e i “mi piace” sui social condizionano fortemente anche il mondo dell’attivismo e penalizzano il lavoro di informazione e contro-informazione professionale e preparato. Credo fermamente nell’informazione onesta come difesa dalla propaganda affidata al mainstream, ma devo dire con amarezza che c’è una sorta di colonizzazione del pensiero di cui restano vittime anche molti militanti per i diritti umani e per la Palestina in modo particolare. Non sono pochi gli attivisti che evitano la lettura di analisi approfondite di studiosi o giornalisti specializzati in geopolitica che noi traduciamo e pubblichiamo con InfoPal, o che si possono trovare in altre testate indipendenti contro-corrente, mentre notiamo la rincorsa al nome con “etichetta” illustre, magari solo per popolarità da web o da mainstream. È triste vedere quest’atteggiamento sempre più diffuso proprio nel mondo degli attivisti. Sembra quasi impossibile far capire la necessità di decolonizzare la comunicazione, sebbene si sappia che è proprio attraverso quel meccanismo che il potere si conserva e si rinforza. Un tema che in modo diverso si ripropone da secoli e che nel “900 è stato affrontato, tra gli altri, e in contesti diversi, tanto da Gramsci che da Said o da Fanon.

 

P.C.: Il progetto di cui ci parlerai tra poco ha quindi anche a che fare con questa forma di sudditanza alle forme accattivanti del pensiero dominante?

A.L.: Per alcuni aspetti sì perché, nonostante l’illusione di un mondo postcoloniale, viviamo ancora in una realtà di colonizzatori e colonizzati a causa della globalizzazione e del ruolo dei mass media. Proprio riflettendo sul colonialismo ancora ben radicato anche nelle forme di pensiero di molti oppressi e colonizzati e del ruolo “organico” al Sistema egemonico dei media mainstream occidentali (e anche, in parte, nel mondo arabo), l’anno scorso, qui in Brasile, avevo presentato alla mia università (UFBa) il progetto per la creazione di un Nucleo interdisciplinare di Ricerca e Studi Arabo-Islamici (ora istituito ufficialmente con il nome di Núcleo de Pesquisa “Estudos do mundo árabe-islâmico na Bahia” - NEPAI), con focus su colonialismo, nazionalismi, neo-colonialismo e de-colonizzazione nel Nord Africa e Medio Oriente, da collegare in rete con centri accademici internazionali di grande produzione sull'Islam e per lo scambio Sud-Sud e nella prospettiva dell’avanzata inesorabile del nuovo mondo proposto dai BRICS+, ed è stato approvato con molto interesse. Il nostro Nucleo di Ricerca si inserisce nel contesto delle politiche brasiliane del governo del presidente Lula per il Sud e Oriente Globali e di grande differenza rispetto alle linee coloniali europee, e italiane in testa.

 

P.C.: Non hai pensato di proporlo a un’università italiana?

A.L.: Impossibile anche solo da immaginare un progetto così nel mondo accademico italiano, perché è quasi completamente sottomesso ai diktat e alle politiche neocoloniali angloamericane.

P.C.: Puoi descriverci in cosa consiste il fondamento teorico di questo Nucleo di Ricerca?

A.L.: Ti rispondo con le parole di Luciana Ballestrin “Il pensiero de-coloniale ha come essenza la critica e la decostruzione della logica della colonizzazione, che deriva dai rapporti di potere coloniali e dalla dominazione coloniale. Il pensiero de-coloniale è politico e si sforza di superare i rapporti di colonizzazione, colonialismo e colonialità”. Uno dei miti più potenti del XX secolo era l’idea che l’eliminazione delle amministrazioni coloniali avesse portato alla decolonizzazione. Solo un mito, in realtà, perché siamo ancora pienamente e globalmente immersi in un pianeta di colonizzatori e colonizzati. Le eterogenee strutture globali create nell’arco mezzo millennio non sono scomparse con la decolonizzazione giuridico-politica del Sud del mondo e, infatti, continuiamo a vivere dominati dalla stessa matrice del potere coloniale, forse ancora più forte, radicata e diffusa, grazie alla globalizzazione e al ruolo potente e manipolatorio dei media mainstream.

 

P.C.: Hai parlato di “colonialità” oltre che di colonialismo. Puoi spiegarci in cosa si differenziano i due concetti?

A.L.: Se il colonialismo è pratica di conuista, sottomissione e sfruttamento, la colonialità è in un certo senso il suo lascito pervasivo perché rimane in profondità come sistema di potere, riconoscendo ai colonizzatori il ruolo di organizzatori razionali e, in sostanza, riconoscendo una loro superiorità. La geografa Rachele Borghi in Decolonizzazione e privilegio, sottolinea che: "Dopo la fine del colonialismo storico, vivevamo con l'illusione di aver superato il colonialismo nel momento in cui tutti i paesi diventavano politicamente indipendenti, quando il processo generalmente denominato 'decolonizzazione' era iniziato. Tuttavia, si tratta di un processo che ha più a che fare con la formazione degli Stati nazionali da un punto di vista formale e con l’invenzione della nazione, che con la vita materiale delle persone. Inoltre non ha nulla a che vedere con la decolonizzazione del pensiero, con l'eliminazione delle gerarchie tra gli individui e la sconfitta dei rapporti di dominio". Aggiungo che negli ultimi decenni l’Occidente (inteso in senso economico e non geografico), guidato da Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia e Israele, tutte potenze coloniali, ha innescato, incoraggiato e indotto decine di conflitti, convenzionali e non convenzionali, guerre civili, rivoluzioni colorate e "primavere arabe" per il cambio di regime e il caos permanente tanto nell’Europa orientale ex URSS che nel Vicino e Medio Oriente (Palestina, Siria, Libano, Iraq, Iran, Yemen, Afghanistan), così come nel Nord Africa (Tunisia, Libia, Egitto) e in parte dell'Africa sub-sahariana, per finire nel subcontinente indiano (Pakistan e Kashmir) e senza dimenticare la responsabilità  nel conflitto tra Ucraina/NATO e Russia. Decine di milioni di morti, non giochi da tavolo, frutto di pretestuose lotte alle dittature, a favore dei diritti umani, della democratizzazione e, ultimamente, della “liberazione femminile” da imposizioni religiose. In realtà neo-colonialismo e suprematismo bianco hanno seguitato a esercitare il loro potere neutralizzando l’opinione pubblica grazie all’asservimento dei media mainstream occidentali, che in modo ormai pressoché palese fanno uso di una comunicazione razzista, fuorviante, degradante e discriminatoria. È l’espressione della colonialità. E’ anche l’accettazione delle guerre come “necessarie”.

 

P.C.: Sappiamo che gli scopi delle guerre, direttamente o indirettamente, sono sempre  economici. La stessa industria delle armi genera profitti solo se ha un mercato, quindi dalle guerre si potrebbe uscire solo distruggendo il sistema. Detto questo, al momento quali sono gli obiettivi dell’Occidente?

A.L.: I bersagli geopolitici dell’Occidente continuano ad essere, tra gli altri, il Nord Africa e il Vicino e Medio Oriente. Per quanto riguarda la Palestina, occupata in modo tanto illegale quanto palese, i nativi sono vittime di un genocidio progressivo già dal 1947/48 e ora lo sterminio genocidario nella Striscia di Gaza è una delle più orrende azioni criminali ai quali l’Occidente risponde con ipocrisia verbale e complicità materiale perché Israele fa parte dell’alleanza occidentale e quindi gode di totale immunità. Quanto all’Iraq e alla Libia, paesi che detengono alcune delle più importanti risorse petrolifere del mondo, le guerre della NATO li hanno ridotti in uno stato di enorme povertà


P.C.: Nutri qualche speranza di cambiamento del quadro internazionale grazie a nuove potenze emergenti?

A.L.: Nell'attuale scenario internazionale, trovo importante il ruolo della Cina che si distingue sul piano geopolitico, e non solo commerciale ed economico, spingendo verso un mondo multipolare il quale, secondo le parole dello stesso presidente Xi Jinping, offre sfide e opportunità per il Medio Oriente e l’Africa. Inoltre la Cina si è posta come mediatore di pace nel Vicino e Medio Oriente.

P.C.: Ma i nostri media, funzionali all’attuale sistema dominante, descrivono la Cina e la Russia come un pericolo assoluto.

A.L.: Infatti per gli interessi che i nostri media rappresentano lo sono, e questo ci riporta al ruolo della comunicazione mass-mediatica. La centralità dei mass media era già un dato indiscutibile nel secolo scorso, oggi poi, grazie alle innovazioni tecnologiche si può parlare, con Shoshana Zuboff, di colpo di stato epistemico, cioè messo in atto dalle multinazionali tecnologiche per rivendicare la proprietà della conoscenza, perché chi detiene il potere di controllare le informazioni, la conoscenza dei sistemi e delle infrastrutture, ha in mano il governo reale della società. Si tratta di quel potente processo psicologico che porta alla massificazione dei cittadini che, come spiega Mattias Desmet, costituisce un nuovo totalitarismo basato essenzialmente su una forma di ipnosi collettiva che priva gli individui della capacità di distacco critico facendone dei ripetitori convinti del messaggio mediatico ricevuto. Del resto già Hannah Arendt nel 1967, preconizzava che un nuovo tipo di totalitarismo, guidato da burocrati e tecnocrati, sarebbe emerso dopo la caduta del nazismo e dello stalinismo. Il conformismo generalizzato nell'attuale mondo globalizzato, in cui l’accesso a ogni tipo di informazione darebbe agli esseri umani la possibilità di scegliere, se avessero gli strumenti critici per farlo, come già spiegato da Marcuse, li rende, al contrario manipolabili proprio grazie all’azione dei mass media che agiscono come strumento di propaganda dell’azione politica e del totalitarismo. 

È fondamentale, quindi, comprendere il ruolo dell’informazione in relazione alle dinamiche globali a sostegno dei progetti neo-coloniali occidentali. È, inoltre, necessario analizzare e decodificare il linguaggio utilizzato dai media occidentali in relazione ai paesi target di interesse strategico/geopolitico/economico. Pensiamo ad esempio a come viene definita la lotta di liberazione/resistenza dei popoli palestinese, siriano, iracheno, afghano, yemenita, ecc. contro gli invasori! Come vengono definiti, descritti e rappresentati i resistenti e i loro leader! Non sono sempre terroristi, incivili, violatori dei diritti umani, una minaccia per il nostro modo di vivere? La distorsione dell'immagine è uno strumento efficace per assicurare all'opinione pubblica che ogni forma di repressione dei resistenti, non importa quanto brutale e criminosa, è per il bene comune, per eliminare il pericolo rappresentato dai gruppi terroristici, come vengono chiamati i resistenti dal potere colonizzatore. Spogliare della loro umanità i popoli che resistono alla colonizzazione, evitando che suscitino simpatia o responsabilità morale e presentandoli come  fonte di minaccia fa sì che la loro eliminazione risulti auspicata oltre che giustificata. Ad esempio, dall’attentato alle Torri Gemelle del 2001 ad oggi, sul terrorismo islamico, sul radicalismo islamico e argomenti simili si sono scritti numerosi testi ad ampia diffusione, ma con scarso supporto storico-scientifico, che hanno alimentato islamofobia, fenomeni discriminatori e persecutori verso milioni di cittadini musulmani in Occidente e, al tempo stesso, hanno creato consenso alle guerre contro Afghanistan e Iraq.

P.C.: Quindi tu leghi strettamente il linguaggio mass mediatico al supporto del potere coloniale moderno.

A.L.: Esatto, ma ora dobbiamo comprendere come, materialmente, le forme di potere abbiano assunto modelli coloniali su scala globale. Come scriveva Grosfoguel nel 2005 “la colonia è diventata una modalità di dominio globale superando i confini tradizionali”. È necessario, quindi, proseguire nella direzione degli Studi coloniali, neo-coloniali e de-coloniali nei confronti dei paesi arabi e islamici coinvolgendo, in modo interdisciplinare, le scienze sociali come l'Antropologia, la Storia, la Geopolitica, la Comunicazione di massa, il Diritto Internazionale, le Scienze delle Religioni, ecc., con particolare attenzione al processo di assoggettamento coloniale della psiche umana, alla permanenza della colonizzazione del pensiero nelle sue molteplici forme.



P.C.: Un lavoro accademico su questi temi, per importante ed anche entusiasmante che sia, non rischia di restare confinato tra le mura della ricerca fine a se stessa?


A.L.: Proprio per evitare questo riteniamo importante raggiungere una buona sinergia tra giornalisti e accademici di diversi paesi arabo-islamici. Una sinergia finalizzata alla de-costruzione del linguaggio neo-coloniale e orientalista dei media occidentali. Giornalisti e studiosi del Medio Oriente hanno utilizzato i termini di colonialismo e neocolonialismo in relazione alle operazioni militari e alle aggressioni di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, altri paesi della NATO e Israele nel Vicino e Medio Oriente (ad esempio, i bombardamenti quotidiani della Siria o i massacri di palestinesi, iracheni, afghani o yemeniti), e l'attuale genocidio israeliano a Gaza, denunciando l’ideologia razzista dei governi occidentali, il ruolo passivo o i doppi standard delle organizzazioni umanitarie e giuridiche internazionali e delle Nazioni Unite. In quest’ambito si distingue il lavoro di Rashid Khalidi, storico palestinese-americano e professore alla Columbia University, negli USA, le cui ricerche si basano sull'emergere di varie identità nazionali e sul ruolo svolto dalle potenze esterne nel loro sviluppo; sull’impatto della stampa e lo sviluppo delle narrazioni negli ultimi secoli nelle regioni del Mediterraneo e del Medio Oriente. Gran parte del lavoro accademico di Khalidi si concentra sulla ricostruzione storica del nazionalismo nel mondo arabo e, per quanto riguarda la Palestina, colloca l’emergere dell’identità nazionale nel contesto del colonialismo ottomano e britannico e del movimento sionista. In particolare, egli data l’emergere del nazionalismo palestinese all’inizio del XX secolo, fornendo una replica alle affermazioni nazionaliste israeliane secondo le quali i palestinesi non avevano rivendicazioni collettive prima della creazione di Israele nel 1948. Altra studiosa da citare è la filosofa statunitense Judith Butler, la quale arricchisce il dibattito riprendendo il lavoro di Edward Said e articolando una critica al sionismo politico e alle sue pratiche di violenza statale nazionaliste e razziste. Ma i mass media, nonostante sia ebrea e la sua famiglia abbia molte vittime dell’olocausto, la ignorano. Non è organica al pensiero colonialista dominante.

P.C.: Rispetto ai nuovi scenari militari, come si pone il Nucleo di Ricerca?  

A.L.: Al conflitto Nato/Ucraina e Russia si è aggiunta la nuova guerra contro l’Oriente musulmano: la guerra israeliana contro la Striscia di Gaza assediata che ha già provocato oltre 130.000 tra morti, dispersi e feriti palestinesi; 1,8 milioni di sfollati; la quasi totale distruzione della regione; una crisi alimentare, sanitaria e umanitaria perseguita e realizzata scientemente da Israele di fronte all'Occidente complice e al mondo arabo colonizzato economicamente e nel pensiero, e dunque passivo. La comunicazione per costruire consenso riproduce lo stesso schema utilizzato in tutti gli altri conflitti: manipolare le folle e indurle a sostenere l’ impresa militare del momento tramite una propaganda basata su menzogne, alterazione dei fatti e invenzione del casus belli. Il soggetto preso di mira viene prima delegittimato dai media – megafono e strumento dell’establishment occidentale – e poi attaccato militarmente. L’uso strumentale dei diritti umani, non importa se costantemente violati,  serve a costruire il nemico, in un approccio orientalista coloniale dispregiativo, degradante, discriminatorio e razzista che lo svilisce antropologicamente fino a farlo percepire come indegno a stare nella comunità internazionale a tal punto che le folle accolgono le rivoluzioni guidate dall’esterno, i cambiamenti di regime, i colpi di stato, gli interventi della NATO, le guerre, come inevitabili e necessari per portare “civiltà e democrazia”, come è successo con l’Afghanistan, l’Iraq, la Libia, la Siria, ecc., e come potrebbe succedere con l’Iran. Il concetto di democratizzazione utilizzato dagli Stati Uniti è pura strumentalizzazione come ben spiegato dal presidente del Partito socialista dello Zambia, Fred Mmembe, che nel Forum internazionale sulla democrazia a Pechino, nel marzo 2023 ha affermato che: "Un paese che ha rovesciato tanti governi in Africa, che ha condotto tanti colpi di stato in Africa e in altre parti del mondo, un paese che ha ucciso tanti dei nostri leader in Africa e in altre parti del mondo... un paese che è stato costruito con forza brutale sulla schiavitù di altri esseri umani, sull'umiliazione degli africani, sullo sfruttamento degli africani, oggi viene a insegnare la democrazia. Questa è arroganza, arroganza imperialista".

P.C.: Quindi, in sintesi estrema, è possibile dire che se non si realizza uno studio approfondito delle varie forme di colonialismo e dei suoi lasciti culturali e antropologici, anche attraverso l’analisi e la decodificazione del linguaggio non si possono né comprendere a pieno né affrontare in modo politicamente e intellettualmente onesto, gli sviluppi geopolitici mondiali?

 A.L.: Esattamente. Gli studi coloniali, neo-coloniali e de-coloniali, con riguardo ai paesi islamici dell'Africa settentrionale e orientale, e del Vicino e Medio Oriente coinvolti nelle dinamiche neo-coloniali occidentali, sono fondamentali per analizzare e de-costruire le congiunture geopolitiche in atto alla luce, anche, della comunicazione di massa, contribuendo a promuovere un nuovo modello, una nuova etica della comunicazione e della narrazione storica e culturale che rispetti tradizioni e culture delle regioni musulmane e che sappia presentare una versione corretta dei fatti e degli sviluppi storici e geopolitici. Questo l’obiettivo del lavoro che svilupperemo, non a caso, in uno dei Paesi pilastro dei Brics.  

 

[1] Laurea magistrale in Studi arabo-islamici, PhD in Studi Africani, post-dottorato in Scienze della Religione (religioni comparate); post-dottoranda in Studi coloniali e neocoloniali del Nord Africa e del Medio Oriente.

 

 

Patrizia  Cecconi

Patrizia Cecconi

Romana di nascita, milanese di ultima adozione. Laureata in Sociologia presso la Sapienza Roma ove tiene per alcuni anni dei seminari sulla comunicazione deviante. Successivamente vince la cattedra in Discipline economiche ed insegna per circa 25 anni negli Istituti commerciali e nei Licei sperimentali. Interessata all'ambiente, alle questioni di genere e ai diritti umani ha pubblicato e curato diversi libri su tali argomenti ed uno in particolare sulla Palestina esaminata sia dal punto di vista ambientale che storico-politico. Ha presieduto per due mandati l'associazione Amici della Mezzaluna Rossa Palestinese di cui ora è presidente onoraria e, al momento, presiede l'associazione di volontariato Oltre il Mare. Da oltre 12 anni trascorre diversi mesi l'anno in Palestina, sia West Bank che Striscia di Gaza, occupandosi di progetti e testimonianze dirette della situazione. Collabora con diverse testate on line sia di quotidiani che di riviste pubblicando articoli e racconti. 

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