Natale ortodosso nella Serbia di Djokovic. "I serbi amano troppo la vita per accettare un green pass all'italiana"

Natale ortodosso nella Serbia di Djokovic. "I serbi amano troppo la vita per accettare un green pass all'italiana"

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Il 7 gennaio in Serbia – come nel resto dell'Europa orientale – si festeggia il Natale ortodosso. Laura - una ragazza italiana che vive e lavora in Italia e ha preferito la forma dell'anonimato in questa intervista - si trova a Belgrado, dove vive una parte della sua famiglia: capitale di un paese al centro della furiosa polemica innescata dalla querelle Djokovic/Australia. L'occasione giusta per scopire come si vive da quelle parti in tempo di pandemia. 

 

Laura prima di tutto buon Natale, anche oggi [ieri, n.d.r.] lo festeggi in Serbia?

Sì, come ogni anno. Anche se non è stato facile. Il viaggio per fini turistici, in Serbia come in altri paesi, è attualmente vietato. Nel mio caso c'è lo “stabile legame affettivo” e, pertanto - con un po' di acrobazie tra green pass e tamponi - è stato possibile. Tra Serbia e Italia vige un accordo sostanzialmente simile al green pass europeo, ovvero si entra nel Paese con test PCR negativo, vaccinazione completata o guarigione dal Covid. La parte difficile è stata quella logistica. Non sono vaccinata e dal 10 gennaio non potrò più utilizzare aerei e alberghi. Sono venuta in macchina, al rientro pernotterò in Slovenia oppure ospite a casa di amici, ma ci penserò a suo tempo... ormai le regole cambiano ogni settimana, non ha senso occuparsene prima!

 

Parlami di questo Natale: è stato diverso dagli altri anni?

Non so se è solo una percezione legata alla mia condizione personale, forse un entusiasmo leggermente più “smorzato” del solito... ma tieni presente il punto di partenza: negli ultimi anni la Serbia ha avuto un fortissimo rinsaldamento della tradizione religiosa, a livello individuale, familiare ma anche sociale.

 

Non capisco, spiegami...

Nel senso che l'atmosfera è meno “euforica” che in Italia, ma molto più raccolta, più partecipata. Come dicevo, da queste parti c'è stata una riscoperta della sfera religiosa, forse per ragioni più identitarie che spirituali, ma comunque i momenti di socialità legati alle tradizioni religiose sono sempre più partecipati, anche da giovani e giovanissimi. Ad esempio. La notte della vigilia di Natale, nella tradizione serbo-ortodossa, si fa un grande falò con i rami di quercia - a simboleggiare il fuoco acceso dai pastori nella grotta di Betlemme - come augurio di felicità. A Belgrado la gente si riunisce nel cortile del tempio di Sveti Sava (San Sava, uno dei più grandi Tempi ortodossi del mondo, costruito sul modello di Santa Sofia ad Istanbul e ultimato grazie a finanziamenti russi) e accende molti fuochi. Ci sono giochi per bambini, bancarelle di bevande e cibi caldi... anche quest'anno la cerimonia è stata grandiosa. Dentro la Chiesa, poi, era piena di persone di ogni età. Se calcoli che San Sava può contenere più di seimila fedeli solo nello spazio principale (escludendo quindi balconate e cripta) e se a questo aggiungi la dimensione del piazzale antistante e del parco di circa 40.000 mq, puoi avere un’idea della dimensione dell’evento. Comunque il video della celebrazione lo trovi qui https://www.youtube.com/watch?v=p6tHI1dt8QY

 

Tutti distanziati e con la mascherina immagino...

Non esattamente. La mascherina è obbligatoria nei luoghi chiusi (scuola inclusa) e sui mezzi di trasporto ed è prescrizione generalmente rispettata; anche all’aperto, devo dire, benché non sia obbligatoria, capita di incontrare molte persone, soprattutto anziani, con la mascherina.

 

E in chiesa invece?

In chiesa per le visite a metà tra il turistico e il religioso la maggior parte delle persone la indossa. Ad esempio la mattina di Natale alla fila per l’adorazione delle icone la maggior parte delle persone la indossava. Ma da amici fedeli apprendo che le celebrazioni di culto si svolgono generalmente senza mascherina; è qualcosa che ha a che fare con la fede, non con le regole del vivere civile. Per dirla con le parole di una non-fedele come me, mi sembra che l’idea sia più o meno questa: in una comunità di spirito, non ha senso porre barriere tra i partecipanti; in altri termini la “condivisione” o c’è o non c’è, e se c’è è totale... e la paura della morte non può certo limitarla. Pur non essendo religiosa, se guardo la questione da un punto di vista storico-culturale, mi sembra che questo atteggiamento rifletta molto di più lo spirito comunitario del cristianesimo. Da noi in Chiesa non ci si dà neanche più la mano... quasi a testimoniare come il senso di separazione, estraneità e diffidenza che sta pervadendo la società italiana sia stato trasferito anche alle manifestazioni di fede.

 

Come si pone la Chiesa Ortodossa Serba rispetto a tutto questo? Qualcuno potrebbe vederci un avallo di comportamenti in contrasto con le disposizioni statali e sanitarie.Voglio dire, da noi la Chiesa si è allinenata fin da subito al Governo, intervenendo sul tema vaccinale e addirittura improvvisando qualche piroetta ideologica in tema di “etica” per giustificare certe prese di posizione.

A mio avviso la Chiesa Serba Ortodossa ha scelto di porsi a un livello diverso rispetto alla questione, più propriamente “spirituale” e “immanente”. Ovviamente la situazione che ti ho descritto ha dato luogo a numerose critiche visto che in passato ci sono stati episodi di focolai legati a celebrazioni religiose. Ma le autorità religiose hanno innanzitutto rigettato alla base la narrazione che poneva lo stigma di “untori” o di “comunità di untori”. E, soprattutto, hanno fin da subito sottolineato che - in un mondo che pretende di mandare avanti attività economiche e turistiche, di continuare a godere di divertimenti e vita notturna - non era tollerabile limitare l’attività della Chiesa. Per fare un esempio. Oggi (7 gennaio n.d.r) c'è un'interessante intervista al vescovo di Australia e Nuova Zelanda (punto di riferimento della nutrita comunità serba) dal titolo piuttosto eloquente: “La lotta al virus non diventi una lotta all’uomo” (https://www.politika.rs/sr/clanak/496475/Da-se-borba-protiv-virusa-ne-pretvori-u-borbu-protiv-coveka) Una linea che emerge in uno dei passaggi più significativi in cui si esprime con chiarezza la preoccupazione delle autorità ecclesiastiche a “preservare l’indirizzo evangelico della Chiesa in Australia nonostante il fatto che venti, a volte molto forti, stiano soffiando per cambiarne il corso. La Chiesa è il corpo di Cristo, non è folclore o oppio per i popoli, né può essere uno strumento dello Stato per l'attuazione dei suoi scopi, se questi si pongono metodologicamente e sostanzialmente in contrasto con la natura e gli insegnamenti della Chiesa. C’è chi crede, soprattutto per ignoranza, che il vescovo, come capo della comunità, debba seguire ciecamente e adempiere a tutto ciò che è richiesto dallo Stato, senza previa verifica se ciò sia conforme ai principi del Vangelo. Certo, ci sono stati momenti di collaborazione con lo Stato su questioni meritevoli, ma si può chiedere al Vescovo di tacere davanti alla repressione, al ricatto, alla psicosi, e alla privazione della libertà e dei diritti!? […] Crediamo che nel momento in cui la Chiesa diventa un esecutore passivo di ordini e idee secolari senza riscontro con lo spirito del Vangelo, si estranea dal proprio ruolo e da sé stessa”. Parole che, almeno a mio parere, descrivono molto chiaramente ciò che sta accadendo alla curia romana. Ad ogni modo, come avrai capito, ce l’ha con le politiche del governo australiano: qualche riga prima parla di “ricatto senza precedenti e vaccinazione forzata”, riferendosi soprattutto alla politica del “no jab-no job” (no vaccino-no lavoro). Sai che ti dico? Invidio il popolo che ha queste guide spirituali. Io non sono mai stata fedele soprattutto perché ho sempre visto nella chiesa cattolica un mero esecutore connivente del Potere; ma anche nel mio deserto di fede, sono stata ferita e annichilita dall’atteggiamento che la nostra chiesa ha avuto in tutta la questione covid e politiche annesse.

 

A proposito di Australia. In questi giorni sta facendo molto discutere la vicenda di uno dei serbi più famosi del mondo, il tennista Novak Djokovic, attualmente in stato di semi-detenzione per aver osato sfidare le autorità australiane provando a partecipare agli Australian Open da non vaccinato. Cosa si dice, del suo caso, in Serbia?

Partiamo da un presupposto: Djokovic, per la Serbia e per il popolo serbo, non è solo uno sportivo ricco e famoso. È un patriota - con la sua fondazione, infatti, finanzia numerosi progetti di beneficenza, cosa che, fra l'altro, ha fatto anche in Italia donando soldi agli ospedali di Bergamo durante la pandemia - e un simbolo nazionale. Ad ogni modo la questione è molto semplice: Djokovic, insieme ad altri 26 tennisti (che per esempio hanno avuto il covid o sono vaccinati con Sputnik), ha rispettato il regolamento: ha ottenuto una regolare esenzione medica. Non serve un genio per capire che entrare nel merito della “questione medica”, cioè sul perché l’esenzione sia stata rilasciata, non rientra nei compiti del Ministro degli Interni australiano. Poi c'è la tempistica di tutta la storia a favorire qualche “retropensiero”. Djokovic, infatti, è salito sull’aereo perché in possesso di regolare visto. A vedere quanto accaduto dopo parebbe che – esattamente come accaduto alla ceca Renata Vora?ova - sia stato fatto salire a bordo esclusivamente per inscenare un sequestro e punire, mediaticamente e non, un personaggio che ha osato manifestare in modo trasparente la sua posizione riguardo il vaccino. Direi che tutto il mondo serbo è assolutamente allineato nel leggere la questione in questi termini. Addirittura il Presidente del Parlamento, leader del Partito socialista serbo, ha affermato che il miglior tennista del mondo è stato oggetto di "disgustose molestie politiche e abusi". La stampa locale ha scovato commenti di tifosi spagnoli che sui social, dopo le dichiarazioni di Nadal sulla vicenda, hanno dichiarato cose come: “sono spagnolo, ma quest'altro uomo nella foto (Djokovic) mi rappresenta di più e mi identifico in lui, e non con persone come te (Nadal), che sono collaboratori della tirannia”. Una nota di colore per gli amici italiani che in questo momento vedono l’Australia come baluardo di legalità: la stampa serba ha colto l’occasione per occuparsi degli “alberghi per migranti” (ovvero veri e propri luoghi di detenzione dove vengono trattenuti coloro che si presentano illegalmente alle frontiere) riportando il caso di un migrante pakistano detenuto, nello stesso “albergo” di Djokovic, da ben 9 anni. Evidentemente con i covid hotel gli australiani non hanno dovuto inventare nulla di nuovo...

 

Direi che sei stata fin troppo chiara... Torniamo a Belgrado e alle festività. Hai parlato di turisti, vita notturna e divertimento. Dalle tue parole pare di capire che in Serbia la situazione non sia esattamente uguale all'Italia, che le limitazioni siano molto più blande, anche per le attività di svago. Ad esempio come sono stanno vivendo le famiglie serbe le feste di Natale?

Ti rispondo subito sulla normazione del vivere sociale, la vita notturna merita un capitolo a sé. Fin dall’inizio l’atteggiamento del governo è stato di procedere con misure mirate più che drastiche e generalizzate. Preferendo le raccomandazioni alle imposizioni. Per esempio, a inizio pandemia fu adottato un approccio di protezione specifico per gli anziani, con orari limitati e dedicati esclusivamente all’accesso ai luoghi pubblici e ai negozi, senza lockdown generalizzato. Solo dopo, nel pieno della pandemia (che in Serbia è arrivata a novembre 2020), si è arrivati al coprifuoco alle 17 e alla chiusura di bar e ristoranti. Ma su questo vorrei tornarci più nello specifico. Poi, pian piano, si è capito quanto solo ora inizia timidamente ad emergere anche sulla stampa occidentale. E cioè che era preferibile assicurare una circolazione controllata del virus - specie nei mesi caldi, quando è meno aggressivo - e procedere con le raccomandazioni. La “quarta ondata”, arrivata in Serbia in netto anticipo (ad ottobre), ha avuto un numero di contagi vertiginoso, 6.000 al giorno. Una cifra stratosferica per i serbi. Per capirci – e facendo un parallelo con la popolazione italiana – sarebbe come parlare di 60.000 contagi al giorno dalle nostre parti. Eppure non è stata varata alcuna nuova misura, ad eccezione del green pass nei locali notturni e ristoranti dopo le 20. E qui veniamo al punto: in nessuna città europea ho mai sperimentato una vita notturna equiparabile a quella di Belgrado; forse in Spagna e in Israele/Libano, ma in quel caso si è aiutati dalle temperature miti. A Belgrado, anche con il termometro sotto zero, migliaia di persone si riversano nelle strade e nei locali, la ristorazione è una favola e anche il più ordinario bar di quartiere è sempre e comunque “frequentato”. Nelle città italiane del nord, anche le più ricche, chiude tutto alle 21 (fatta eccezione per Milano). Non è un caso se per questo capodanno Belgrado ha accolto 100.000 turisti con festeggiamenti e fuochi d’artificio che, per bellezza e imponenza, sono secondi solo a quelli di Dubai. Quindi, anche se l’idea non mi piace, non trovo del tutto inappropriato l’aver voluto limitare in qualche modo l’accesso ai locali; il divertimento qui è veramente una gran baraonda in perfetto stile balcanico! E tutto questo nonostante la sanità pubblica serba non navighi certamente in splendide acque (per quanto, dalle poche esperienze che ho avuto, potrei definirla migliore di quella italiana da Firenze in giù).

 

Quindi il Green Pass esiste anche in Serbia. Ma parliamo della stessa misura italiana ed europea? Fammi capire bene: come si ottiene? E, soprattutto, vale anche per le attività lavorative?

In sostanza parliamo dello stesso certificato, ed infatti c’è un accordo di mutuo riconoscimento tra Serbia e Unione Europea. Qui, però, oltre al tampone, al vaccino o alla guarigione, si aggiunge una condizione ulteriore che, a mio parere, qualifica “l’onestà” di tutto il sistema: si può ottenere il green pass anche con test sierologico positivo e in tal caso dura per 3 mesi. In sostanza, se hai gli anticorpi posso ragionevolmente assumere che li manterrai per almeno 3 mesi e quindi non ti costringono a vaccinarti. Non mi pare un dettaglio di poco conto, soprattutto considerando il fatto che, secondo numerosi pareri scientifici, ricevere il vaccino con anticorpi naturali già alti può comportare conseguenze molto pericolose. In Italia ho amici che hanno avuto il covid in maniera totalmente asintomatica e perciò non hanno ricevuto una diagnosi ma si sono ritrovati mesi dopo con anticorpi altissimi. E grazie alla circolare del nostro Ministro della Salute, sono stati comunque costretti a vaccinarsi. Per quanto riguarda altri ambiti di applicazione del green pass no, non è stato introdotto e al momento non sembra una prospettiva plausibile. Come in Italia c’è una sorta di “cabina di regia” composta da tecnici (medici) e politici. I medici lo hanno ripetutamente richiesto ma la politica non ritiene di poterlo applicare.

 

Perché, secondo te, non lo ritengono applicabile?

Innanzitutto va fatta una premessa importante: qui non c’è mai stata alcuna campagna mistificatoria. Nessun rappresentante delle istituzioni si è mai sognato di dire che “il green pass rappresenta la garanzia di frequentare ambienti sicuri”. I medici hanno avuto un po' lo stesso atteggiamento dei medici italiani, hanno “venduto la pelle dell’orso” come si suol dire, hanno fatto grandi promesse sull’utilità sterilizzante del vaccino e sull’ottenimento dell’immunità di gregge... hanno detto un po' “di tutto e di più” e talvolta con pareri contrastanti, esattamente come in Italia. Ma quello che è secondo me degno di nota è che non hanno avuto seguito politico/istituzionale. Né i partiti né, tantomeno, i rappresentanti delle istituzioni hanno in alcun modo polarizzato la questione tra “vaccinati” e “non-vaccinati”, o spacciato il green pass come “soluzione magica” del problema. Per quanto ne so io, la maggior parte delle persone sa che ci si vaccina per sé stessi, o, al limite, per amor di patria, per evitare di finire in ospedale; e che, ad un certo punto, con questo problema bisognerà convivere appunto perché non esistono soluzioni definitive. E qui veniamo alla vera questione, quella culturale. Non credo che i serbi (così come i croati, in questo sono simili, ma non ci facciamo sentire dai miei!) potranno mai accettare di condizionare lo svolgimento delle loro vite all’adempimento di un compito, qualsiasi esso sia, solo per scongiurare il pericolo della morte. Questa può sembrare una considerazione che ha una valenza esclusivamente personale ma nel momento in cui viene condivisa dalla maggior parte degli individui in seno ad una società, diventa una considerazione reciproca e quindi dal valore universale. Si fa quel che si può, con coscienza e responsabilità ma la Vita va avanti. E il bello è che questo sentimento individuale e collettivo insieme, traspare da ogni singolo gesto del vivere sociale: si sta insieme, ci si abbraccia, ci si bacia, ci si scambia gli auguri. Sulla vita non c’è l’onnipresente piovra tecnologica dell’autorizzazione per vivere; entri in una palestra e la receptionist ti dice “vieni quando vuoi”, suggerendoti comunque gli orari meno affollati (dalla mia palestra romana, che pago da 7 anni, sono stata respinta per il solo fatto di aver dimenticato il green pass, pur giurando di averlo ed essendo in condizione di farmelo inviare via mail entro un’oretta); i pranzi di famiglia non vengono organizzati come riunioni esclusive tra adepti del vaccino; riguardo quest'ultima considerazione ti racconto due episodi molto significativi. Il primo è accaduto in Italia: una mia amica, non vaccinata, è stata diffidata dalla sorella, vaccinata, dal recarsi alla cena della Vigilia a casa della madre. Qui in Serbia, invece, sono stata invitata per Natale da uno zio ultrasettantenne, invito che ho gentilmente declinato avendo qualche linea di febbre e mal di gola. Sai qual è stata la risposta? “Vieni lo stesso, mica ho paura”. Insomma, arrivare qui è stato come tornare alla vita, quella vera. Ho avuto la prova di ciò che ho sempre creduto riguardo me stessa, cioè che preferisco accettare il rischio di ammalarmi pur di vivere in una società che rifletta i miei valori. Del resto, non essendo vaccinata (e non avendo intenzione di farlo a questo punto, più per principio che per altro), sopportavo da sei mesi, quotidianamente, la campagna di odio e disprezzo fomentata da istituzioni, giornali e personaggi vari del mondo dei social. Purtroppo, nel mio caso come in quello della mia amica, questa campagna ha coinvolto anche persone a me vicine. Più volte mi è capitato di consolare amiche in lacrime, al telefono. Io sono molto forte: mi sono consolidata nelle mie idee, mi sono rifugiata nei libri; ho riempito il vuoto che ogni nuovo provvedimento apriva nella mia testa e nel mio futuro con grandi progetti di cambiamento; mi sono tormentata domandandomi se quei progetti fossero adatti alla mia famiglia e se saremmo stati ancora felici… ma solo venendo qui ho realizzato come il clima e i gesti che sono entrati a far parte del nostro vivere quotidiano, insieme alla solitudine che veniva dal constatare come questi fossero “normali” o “accettabili” per il mio popolo, siano stati per me come un veleno sottile e silenzioso che mi ha annientato nell’anima. Non scherzo se ti dico che dopo 48 ore qui, un tranquillo pranzo al ristorante (all’aperto) e qualche passeggiata, mi sento cinque anni più giovane!

 

Da quanto dici, quindi, sembra impossibile che in Serbia venga mai introdotto un Green Pass sul modello italiano (o francese). Io però ricordo che all’inizio, la Serbia è stata un modello di campagna vaccinale e molti italiani si sono dati al “turismo vaccinale”, andando cioè a farsi vaccinare in Serbia. Come hanno fatto e qual è la situazione attuale?

Beh, innanzitutto con un’organizzazione perfetta. Anche se capisco che noi italiani, con la nostra presunzione dei “migliori”, possiamo far fatica a crederlo. Le strutture statali del vecchio Stato socialista, sanità inclusa, sono in parte sopravvissute a tutti i terremoti dei decenni passati; ho la sensazione che anche l’idea del lavoro come “valore sociale” sia in qualche modo rimasta. I nuovi investimenti sono stati fatti in modo efficiente. Un esempio immediato è quello sistemi informativi. Sebbene i tamponi, a Belgrado, vengano eseguiti esclusivamente da un istituto pubblico, il 6 gennaio ho prenotato un tampone per l’8: ci sono voluti 30 secondi ed il giorno di attesa è dovuto esclusivamente al Natale. Con i vaccini è stato lo stesso e, soprattutto, la Serbia ha acquistato tutti i vaccini sul mercato, inclusi quello russo (che attualmente viene anche prodotto su licenza da un istituto pubblico serbo) e cinese, e dando ai propri cittadini la possibilità di scegliere. In molti hanno scelto Sputnik. Attualmente il 50% circa della popolazione è vaccinata e si sta procedendo con le dosi booster per tutti prodotti disponibili. La campagna vaccinale è stata un punto di merito dell’attuale governo ma non è mai stata condotta con i toni salvifici né terroristici utilizzati in Italia. Il messaggio è stato: “chi vuole si vaccini, chi non vuole che Dio sia con lui”. Anche nella famiglia di qui io rappresento la minoranza no-vax! Scherzo, la distribuzione è più o meno anziani-vaccinati / giovani-non-vaccinati, anche perché alcuni hanno avuto il Covid nella fase peggiore che, per la Serbia, in termini di virulenza e mortalità è coincisa tra novembre e dicembre 2020. Ma chi meglio, chi peggio, tutti l’hanno superato senza finire in ospedale. Adesso, dopo il Capodanno, c’è una ripresa dei contagi ma non percepisco angoscia in giro. Nessun allarmismo, men che meno un tentativo di colpevolizzare parti della popolazione. Anche sulla stampa locale il Covid viene più o meno insieme alle starlet dalle labbra siliconate (e qui di silicone ce n’è tanto … insomma il dibattito sul covid in questo momento è attutito da montagne di silicone). Il tema in genere riprende importanza solo in caso di affanno del sistema sanitario nazionale. Del resto - e nonostante tutto - la Serbia presenta attualmente un dato sulla letalità complessiva del Covid inferiore a quello italiano (1.800 morti ca. per milione di abitanti, contro i 2.300 ca. italiani, sempre per milione di abitanti).

 

Hai ragione, molti italiani avranno seria difficoltà a credere alle tue parole... In chiusura un'ultima domanda. Non mi hai ancora detto perché, secondo te, i serbi non accetterebbero mai un green pass all’italiana, o un supermegagreenpass o qualche altro derivato.

Perché non lo accetterebbero mai? Siamo onesti, gli italiani hanno accettato tutto questo per paura della morte, la propria, e non per amore degli altri. Stiamo sempre parlando di uno dei paesi avanzati con più alto tasso di evasione fiscale e solitamente dedito alla pratica del “farsi i c propri”. Del resto circa il 60% della popolazione è andato a vaccinarsi spontaneamente e anche con una certa fretta: conosco persone che sono corse con le mutande piene, a febbraio, rubando letteralmente il posto a novantenni e ottantenni che ancora aspettavano, e adesso si ergono a paladini del dovere sociale al punto da sentirsi autorizzati a maltrattarmi pubblicamente. Del resto, i 130.000 morti non sono forse l’obiezione inattaccabile con cui si contesta chiunque provi a spostare il fulcro del discorso? È stata alimentata la nostra paura della morte con immagini ad effetto, spesso scollegate dai dati statistici, e poi ci è stato venduto un siero magico per la soluzione di ogni male. Ma tutto, secondo me, è riconducibile al desiderio, tutto “consumistico”, di sconfiggere la morte. Ecco secondo me, i serbi conservano ancora una certa consapevolezza riguardo il fatto che la pretesa di eradicare la morte non è solo una chimera, ma è anche pura ipocrisia. E lo sanno perché a 18 anni, mentre io e te eravamo a cazzeggiare allegramente, i nostri coetanei serbi convivevano con le nostre bombe (quelle della NATO, sganciate da aerei in decollo dall'Italia). E con la forza di un popolo che ha resistito per secoli all’avanzata dei turchi prima e dei nazisti poi - si è rialzato con grande dignità anche dopo essere stato aggredito con la benedizione di tutto il “mondo libero”. Forse proprio per questo - e da veri balcanici - amano troppo la vita: quella che è nel loro spirito di fratellanza reciproca, nei bei gesti che vedo tutti i giorni, nei volti miti delle vecchie contadine del mercato; quella che brilla dalle vetrine dei caffè e quella delle giovani coppie che continuano a fare figli. Quella che esplode nella musica chiassosa di strada, con i suoi suoni e ritmi gitani, in cui ognuno si improvvisa cantante di talento e che ti rapisce, a Capodanno, nelle strade di Belgrado. Facendoti venire voglia di restare qui. Per sempre.

Antonio Di Siena

Antonio Di Siena

Direttore editoriale della LAD edizioni. Avvocato, blogger e autore di "Memorandum. Una moderna tragedia greca" 

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