MAMDANI, VOLTO NUOVO O STESSO ORDINE?

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MAMDANI, VOLTO NUOVO O STESSO ORDINE?

 

di Pasquale Liguori

 

Ci sono mappe che non rappresentano solo territori, ma ideologie. Quella dell’esito del voto newyorkese tra Zohran Mamdani e Andrew Cuomo, pubblicata dal New York Times, è una di queste.

Le zone blu, dove ha prevalso Mamdani, eletto nuovo sindaco della Grande Mela, e quelle gialle, in favore di Cuomo, non dividono soltanto la città: dividono il senso stesso di cosa significhi oggi “sinistra” in Occidente.

Nel blu si concentra la giovinezza meticcia, precaria e ribelle che ha fatto di New York il laboratorio di un socialismo municipale: i quartieri di Astoria, Bushwick, Harlem, Bed-Stuy, popolati da migranti, neri, latini, studenti, lavoratori del servizio pubblico e delle piattaforme.

Nel giallo, la città del privilegio — Manhattan alta, il Queens orientale, le enclave ortodosse di Brooklyn — dove si difendono la stabilità, la rendita, l’eccezionalismo americano e il legame politico con Israele.

Sono due città, due antropologie politiche, due morali del mondo.

Cuomo rappresenta il liberalismo istituzionale che ha dominato per decenni il Partito Democratico: diritti civili, tecnocrazia e potere imperiale. Mamdani ne è il presunto superamento, il volto giovane e socialista di una nuova alleanza intersezionale, plurale, globale.

Ma ciò che viene venduto come rottura è tutto da verificare alla prova dei fatti e — non me ne vogliano gli euforici — appare come un update morale dell’impero: una versione multiculturale e, al tempo stesso, rassicurante del suo apparato.

Il discorso su Mamdani trasforma la sua figura in un mito di purificazione: il figlio dell’intellettuale postcoloniale, il musulmano che conquista la città simbolo dell’Occidente, il politico che “libera” l’identità ebraica dal sionismo.

A tal proposito, occorre fermarsi un momento per la rilevanza rappresentata dal voto ebraico. Parlare di “liberazione” in una città come New York significa inevitabilmente confrontarsi con il suo intreccio strutturale di rapporti politici, finanziari e culturali con Israele. Non si tratta di una relazione marginale, ma di un asse economico e simbolico che attraversa università, banche d’investimento, fondazioni, lobby e reti elettorali.

New York, metropoli con oltre un milione e mezzo di ebrei — più che qualsiasi altra città al mondo fuori da Israele — riflette oggi una profonda spaccatura in seno a quella comunità: da un lato, il blocco ortodosso, conservatore, radicato nei quartieri fedeli a Israele e alla sua sicurezza come valore teologico; dall’altro, un blocco liberal-progressista, dove la critica del sionismo diventa segno etico di un nuovo umanesimo occidentale.

Le proiezioni più accreditate pre-voto parlavano del 43 percento di ebrei newyorkesi complessivamente favorevoli a Mamdani e, tra essi, di una maggioranza dei giovani (due su tre) pronti a votarlo.

Non ci si trova al cospetto di semplici spostamenti politici, ma di una crisi di legittimità del sionismo religioso, che per decenni ha garantito la coesione del potere ebraico-americano.

Si parla, perciò, dell’ascesa del nuovo sindaco come di una liberazione per gli ebrei americani, un “momento storico per l’identità ebraica” che finalmente si separa dall’occupazione israeliana.

È il linguaggio del ravvedimento, del riscatto morale: un nuovo ebraismo “buono”, antisionista ma pienamente integrato nell’etica liberale dei diritti umani.

Ma questa retorica è funzionale al potere che dice di criticare.

Il “buon ebraismo” — come la “buona sinistra” — potrebbe infatti rappresentare un ottimo ricostituente della coscienza pulita dell’Occidente dopo Gaza.

È il lenitivo dell’autocritica inoffensiva, che trasforma il genocidio in occasione pedagogica per chi guarda, non in giustizia per chi resiste.

Mamdani viene così elevato a figura di catarsi collettiva: l’alleato musulmano che consente all’ebraismo liberale di separare finalmente Dio da Netanyahu, l’identità dalla violenza.

Ma questo “riarmo etico” della diaspora non è un processo decoloniale.

È, molto più verosimilmente, la continuazione della centralità occidentale sotto nuove spoglie: l’idea che la liberazione palestinese debba comunque passare attraverso la redenzione morale dell’ebraismo americano.

La Palestina, così, resta oggetto, mai soggetto: campo simbolico della purificazione, non della rivoluzione.

Su questo terreno, ogni proclamata “rinascita rossa” meriterebbe un’analisi meno ingenua.

Eppure, la narrazione emergente — soprattutto dalle fila del progressismo italiano ed europeo, che di riflesso celebra questo risultato come proprio — preferisce l’entusiasmo: diffusione di immagini che rievocano la falce e il martello sullo skyline di Manhattan, editoriali che parlano di “nuovo socialismo urbano”, come se bastasse un voto per convertire Wall Street alla giustizia sociale.

In realtà, per potersi anche solo presentare a queste elezioni, non è sufficiente la tuta di Cipputi ma un apparato multimilionario: pedigree certificato, staff di consulenti, donatori, media, infrastrutture digitali, fondazioni di appoggio.

Ecco perché, in siffatto contesto, l’euforia per Mamdani sindaco, invece di annunciare una rivoluzione, rischia di segnalare l’ennesima capacità del sistema di travestirsi da alternativa.

Attorno a Mamdani — e in Italia attorno ai suoi epigoni movimentisti, gli intersezionali, i transnazionali, i moltitudinari di ritorno — si struttura il linguaggio di un progressismo autocelebrativo e spettatoriale. Un linguaggio che parla di pluralità, cura, coalizione e “resistenza gioiosa”, ma che non affronta in aperto contrasto la struttura del dominio: né l’imperialismo, né il capitalismo, né il colonialismo interno delle democrazie liberali.

Questa sinistra spettacolar-performativa ha bisogno di leader simbolici — Mamdani, Ocasio-Cortez e, anche più localmente, le relatrici speciali, gli influencer dei diritti umani e del clima, i predicatori di un’umanità condivisa — perché ha perso la capacità di pensare la liberazione come conflitto reale.

Si affida alla retorica, alla scena, al like, al “tutti insieme”, ma non mette in discussione i presupposti stessi del potere che li autorizza a parlare.

Oltretutto, il pregresso e la proposta di Mamdani presentano non poche fragilità sul piano materiale nel contesto in cui sarà operativo.

Il neoeletto sindaco, va detto, ha un’esperienza legislativa limitata e una scarsa familiarità con la macchina esecutiva della città. In quasi cinque anni di mandato come parlamentare allo Stato di New York (Albany) ha prodotto pochissimi interventi di legge: un dato che pone interrogativi sulla sua capacità di governare una delle metropoli più complesse del mondo.

Il suo programma, molto apprezzabile sul piano dei princìpi — ad esempio, blocco dell’importo degli affitti, trasporti gratuiti, childcare universale —, richiede un’enorme capacità amministrativa e un potere fiscale che New York da sola non possiede. Molte di quelle leve dipendono proprio dal governo di Albany e da quello federale.

Per finanziare gli interventi sociali promessi, la città dovrà giocoforza ricorrere a prestiti obbligazionari; ma i gestori di quei titoli restano le stesse grandi case finanziarie che dominano la finanza municipale americana. Insomma, non è così impensabile immaginare uno scenario da socialità finanziarizzata: il welfare come prodotto derivato. E, dietro la promessa di giustizia redistributiva, continuerebbe così a operare la logica del debito e dell’interesse composto.

Il suo discorso di investitura nella notte — forte, lucido, perfino radicale contro la regressione tecnocapitalista, razzista e la destra trumpiana — non cancella il fatto che la sua vittoria è, perciò e prima di tutto, un effetto d’immagine.

Tutto questo — la mappa del voto, la retorica ebraico-liberale, la nuova sinistra performativa, un programma/immagine con molte promesse di rottura — nasce da una stessa rimozione: il 7 ottobre.

Quel giorno non è stato soltanto l’inizio della campagna genocida su Gaza, ma il crollo simbolico del monopolio morale dell’Occidente.

La resistenza palestinese, nella sua fermezza irriducibile, ha messo a nudo il doppio standard etico su cui poggia l’intero edificio del diritto liberale. E ancora oggi gran parte del “progressismo” occidentale parla del 7 ottobre con orrore morale, con la misura dello scandalo, non con quella della storia. In sostanza, rifiuta la resistenza in Palestina perché “terrorismo”, perché non corrispondente a un’idea di “liberazione accettabile”: controllata, omeopatica, pedagogica.

Quindi simbolica, non reale.

Mamdani, dunque, viene accolto come “nuova speranza”, dispositivo di compensazione di un’angoscia collettiva, perché riconsegna alla sinistra liberal la possibilità di essere morale senza essere rivoluzionaria, di essere antisionista senza essere decoloniale, di essere “dalla parte giusta” senza sporcarsi le mani. Sembra proprio la reincarnazione del paradosso Obama: il volto nuovo che fa respirare il vecchio ordine.

Un effetto di rinnovata impresa politica resa possibile anche dalla faglia aperta dal 7 ottobre: quella frattura geopolitica e simbolica che ha messo in crisi le coscienze globali.

Ma le faglie, se non si traducono in trasformazione reale, si richiudono.

E il rischio, molto concreto, che qui si paventa è proprio questo: che la forza produttiva del 7 ottobre venga neutralizzata dalla retorica del rinnovamento morale. Che l’onda di indignazione venga assorbita dal sistema che l’ha generata.

Il mondo progressista che si proclama “solidale, non complice” vive ormai professando una decolonialità sentimentale: una forma di solidarietà che si misura in coscienza, non in posizione.

Eppure la decolonizzazione non è un sentimento, ma una pratica di potere, e non può essere mediata dalle categorie morali dell’Occidente — né dalla sua colpa, né dal suo desiderio di redenzione.

Il rischio è che la vittoria di Mamdani, come quella di ogni “buon alleato”, serva a rassicurare l’impero sulla propria capacità di rigenerarsi moralmente: la stessa funzione che ebbe Obama.

Finché Gaza brucia, finché il 7 ottobre resterà un trauma morale e non un evento politico, ogni nuova sinistra che non sia radicalmente decoloniale non è che un restyling dell’ordine.

Ma, attenzione, il sistema liberal cerca di sopravvivere trasformando la vergogna in virtù, il pentimento in programma politico. E il progressismo occidentale, incapace di pensare la libertà fuori da sé, cerca nuovi santi laici — figure che gli consentano di superare Gaza e sentirsi comunque “dalla parte giusta”.

Zohran Mamdani, la sera prima del voto per le primarie democratiche che lo investirono come candidato ufficiale di partito per la poltrona di mayor, con l’astuzia elettorale del chiù pilu pe’ tutti, ebbe a dichiarare alla CBS, il suo proverbiale antisionismo riconoscendo a Israele il diritto di esistere:

“Yes, like all nations, I believe it [Israel] has a right to exist.”

Ecco, oltre il compiacimento per il successo elettorale, sia permesso di esprimere il beneficio del dubbio su cosa ne conseguirà.

Mamdani, a oggi, appare questo: la forma etica del privilegio che si reinventa come coscienza.

La sua ascesa è significativa non perché segni una vittoria della sinistra, ma perché rivela la disperazione morale dell’Occidente, che non sa più distinguere la liberazione dalla sua estetica.

Finché la resistenza palestinese verrà narrata come problema morale e non come diritto storico, ogni Mamdani del mondo resterà un sintomo, non una soluzione.

E ogni nuova sinistra, per quanto giovane e meticcia, resterà ancora dalla parte del potere che pretende di sfidare.

 

 

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