L’élite neocon, Trump e l’agenda delle prossime guerre USA

Come l’asse unipolare a guida USA potrebbe disporsi a rinnovare entro il 2030 l’offensiva contro la Russia, articolandola su tre fronti principali e tre secondari

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L’élite neocon, Trump e l’agenda delle prossime guerre USA

 

di Saverio Werther Pechar*

 

Si fa un gran parlare, negli ultimi anni, della cosiddetta «Agenda 2030»: tralasciandone le pur rilevanti implicazioni sanitarie, securitarie, ecologiche ecc., mi limiterò nella presente sede ad analizzarne la declinazione squisitamente bellica e bellicista. La vittoria elettorale di Donald Trump ha difatti ridestato gli entusiasmi di tutti coloro che confidano in una rapida risoluzione del conflitto ucraino e, in generale, nella fine delle «forever wars», con conseguente ripiegamento della proiezione imperiale di Washington a favore di un vagheggiato neo-isolazionismo. Senza voler sminuire a priori gli eventuali sforzi che il tycoon potrebbe profondere in direzione dell’auspicato obiettivo, urge tuttavia sottolineare come tale soluzione risulti tecnicamente irrealizzabile, in quanto in totale contrasto con l’effettiva configurazione del potere all’interno degli USA, configurazione che come noto prescinde, ed ha sempre prescisso, dalla volontà dei singoli presidenti. Analogamente al loro epigono israeliano, gli Stati Uniti presentano infatti sin dalla loro fondazione una carica di aggressività che risulta intrinseca ai loro stessi presupposti ideologico-culturali di derivazione religiosa (quindi ipso facto insopprimibile in assenza di una drastica messa in discussione di tali presupposti), e che può essere rivolta tanto verso l’esterno quanto verso l’interno. In parole povere, essi sono per così dire costretti a seminare continuamente il caos nel resto del pianeta per non sprofondare a loro volta nella guerra civile, esito inevitabile di un manicheismo che ha polarizzato il Paese in due schieramenti inconciliabili e l’un contro l’altro armati. Il sistema imperiale articolato attorno all’asse Washington-Londra-Tel Aviv non può perciò rinunciare alla guerra, pena non soltanto la sua dissoluzione come sistema imperiale, ma la sua vera e propria autodistruzione. Ed è da questa premessa che appare necessario muovere per analizzare la situazione attuale.

Le considerazioni appena esposte non risultano affatto inficiate dall’andamento non certo entusiasmante (se visto dalla prospettiva anglosassone) delle operazioni militari sui due principali teatri bellici del momento, vale a dire quello ucraino e quello mediorientale: al contrario, si potrebbe affermare che tanto più il sedicente Occidente cerca la guerra quanto più esso si dimostra incapace di combatterla, in quanto il declino innanzitutto cognitivo delle sue classi dirigenti impedisce loro sia di percepire questo stesso declino, sia di trarne le opportune conclusioni; di conseguenza, a dispetto di quanto accaduto negli ultimi due anni e mezzo, esse non hanno affatto rinunciato all’obiettivo di infliggere una sconfitta strategica alla Russia, obiettivo che appare ai loro occhi ancora perfettamente raggiungibile. Tuttavia, al momento di elaborare un piano d’azione funzionale a tale scopo, le stesse classi dirigenti mantengono intatta la loro storica capacità di identificare e sfruttare i punti deboli dell’avversario: l’irrazionalità si riscontra pertanto nei fini, ma non nei mezzi.

Nel contesto appena delineato appare quindi possibile ravvisare nella seconda presidenza Trump addirittura un‘opportunità per l’élite neocon che detiene il potere a Washington, in quanto un’ipotetica pausa nei combattimenti sul fronte ucraino apporterebbe in questo momento notevoli benefici al regime di Zelens’kij, che avrebbe così la possibilità di riparare le infrastrutture energetiche grevemente danneggiate dai recenti bombardamenti e di rifornire di nuova carne di cannone (magari abbassando a 18 anni l’età del servizio militare, come chiedono con sempre maggiore insistenza i tutori britannici) le proprie forze armate, in ritirata da più di un anno e falcidiate da perdite e diserzioni. Anche un’eventuale cessione dei territori contesi (secondo la vecchia formula dello «spazio in cambio di tempo») potrebbe in questa prospettiva essere interpretata come un’esca gettata al Cremlino, confidando nella nota propensione di Putin al dialogo ed al compromesso, per preparare con calma la “rivincita”, attingendo nel frattempo ad un rinnovato flusso di materiale bellico di provenienza occidentale. Nel frattempo, il riarmo imposto ai membri subalterni del Patto Atlantico inizierebbe a dare i suoi frutti, traducibili nel previsto superamento quantitativo della produzione russa di munizioni attorno al 2029, che è casualmente anche l’anno in cui il Partito Democratico (habitat privilegiato dei neocon in questo particolare periodo storico) potrebbe ambire a riconquistare la Casa Bianca, qualora esso fosse in grado di individuare all’interno delle sue file un candidato meno impresentabile di quelli partoriti nelle ultime tre elezioni. Rientrerebbe in tale ottica anche la recente riesumazione in sede UE di Mario Draghi, un personaggio tanto culturalmente ed intellettivamente limitato (esilarante la facilità con cui si è lasciato turlupinare da Mattarella nella corsa per il Quirinale del 2022) quanto ferocemente guerrafondaio, autentica incarnazione del burocrate di Bruxelles al pari della sua compagna di merende Ursula von der Leyen.

Congelato provvisoriamente il conflitto nel Donbass al prezzo di modeste concessioni territoriali in aree del resto già in massima parte sottratte alla sovranità ucraina, spremuto al massimo il contribuente europeo mediante l’innalzamento della spesa militare ben al di sopra del 2% del bilancio, ricostruita una parvenza di industria militare (in questo caso l’ostacolo maggiore risiede specie in Italia nell’assenza di manodopera qualificata, conseguenza a sua volta tanto della deindustrializzazione quanto della distruzione a colpi di riforme del sistema scolastico ed universitario negli ultimi 30 anni) e riequipaggiato il malconcio esercito di Kiev, l’asse unipolare potrebbe a questo punto disporsi a rinnovare proprio nel 2030 l’offensiva contro la Russia, articolandola su tre fronti principali e tre secondari (ai quali potrebbero verosimilmente aggiungersi la Corea, le isole Curili e soprattutto l’Artico, specie in prospettiva del cosiddetto «Project 2029», ovvero l’ipotesi, recentemente ventilata proprio su queste pagine, di acquisizione entro - guarda caso - il 2029 della Groenlandia da parte degli USA), di agevole visualizzazione tramite l’ausilio di una carta geografica:

1) Il teatro baltico. In seguito all’ingresso dei rimanenti Paesi scandinavi nell’Alleanza Atlantica, Il Mar Baltico si è definitivamente trasformato in un “lago NATO”, caratterizzato per di più dalla presenza di Stati dominati da una russofobia isterica quali Polonia, Estonia, Lettonia e Lituania; in un simile contesto, il controllo nemico su entrambe le sponde del Golfo di Finlandia, riproposizione di un incubo strategico che non si materializzava dall’epoca di Carlo XII di Svezia (e che Stalin era stato abile a neutralizzare nel 1939-1940, seppur pagandone un prezzo piuttosto elevato in termini di reputazione) costituisce per San Pietroburgo e per la grande base navale di Kronštadt una minaccia dalle connotazioni addirittura esistenziali, in quanto in caso di conflitto ogni accesso al mare verrebbe facilmente bloccato dalla flotta avversaria. Ancora più precaria appare poi la situazione del secondo porto russo sul Baltico, Kaliningrad, situato all’interno di un’exclave separata dalla madrepatria e completamente circondata da Paesi ostili (nella fattispecie, Polonia e Lituania), mentre le comunicazioni marittime con l’ex Leningrado saranno a breve ulteriormente ostacolate dalla già avviata costruzione di una grande base statunitense sull’isola svedese di Gotland.

2) Il teatro ucraino. Anche un’Ucraina ridimensionata ed amputata delle sue regioni sud-orientali, qualora permanesse sotto il saldo controllo anglosassone (come è probabile, dato che la sbandierata “denazificazione” del Paese richiederebbe la sua totale occupazione, un compito gravoso di cui il Cremlino non sembra avere nessuna intenzione di farsi carico), potrebbe ancora tornare utile, sia per un “secondo tempo” delle ostilità, sia attraverso un sempre possibile ingresso a sorpresa nell’Alleanza Atlantica condito dall’installazione sul suo territorio di batterie missilistiche puntate su Mosca (possibilmente nell’Oblast’ di Sumi, la più vicina alla Capitale russa ed al contempo una delle meno disputate in termini di sovranità). È altresì importante rimarcare come il sistema dei trasporti locale risulti in via di rapida integrazione con quello della controparte occidentale, plastica dimostrazione di come l’assorbimento del Paese nella sfera di influenza imperiale venga ritenuto oramai irreversibile: in particolare, procede a ritmo serrato la costruzione da parte di imprese spagnole di un ramo ferroviario a scartamento ordinario (1435 mm, quindi incompatibile con i 1520 mm che caratterizzano la vecchia rete sovietica) lungo la direttrice Záhony/?ierna nad Tisou-?op-Užgorod, con successivo prolungamento fino a Leopoli ed a Kiev; tutto ciò allo scopo di velocizzare il pianificato trasferimento di truppe ed attrezzature militari dall’Unione Europea al fronte ucraino.

3) Il teatro caucasico. Qui la sconfitta elettorale della fazione filo-anglosassone nelle recenti elezioni georgiane è stata vissuta dagli Stati Uniti più come un incidente di percorso che non come una reale battuta d’arresto, mantenendo essi invariata la formidabile potenza di fuoco rappresentata dalle migliaia di ONG a libro paga del Dipartimento di Stato e di altri enti paragovernativi quali USAID ecc., in grado di “influenzare” (a suon di quattrini) l’opinione pubblica ed i centri di potere locali. Inutile dire che l’ennesima rivoluzione colorata a Tbilisi sarebbe finalizzata alla riapertura delle ostilità in Abcasia ed Ossezia del Sud, regioni secessioniste formalmente sotto sovranità georgiana ma de facto indipendenti e legate alla Russia, che vedrebbe in questo modo aprirsi un “terzo fronte” sul suo sempre vulnerabile fianco meridionale. Si noti, en passant, come dietro le recenti proteste a Suchumi sia facilmente individuabile un ulteriore tentativo di destabilizzazione operato dai soliti noti.

Di seguito elencherò invece i tre focolai secondari, così definiti in quanto non direttamente a ridosso delle frontiere russe:

4) Il teatro balcanico. In quest’area un antico e fedele alleato di Mosca come la Serbia si trova completamente circondato da Stati membri della NATO (se si esclude la Bosnia-Erzegovina, entità-fantoccio sotto occupazione militare permanente da parte delle truppe dell’UE), che adottano da anni (con la parziale eccezione dell’Ungheria) una strategia di lento soffocamento economico dell’orgoglioso vicino, sinora mostratosi indisponibile a sottomettersi ai diktat di Washington e Bruxelles; sopra Belgrado pende tuttavia la spada di Damocle costituita dal Kosovo, ove la locale minoranza serba subisce da venticinque anni ad opera delle pseudo-autorità albanesi e dei gruppi paramilitari e terroristici ad esse associati un’oppressione che assume sempre più le caratteristiche del genocidio e che pone con intensità crescente il governo di Vu?i? di fronte al terribile dilemma tra l’abbandono dei propri concittadini allo sterminio ed un intervento militare che comporterebbe automaticamente la reazione dell’Alleanza Atlantica e la conseguente distruzione del Paese.

5) Il teatro moldavo. In seguito ai recenti successi riportati nelle elezioni presidenziali e nel contestuale referendum sull’adesione all’Unione Europea (entrambi ottenuti tramite la sistematica falsificazione dei risultati dei collegi elettorali esteri, secondo una tecnica ormai ampiamente collaudata) dalla fidata esecutrice delle direttive statunitensi nonché cittadina rumena Maia Sandu, le prospettive per la repubblica secessionista di Transnistria (a maggioranza russa) e per la regione autonoma della Gagauzia (turcofona e russofila) si sono fatte ancora meno rosee, dato il totale allineamento del governo di Chi?inau al blocco euro-atlantico e l’identità di vedute tra la presidentessa e Zelens’kij; in tale cornice, la presenza a Tiraspol’ di un contingente di circa 1500 soldati della Federazione  non rappresenta affatto un deterrente credibile, in quanto esso non sarebbe certamente in grado di resistere ad un’eventuale attacco congiunto moldavo-ucraino, trovandosi interamente circondato all’interno di un territorio privo di qualsiasi profondità strategica.

6) Il teatro siriano. Per una trattazione estensiva della non invidiabile situazione in cui versava la defunta Repubblica Araba si rimanda ad un mio precedente articolo pubblicato su questa stessa testata; nella presente sede mi limiterò ad aggiungere che, a dispetto dell’attuale tendenza a denigrare l’esercito di Assad evidenziata dai corrispondenti militari russi, la responsabilità del crollo delle difese del Paese (crollo che può tranquillamente essere definito la più grande catastrofe degli ultimi 35 anni, comportando con ogni probabilità la distruzione dell’asse della Resistenza e la conseguente liquidazione della Siria e del Libano come Stati e dei palestinesi come popolo) ricade in ultima analisi sul Cremlino, che ha sempre impedito l’eliminazione delle residue milizie islamiste rintanatesi ad Idlib nel perenne tentativo di ingraziarsi un autentico giuda come Erdo?an. Per sommare al danno la beffa, le bande di tagliagole salite in questi giorni al potere a Damasco sfoggiano ostentatamente distintivi militari ucraini, mentre le forze armate israeliane bombardano senza pietà l’intero territorio e dilagano nel Golan, spingendosi fino alla periferia della Capitale senza incontrare alcuna resistenza.

È importante sottolineare come i primi tre teatri operativi appena elencati rivestano un’importanza assolutamente capitale per la Russia, che potrebbe tuttavia far fronte ad eventuali minacce provenienti da tali direzioni con il solo ausilio di mezzi convenzionali, come del resto ampiamente dimostrato da quasi tre anni di combattimenti sul fronte del Donbass (nonché dal breve conflitto georgiano del 2008); al contrario, nell’eventualità di un attacco su larga scala ad opera della NATO a ranghi completi (ovvero Turchia inclusa) e di Israele, Serbia, Transnistria e Siria risulterebbero nei fatti indifendibili se non attraverso l’utilizzo di armi nucleari. Ed è proprio sulla supposta mancanza di volontà da parte di Putin di scatenare la terza guerra mondiale per difendere territori che non fanno formalmente parte della Federazione che scommette l’élite euro-atlantica al potere, ben consapevole che qualora tale calcolo azzardato si rivelasse corretto i danni strategici e reputazionali per il Cremlino apparirebbero tali da far ritornare le lancette della storia indietro di svariati anni, con conseguente affossamento di tutti  i progetti di edificazione di un nuovo ordine multipolare, facendo questi ultimi sostanzialmente perno sulla credibilità di Mosca quale ostacolo ai piani egemonici di Washington. Qualora il cosiddetto Occidente si spingesse fino al punto di ritenere l’opzione atomica russa un bluff tout court, esso potrebbe inoltre elaborare un piano di offensiva generale articolata contemporaneamente su tutti e sei i fronti precedentemente descritti, calibrando attentamente i mezzi impiegati in maniera tale da non provocare una riposta “eccessiva” (vale a dire indirizzata a colpire direttamente i centri di potere nemici) da parte russa; dopotutto, l’evoluzione del conflitto ucraino a partire dal febbraio 2022 è stata contraddistinta proprio da un’escalation controllata i cui tempi e modi sono stati dettati esclusivamente da USA e UK tramite il graduale incremento quantitativo e qualitativo dell’assistenza militare al regime di Kiev, fornendo sistemi missilistici di portata sempre più ampia ed infrangendo una dopo l’altra tutte le presunte “linee rosse” di Putin, che da parte sua si è sempre attentamente guardato dal reagire in maniera simmetrica, dando così adito ai sui avversari di ritenere la propria impunità un dato ormai acquisito ed immutabile nel tempo. Ragioni di elementare prudenza, condite da esigenze diplomatiche e di immagine, inviterebbero ovviamente l’asse unipolare ad astenersi dal mettere in atto dall’oggi al domani una vera e propria invasione della Federazione; il casus belli potrebbe però essere gentilmente fornito dalle foltissime comunità di etnia russa presenti un po’ ovunque nello spazio post-sovietico (frutto delle modalità dissennate attraverso le quali ebbe luogo la spartizione dell’URSS, che comportarono l’abbandono di più di 20 milioni di russi al di là delle nuove frontiere della madrepatria) ed in particolare in Estonia e Lettonia, ove esse si attestano attorno al 25% della popolazione totale: in entrambi i Paesi la riduzione delle minoranze slave alla stregua di cittadini di serie B, già delineata a partire dal 1991, è stata accompagnata negli ultimi tre anni da misure di vera e propria persecuzione (poste zelantemente in atto da autorità locali dalle manifeste simpatie naziste), che su input di Washington e Londra potrebbero rapidamente generalizzarsi e radicalizzarsi ad un punto tale da rendere inevitabile l’intervento di Mosca a tutela dei propri concittadini (obbligo costituzionale per il presidente della Russia), in maniera analoga a quanto avvenuto in Donbass nel 2022. Inutile sottolineare come tale mossa comporterebbe automaticamente un conflitto aperto tra la NATO (della quale le due Repubbliche baltiche costituiscono parte integrante) e la Federazione, e come quest’ultima verrebbe ancora una volta dipinta come aggressore dai principali media internazionali, tutti sotto ferreo controllo anglosassone.

Tirando le somme, quella che sembra prospettarsi è una strategia di aggressione globale a media intensità e di lunga durata posta in atto dal sedicente Occidente con l’obiettivo di indebolire gradualmente la Russia tramite il solo utilizzo di armamenti convenzionali, confidando nella propria superiorità quantitativa (quella qualitativa, se mai esistita, è oramai solo un lontano ricordo) in tale campo e sulla presenza di un serbatoio inesauribile di “carne da cannone” da sacrificare per consentire a statunitensi e britannici di preservare il proprio (scarso) potenziale in termini di soldati evitando perdite inutili, sulla falsariga di quanto accaduto durante il secondo conflitto mondiale. Posta di fronte al conseguente dilemma, Mosca avrebbe di fronte a sé soltanto due strade: la nuclearizzazione dell’avversario oppure l’accettazione della sfida secondo le regole dettate dallo sfidante. Nel primo caso ben poco rimarrebbe da aggiungere (e forse da vivere), mentre il secondo rappresenta di fatto una replica di quanto avvenuto nel 1941; ed è proprio da quell’esempio vittorioso di lotta per la sopravvivenza che la leadership del Cremlino dovrebbe trarre le opportune contromisure, sia in termini di mobilitazione totale e creazione di una vera economia di guerra, sia in termini di alleanze. Allo stato attuale, gli unici Paesi al mondo che, coniugando sovranità politica e capacità industriale, potrebbero apportare un contributo significativo allo sforzo bellico russo nell’eventualità di una conflagrazione planetaria sono difatti costituiti da Iran, Corea del Nord e Cina; dei tre, i primi due si sono già notevolmente prodigati in aiuti nel corso della cosiddetta Operazione Militare Speciale (stipulando entrambi un’alleanza militare formale con la Federazione e fornendole rispettivamente i micidiali droni suicidi Shahed ed un’enorme quantità di proiettili di artiglieria calibro 155 accompagnati ultimamente anche da cannoni M-1989 Koksan, nonostante la stessa Federazione continui incredibilmente a mantenere in vigore le sanzioni irrogate dall’Onu a Pyongyang), in stridente contrasto con la salomonica neutralità ostentata sinora da Pechino a dispetto delle sue sterminate risorse. Sul piano strettamente strategico, l’aiuto più significativo che l’ex Celeste Impero potrebbe apportare al suo vicino settentrionale risiederebbe naturalmente nell’apertura del “secondo fronte” (o terzo, prendendo in considerazione anche quello mediorientale) taiwanese, che drenerebbe buona parte delle non inesauribili risorse statunitensi attualmente convogliate sugli altri teatri; riappropriandosi della ricca regione secessionista, la Cina prenderebbe inoltre come si suol dire due piccioni con una fava, procurando alle proprie forze armate l’inestimabile esperienza rappresentata da una campagna militare in grande stile senza al contempo rinunciare al proprio storico ruolo di baluardo del rispetto della sovranità altrui (non costituendo appunto l’ex Formosa uno stato indipendente ma soltanto una provincia ribelle, per di più sotto il controllo di una potenza straniera). La politica di Xi Jinping, nel solco di quella dei suoi predecessori, appare al contrario improntata ai tempi lunghi di una futura quanto ipotetica riunificazione pacifica dell’isola alla madrepatria, nell’ambito della politica denominata «un Paese, due sistemi» già applicata con risultati altalenanti al caso dell’ex dipendenza britannica di Hong Kong. Attenendosi a tale linea, la leadership della Repubblica Popolare non sembra però tenere nella dovuta considerazione due aspetti fondamentali: il primo è legato alla storia recente di Taiwan, indipendente de facto dal 1949 ed in precedenza colonia giapponese per ben 50 anni (dal 1895 al 1945), quindi di fatto lontana dall’orbita di Pechino da quasi 130 anni; in un contesto del genere, un processo di nation building eterodiretto (ovviamente dagli USA) analogo a quanto verificatosi in tempi recenti ad esempio in Montenegro potrebbe portare la popolazione locale, ed in maniera particolare le giovani generazioni, a non considerarsi più parte del popolo cinese, con conseguenze deleterie per qualsiasi progetto di riunificazione. Il secondo deriva invece a parere di chi scrive dalla mancata comprensione della centralità assoluta dell’aspetto intimidatorio nella credibilità degli attori internazionali: una grande potenza è cioè percepita come tale solo ed esclusivamente se appare in condizione di affiancare al suo potere economico ed alla pervasività del suo messaggio ideologico la capacità di incutere timore, capacità a sua volta derivante dall’attitudine ad utilizzare la forza ogniqualvolta essa lo ritenga funzionale al raggiungimento dei propri scopi; senza scomodare il principe di Machiavelli, la quintessenza di tale assioma è incarnata dagli Stati Uniti d’America, rispettati e temuti in tutto il globo proprio per non aver mai esitato a fare uso, nel perseguimento dei propri interessi, della violenza più brutale, rivolta indifferentemente contro amici e nemici (attualizzando il celebre enunciato di von Clausewitz, si potrebbe affermare che la guerra abbia costituito la politica per eccellenza di Washington, o in alternativa che tale politica si sia letteralmente identificata con la guerra). Tracciando un parallelo storico con quanto avvenuto nel 1898 con il conflitto ispano-americano, si può perciò affermare che per assurgere all’Olimpo delle grandi potenze la Cina abbia bisogno di una guerra in grado di forgiare il suo strumento militare, inattivo dal 1979 (quando Deng Xiaoping decise di invadere il Vietnam al solo scopo di danneggiare il prestigio dell’Unione Sovietica, nel quadro di una deleteria alleanza sino-statunitense rimasta in vigore fino al 1989 e che ha comportato tra le altre cose il sostegno morale e materiale di Pechino ai Mujaheddin “afgani” capeggiati dal miliardario saudita nonché collaboratore della CIA Osama bin Laden, primo impiego operativo della “legione internazionale islamista” a guida anglosassone che ha successivamente imperversato in Bosnia-Erzegovina, Cecenia, Libia e Siria, macchiandosi delle peggiori efferatezze), sino a renderlo un’arma credibile, in quanto anche l’esercito più numeroso ed equipaggiato del mondo, se privo di reale esperienza di combattimento, rappresenta nient’altro che una «tigre di carta». Qualora si consideri poi la niente affatto remota possibilità che la riconquista di Taiwan comporti lo scontro diretto con gli USA, emerge in tutta la sua portata la mancanza di tempismo evidenziata dalla dirigenza del Partito Comunista Cinese ad ottobre dello scorso anno, quando le forze armate della Repubblica Popolare avrebbero avuto l’occasione (forse irripetibile nel breve periodo) di affrontare un nemico gravemente indebolito dalla necessità di prestare contemporaneamente assistenza militare all’Ucraina e ad Israele, con conseguente sovraestensione e sovraccarico del proprio sistema logistico.

L’evidente mancanza di volontà da parte dei suoi protagonisti di istituire un fronte unico in funzione anti-occidentale che renda possibile il coordinamento delle loro iniziative militari costituisce del resto la maggiore debolezza dell’eterogenea coalizione multipolare, specie se raffrontato alla sincronizzazione puntualmente riscontabile nelle azioni dell’avversario: a titolo di esempio si possono citare da un lato la diffidenza reciproca tra Hamas e Hezbollah (elemento determinante nella mancata effettuazione di un attacco a tenaglia dalle conseguenze potenzialmente catastrofiche per Israele il 7 ottobre 2023), dall’altro la perfetta coincidenza temporale tra l’entrata in vigore del cessate il fuoco in Libano e l’offensiva scatenata dalle milizie terroristiche filoturche in direzione di Aleppo (che ha sancito tra le altre cose il definitivo ritorno all’ovile NATO di Erdo?an, dopo i “giri di valzer” con Putin), a riprova di come la suddetta tregua, in assenza di un analogo accordo a Gaza, si sia rivelata nei fatti dannosa per il fu asse della Resistenza, in quanto ha permesso allo Stato ebraico di trarre profitto dal disimpegno dal fronte settentrionale (dove per l’ennesima volta l’IDF si è rotta i denti, avendo registrato la perdita di un numero di soldati superiore a quello della già fallimentare campagna del 2006 unita alla distruzione di ben 59 carri armati Merkava in meno di due mesi di combattimenti) per rivolgere la sua aggressività altrove, chiudendo definitivamente la partita con Damasco; in altre parole l’entità sionista, confermatasi incapace di sconfiggere Hezbollah sul campo di battaglia, tenta ora di liquidarlo in maniera indiretta disseccandone le fonti di approvvigionamento a cavallo della direttrice Iran-Iraq-Siria, come evidenziato anche dal bombardamento operato dall’aviazione israeliana di tutti i valichi frontalieri tra il «Paese dei cedri» e l’ex Repubblica Araba nel giorno precedente la sospensione delle ostilità (ostilità che potrebbero in ogni caso riprendere a breve). Appare addirittura superfluo sottolineare le ripercussioni nefaste che la caduta di quest’ultima in mano alle milizie islamiste manovrate dalla triade Washington-Londra-Tel Aviv comporta anche per Mosca (che si vedrà molto probabilmente costretta ad abbandonare le basi di Tartus e Hmeimim, con conseguente estromissione in un solo colpo dal Medio Oriente e dal Mediterraneo e compromissione della propria logistica nell’intera Africa), ulteriore dimostrazione della miopia insita nel voler pervicacemente considerare i vari focolai di conflitto attivi sul pianeta come fenomeni a sé stanti anziché strettamente interdipendenti in quanto elementi costitutivi del medesimo scacchiere globale; d’altro canto, dietro l’apparentemente incomprensibile scelta operata dalla formazione sciita libanese si può leggere in controluce la riduzione del vitale sostegno apportatole dalla Repubblica Islamica, conseguenza a sua volta del “cambio della guardia” a Teheran e del ritorno al potere (favorito dall’assassinio del presidente Raisi) della potente fazione filo-statunitense. Naturalmente, vi sarebbe anche da aggiungere che l’armonizzazione ed il contemperamento delle rispettive politiche estere in direzione del perseguimento di obiettivi comuni risulta incomparabilmente meno agevole per degli Stati sovrani o degli attori quasi-statali indipendenti rispetto ad una struttura imperiale rigidamente ordinata in senso gerarchico, nella quale le decisioni del vertice si traducono immediatamente in disposizioni operative per la base.

Riallacciandosi a questo punto al discorso iniziale, per le tutte le ragioni testé esposte appare irragionevole attendersi che, in caso di guerra aperta tra l’Alleanza Atlantica e la Federazione, gli alleati veri o presunti di quest’ultima, ed in particolare la Cina, si schierino apertamente al suo fianco intervenendo direttamente nella contesa; in mancanza di meglio, potrebbe invece rivelarsi utile una rielaborazione in chiave multipolare della celebre «legge affitti e prestiti» che permettesse a Pechino di sostenere materialmente e finanziariamente lo sforzo bellico di Mosca, auspicando al contempo che, in omaggio alla peculiare concezione anglosassone dell’uguaglianza come equivalenza aritmetica tra diversi, nel prossimo futuro i comandanti delle forze armate afferenti al campo occidentale non siano più selezionati secondo criteri di competenza e capacità, ma in base all’appartenenza ad una delle numerose e variopinte “minoranze” nelle quali, sempre secondo tale tendenza culturale ormai egemone, si articolerebbe la società. Ciò schiuderebbe alla Russia discrete possibilità di successo, a patto che Putin decida finalmente di sbarazzarsi dell’«inaffondabile» Gerasimov.


* Geografo, storico e segretario della sezione di Roma dell'AICVAS (Associazione Italiana Combattenti Volontari Antifascisti di Spagna), 

 

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