L'attrice Dalal Suleiman a l'AD: "Con il teatro e il silenzio la mia battaglia per la Palestina"
di Giulia Bertotto per L’AntiDiplomatico
Dalal Suleiman, attrice di teatro, ballerina e doppiatrice, è nata a Napoli ma ha radici palestinesi, oggi è anche attivista per l’autodeterminazione del popolo palestinese. L’abbiamo vista di recente fare dimostrazioni collettive davanti ai negozi del marchio Zara e Mc Donald’s, “sostenitori del governo israeliano e complici del genocidio in atto” come ha scritto sui suoi canali social. Può essere difficile oggi prendere queste posizioni, si rischia di essere scartati dai registi oppure di essere additati come filo-terrorista a causa della propaganda diffamante...
Dalal, il teatro la ha ulteriormente avvicinata alla causa palestinese, che non ha mai perso di vista, ma che ha conosciuto con maggiore profondità emotiva e consapevolezza crescendo.
Sì. Ho iniziato a fare teatro più di vent’anni fa e con mio padre Omar abbiamo messo su un laboratorio di teatro palestinese studiando un testo del giornalista e scrittore Kanafani e così io mi sono riavvicinata alla questione della mia terra e anche a mio padre. Papà, forse per pudore del dolore o per il male che gli faceva, non ha mai parlato molto né con me né con mio fratello di quello che ha vissuto. Ho iniziato a studiare l’arabo e a vent’anni sono stata in Palestina da sola, a Ramallah, Gerusalemme e Nisf Jibil, il villaggio di papà, anche per andare a trovare mia nonna. Questa esperienza di viaggio fisico ma anche di viaggio interiore è avvenuta anche grazie a mia madre. Con mio padre abbiamo portato in scena uno spettacolo molto coinvolgente, “Mi chiamo Omar”: lui cucina in scena mentre dietro ci sono ombre di ricordi e suggestioni di famiglia, è molto intimo. Gli spettatori sono ospiti invitati a cena, vengono accolti sul palco e immersi nella scena, resa calda e accogliente dalle musiche arabe, dagli odori vaporosi dei cibi e dalla voce narrante. È ambientato in un antico villaggio della Palestina ma non c’è violenza nello spettacolo, c’è malinconia. Viene mostrata una vita quotidiana lenta e primordiale, da guardare e ascoltare, per uscire dalla convinzione che il proprio stile di vita frenetico e alienante sia l'unico mondo possibile.
Tra le recenti iniziative alle quali ha partecipato c’è la mostra fotografica “Cultura Resistenza contro l’oblio” alla Casa Internazionale delle Donne a Roma, con immagini di Nastassia e Susan Isawi e opere dell’artista di Gaza Yasmine Jarba. Crede che l’arte possa arrivare dove la politica non può accedere e che possa unire per una causa invece di dividere per una ideologia?
La politica è fatta per creare partiti, cioè divisioni, l’arte nasce per creare empatia ovvero unione. Gaza è al di là delle ideologie, per questo nei flashmob davanti a Zara e al Mc Donald’s siamo stati in silenzio. Il silenzio ha qualcosa in comune con la creatività, è potente come la poesia in un momento in cui tutti sbracciano e gridano. Per questo abbiamo letto anche delle poesie del magnifico poeta palestinese Mahmood Darwish. Voglio aggiungere che in un certo senso sono un’attrice “timida”, e forse è il motivo per cui ho scelto il teatro. Non sono disinvolta con un megafono in mano e non parlerei mai ad una conferenza, ma in questi flashmob sapevo che dovevo esserci. Al dolore per lo strazio del popolo a cui appartengo in qualche modo anche io, si aggiunge il senso d’impotenza e forse anche una sorta di senso di colpa per non essere lì, per essere viva, mista a gratitudine.
Il massacro del popolo palestinese è innanzitutto mediatico, ad esempio quando viene definito guerra, come se ci fossero due eserciti ufficiali a fronteggiarsi. Il potere dei mezzi di informazione può fomentare la violenza o può fermarla, o almeno frenarla.
Gli arresti arbitrati, le violenze quotidiane, il saccheggio delle risorse, gli accessi interdetti al suolo e ai servizi sono soprusi che avvengono da 75 anni, ma i riflettori televisivi si erano spenti sulla Palestina. Credo che i social siano strumenti rischiosi perché incitano alla critica immediata e a prendere posizione senza saperne abbastanza, eppure hanno il merito di offrire una pluralità di contenuti che non troviamo in Tv e neppure in Radio. I telegiornali poi ci raccontano sempre e solo di chi muore, ma i palestinesi sono anche un popolo vivo, orgoglioso, pieno di risorse e speranze. Noto un lieve ma importante cambiamento nelle coscienze: nelle prime settimane successive al 7 ottobre dichiararsi a difesa dei palestinesi come popolo oppresso significava essere linciati a livello della comunicazione. Adesso è diverso e anche se l’opinione pubblica è molto umorale c’è una solida consapevolezza dell’ingiustizia in atto.
Nel suo curriculum vediamo elencate non solo le lingue, ma anche i dialetti, napoletano e siciliano, che lei conosce. Non è esclusivamente una abilità professionale per un’attrice, ma una scelta culturale: perché è importante tutelare le forme di linguaggio comunitarie locali?
Il mio primo insegnante di teatro, Carlo Cerciello, autore de “Il cielo di Palestina”, maestro di teatro sociale e politico, mi diceva di fare dizione, di curare un italiano impeccabile, ma senza mai dimenticare il dialetto, fuori dal teatro non bisogna perdere la cadenza. In questo mondo globalizzato è sempre più prezioso conoscere usanze e lingue locali. La Sicilia è la mia passione, è musica! Napoli è una città da sempre attenta e vicinissima alla causa palestinese, non passa una settimana senza un evento di sensibilizzazione, i muri dei rioni gridano basta al genocidio.
Quali sono i suoi prossimi progetti?
Il 9 marzo a Roma ci sarà una serata di raccolta fondi alla Città dell’altra Economia di Testaccio, organizzata con Rania Hammad e Nasmia Mallah. Spero che i lettori possano tenersi informati sull’evento, presto avremo notizie più precise. Sto anche preparando un monologo tratto da “Il dettaglio minore” di Adania Shibli, autrice palestinese a cui è stata negata la consegna del premio a Francoforte. Nella mia rivisitazione un’attrice studia ciò che narra il libro: la storia atroce di una ragazzina beduina violentata e uccisa da un gruppo di soldati. Alcuni decenni dopo una giornalista vuole fare luce su questa storia. L’attrice studia l’inchiesta della reporter sulla bambina, tre donne una dentro l’altra, tutte legate. Perché tutti siamo legati al destino degli altri.
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