La nuova "dissidenza" che indossa orologi svizzeri
di Loretta Napoleoni per l'AntiDiplomatico
In Canada vincono i liberal guidati da Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra, difensore del programma verde e critico della politica di Donald Trump, e subito si parla di esodo dei milionari conservatori. Che succede?
Esiste un nuovo tipo di dissidenza in circolazione. Ma non si trova nei campi profughi, né tra gli attivisti incarcerati per aver difeso la libertà d’espressione. No. La nuova “dissidenza” indossa orologi svizzeri, vola in jet privati e si rifugia in paradisi fiscali. È la dissidenza dei ricchi, degli ipermobili, di coloro che possono permettersi di dire: questa democrazia non fa per me, cambio Paese.
In Canada, un recente sondaggio di Arton Capital prima della vittoria di Carey rivelava che il 34% dei milionari che hanno votato per i Conservatori è più incline a lasciare il Paese se i Liberali resteranno al potere. A muoverli non sono persecuzioni, guerre o carestie, ma la prospettiva di un aumento delle tasse, di una maggiore regolazione statale e di una leadership politica distante dal loro sistema valoriale. In altre parole, il disagio è ideologico… ma solo finché tocca il portafoglio.
Negli Stati Uniti la scena è simile ma più spettacolare, com'è nello stile americano. Dopo la rielezione di Donald Trump nel 2024, una serie di celebrità di Hollywood ha lasciato il Paese. Eva Longoria ha parlato di “un’America distopica”, Ellen DeGeneres ha venduto le sue ville e si è trasferita nella campagna inglese, Richard Gere si è stabilito in Spagna con la famiglia, e Rosie O’Donnell ha portato la figlia in Irlanda. Tutti accomunati dallo stesso messaggio implicito: possiamo permetterci di andarcene.
Ma cosa rappresenta realmente questa “fuga dei ricchi”? Semplicemente questo: una forma di rifiuto della democrazia mascherata da scelta personale. Il voto, in teoria, è l’arma del cittadino. Ma per chi detiene ricchezza, esiste un’arma più potente: la mobilità. L’élite globale ha costruito un sistema che permette di sganciarsi dalla realtà politica locale con un clic — vendere una villa, spostare fondi, aprire una nuova residenza fiscale. In questo senso, la ricchezza diventa uno scudo contro la volontà popolare.
Non è un fenomeno nuovo. Lo abbiamo già visto in Cile, con l’elezione di Salvador Allende: l’alta borghesia fuggì e dirottò capitali all’estero. In Grecia, con Syriza al potere, le élite minacciarono il collasso del sistema bancario e riuscirono in parte a pilotare le scelte del governo. Più recentemente, con l’ascesa di governi di sinistra in America Latina, come in Bolivia o Colombia, si è assistito alla stessa dinamica: il capitale non resta mai a farsi tassare in silenzio.
Ciò che accomuna questi casi è l’idea che la democrazia debba piegarsi all’interesse economico. Se non lo fa, viene semplicemente aggirata. Le regole del gioco non valgono più. Anzi, il gioco stesso viene abbandonato.
Il risultato è una pericolosa asimmetria. La classe media e i ceti popolari restano, votano, discutono, lottano per migliorare le cose. I ricchi, invece, voltano le spalle. Per loro la democrazia è una convenzione, non un valore. È una strategia di governance, non un impegno collettivo.
È così che si consuma una delle più profonde crisi del nostro tempo: la disconnessione tra ricchezza e responsabilità civica. I ricchi non vogliono più partecipare al patto democratico. Vogliono consumare il potere, ma non accettarne i limiti. E quando i limiti si fanno sentire, scelgono l’esilio volontario.
Ma un sistema in cui i più privilegiati non si sentono più parte della comunità politica è un sistema che si avvia verso la post-democrazia. Dove il potere economico detta le regole e la cittadinanza diventa una variabile opzionale. Dove i poveri lottano per i propri diritti, e i ricchi… per il proprio diritto a non partecipare.