Il piano di Trump: un tozzo di pane al posto della terra
Dialogo immaginario tra Frantz Fanon e Ghassan Kanafani
di Pasquale Liguori
Una stanza nuda. Sul tavolo un fascicolo, il “piano”. Fuori, il mare, un rumore costante di onde e macerie. I due parlano con calma, ma ogni parola pesa come pietra. La rabbia è diventata lucidità tagliente.
Fanon: Sai cosa mi colpisce subito? Le parole. “Transizione tecnocratica”, “comitato apolitico”, “zona deradicalizzata”. È il linguaggio del colonizzatore quando vuole far passare un volgare commissariamento coloniale per atto di cura. È sospendere la sovranità, espropriare la politica, ridurre un popolo a oggetto amministrato.
Kanafani: Esatto. È lo stesso vecchio mandato coloniale, solo con un marchio aggiornato. Il popolo trasformato in “utenza”, la sua autodeterminazione degradata a nota a margine di un fascicolo. Moduli, protocolli, procedure: ti lasciano i servizi, ma ti rubano i fini.
Fanon: E questo lo chiamano pace… Una rabberciata pacificazione! Silenziare la politica, ridurre il conflitto a pratica gestionale.
Kanafani: È la logica del sopravvivere invece che vivere. Ti offrono un tozzo di pane al posto della terra.
Fanon: Qui poi… la parte sugli ostaggi… Un elenco di numeri, scadenze, scambi. Umanitarismo trasformato in contabilità.
Kanafani: Sì, ed è un trucco. Se tutto si riduce a calcoli, a percentuali, nessuno ti chiede più la vera cosa: chi ha preso la casa? Chi ha la chiave?
Fanon: Già. La contabilità serve a far dimenticare l’origine della violenza.
Kanafani: E a silenziare la memoria. La memoria che tace muore, come gli uomini nel serbatoio di Uomini sotto il sole: senza rumore. Finché qualcuno non bussa. Se ti riducono a numero, smetti di bussare alle pareti della storia.
Fanon: Leggi qui: “decommissioning” delle armi, amnistia, normalità. È un ordine: disarma la tua capacità di dire no. Si chiede all’oppresso di rinunciare all’unico strumento che gli è rimasto, promettendogli in cambio una vita ordinata sotto sorveglianza.
Kanafani: Una vita ordinata da operaio nei cantieri della ricostruzione. Ma un salario non sostituisce un diritto. E una gru non prende mai il posto di una bandiera.
Fanon: È la solita trappola della cooptazione: trasformare la resistenza in forza-lavoro. Ti dicono: smetti di opporre resistenza e ti includiamo nell’economia.
Kanafani: Così la resistenza diventa un “problema da risolvere”. Ma per noi è molto di più: è linguaggio, identità, sopravvivenza. Senza resistenza, siamo fantasmi.
Fanon: Ecco la favola dello sviluppo! “Miracle cities”, zone economiche speciali, investitori pronti a costruire. È lo sviluppo come addestramento dell’immaginazione: ti insegnano a desiderare il futuro che il colonizzatore ha immaginato per te.
Kanafani: Rendering, come dicono oggi! Rendering al posto della ferita. Ti offrono vetrine scintillanti al posto delle finestre sfondate, mentre il ritorno resta proibito. È la cosmetica del furto: se non puoi rientrare a casa, che senso ha arredarla?
Fanon: Già! Lo sviluppo senza liberazione è alienazione: economia senza memoria.
Kanafani: E letteratura senz’anima. Storie senza ultima pagina, perché manca sempre il ritorno.
Fanon: Guarda questo passaggio: forza internazionale, polizia “selezionata”, deconflizione. Tutto presentato come garanzia di sicurezza. Ma la sicurezza per chi?
Kanafani: Per i confini degli altri. La nostra sicurezza, secondo loro, è la nostra docilità. Se stiamo fermi e zitti, allora dicono che c’è stabilità.
Fanon: L’apparato serve solo a coprire la struttura di dominio resta intatta.
Kanafani: E ad addestrare la memoria: impari a non guardare dove brucia. Ti costruiscono strade dritte per non vedere le rovine.
Fanon: Poi il capitolo sul “dialogo interreligioso” e le “nuove narrazioni”, educazione alla coesistenza. Terapie linguistiche per curare un trauma che è politico, materiale, storico. Si cambiano i racconti, ma non la realtà.
Kanafani: La Nakba non è un genere letterario, non è una metafora. È una condizione viva. Finché quella condizione resta, ogni “nuovo racconto” è solo scenografia sopra le macerie.
Fanon: Terapia senza verità non guarisce, ti adatta.
Kanafani: E l’adattamento imposto è oblio.
Fanon: Infine, il loro “percorso credibile verso l’autodeterminazione”. Tutto pieno di “se”, “quando”, “purché”. Sputtanata tecnica coloniale del rinvio.
Kanafani: Ogni domani condizionato ti ruba un oggi. Intanto il ritorno si trasforma in un permesso da chiedere a chi ti ha cacciato.
Fanon: Libertà subordinata: ossimoro coloniale.
Kanafani: E mentre ti promettono domani, cresce la borghesia della pacificazione: tecnocrati, appaltatori, giuristi funzionali, Ong. La transizione diventa progetto, mestiere.
Fanon: La lingua stessa lavora per l’ordine. “Transizione”, “ricostruzione”, “deradicalizzazione”: parole “pulite” per coprire mani sporche. Lessico della neutralità, effetti di dominio.
Kanafani: È una lingua arruolata, sanifica ciò che resta violento. È colonizzazione con dizionario aggiornato.
Si fermano. L’ultima pagina resta aperta.
Fanon: Per me il criterio è semplice: terra, potere, parola. Se non restituisci queste tre cose, perfezioni solo il dominio.
Kanafani: E per me: casa, ritorno, dignità. Se non posso aprire la mia porta, stai solo arredando un alloggio occupato.
Fanon: Chiamare “deradicalizzazione” il silenzio imposto all’oppresso, e “transizione” la sospensione della sua volontà…
Kanafani: …significa chiamare pace quella che è soltanto pacificazione. È la guerra che ha imparato a sorridere.
Coda
Fanon: Non chiediamo utopie. Chiediamo realtà: una pace che dica la verità sulla violenza; una ricostruzione che restituisca potere a chi è stato derubato; una sicurezza che significhi fine della spoliazione, non addestramento alla docilità.
Kanafani: Non città miracolose, ma chiavi. Non governi “per conto di”, ma autogoverno. Non un domani concesso, ma un oggi riconosciuto.
Fanon: Terra. Potere. Parola.
Kanafani: Casa. Ritorno. Dignità.