America Latina: come le rivoluzioni trasformano il continente e cambiano il mondo

America Latina: come le rivoluzioni trasformano il continente e cambiano il mondo

Pubblichiamo questa riflessione di Gianmarco Pisa sull’America Latina anche come presentazione del Convegno organizzato da “Cumpanis” e Italia-Cuba a Udine il prossimo sabato 10 giugno

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di Gianmarco Pisa, esperto e studioso di questioni internazionali e specificatamente dell’America Latina; collaboratore di “Cumpanis”

Uno sguardo sul continente latinoamericano consente di mettere a fuoco tutta la vivacità e l’importanza che questo grande contesto storico, politico, sociale, in un rilevante panorama culturale, istituzionale, strategico, rappresenta oggi sulla scena del mondo. In uno scenario, cioè, sempre più segnato dalla crisi del “mondo unipolare”, e cioè, in particolare, dalla crescente difficoltà degli Stati Uniti di affermare la propria leadership a livello mondiale e di continuare a disegnare un mondo conforme al proprio indirizzo strategico, e, viceversa, sempre più attraversato dalla tendenza ad affermare un nuovo multilateralismo e a concretizzare un inedito “mondo multipolare”, dove nuove contraddizioni emergono e nuove soggettività si manifestano, l’esperienza politica e sociale che emerge dal continente latinoamericano, dalla «Patria Grande» di Simón Bolívar e di José Martí, assume un senso e un significato di sempre più incisiva concretezza, di sempre più interessante rilevanza. 

Basta uno sguardo per indicare la direzione principale del processo in corso nel subcontinente: il Nicaragua di Daniel Ortega, la Bolivia di Evo Morales e ora di Luis Arce, la Colombia di Gustavo Petro, adesso nuovamente il Brasile di Lula, quindi l’Argentina prima con Cristina Kirchner ed ora con Alberto Fernández, sino alla rivoluzione bolivariana e socialista in Venezuela prima con il comandante Hugo Chávez e ora con il presidente Nicolás Maduro, e, punto di riferimento e stella polare del processo di trasformazione in senso complessivo, Cuba socialista, la Cuba della «Revolución», a partire dalla direzione rivoluzionaria di quel gigante del Novecento che è Fidel Castro e sino all’attuale gruppo dirigente intorno alla figura del presidente Miguel Díaz-Canel. 

Se, dunque, dal punto di vista storico, la vicenda latinoamericana rappresenta un’esperienza di lungo corso, che delinea un punto di riferimento imprescindibile nel percorso di aggiornamento e di attualizzazione del marxismo e offre un esempio cruciale di resistenza e di avanzamento nella direzione di un «socialismo per il XXI secolo», non certo un modello universale, ma indubbiamente un’ispirazione potente nell’itinerario della trasformazione nel senso della democrazia effettiva, del protagonismo dei lavoratori e delle masse popolari, della dignità e della giustizia sociale, è non meno vero che, dal punto di vista politico, proprio dal contesto latinoamericano sono giunti segnali di resistenza e di innovazione, ai quali è impossibile restare indifferenti. 

Nel fare, come si è fatto poc’anzi, riferimento al dominio unipolare, alla rinnovata strategia dell’imperialismo, all’egemonismo statunitense, non si può prescindere dai contesti reali, dalla situazione del mondo nella quale tali coordinate si sono affermate. Il contesto internazionale degli anni Novanta del secolo scorso, dopo la fine dell’esperienza storica del socialismo reale, la cessazione dell’Unione Sovietica (1991), la liquidazione dei sistemi socialisti in Europa, la dissoluzione della Jugoslavia, il ciclo di guerra nei Balcani occidentali e dunque il ritorno, esteso e tragico, nel cuore stesso dell’Europa, della guerra, culminata con l’aggressione imperialistica degli Stati Uniti e della Alleanza Atlantica a ciò che restava della Federazione jugoslava (1999), è segnato infatti da alcune grandi tendenze che avrebbero rappresentato una vera e propria “cifra” del periodo. 

La fine dell’esperienza sovietica, vale a dire il primo esempio di Stato socialista, punto di riferimento essenziale nei processi rivoluzionari, nelle lotte per la libertà, l’indipendenza e l’emancipazione dal giogo coloniale nel Sud del mondo, nelle battaglie per la democrazia, i diritti del lavoro e la giustizia sociale nell’Occidente capitalistico, non solo priva il movimento operaio e democratico, a livello internazionale, di un punto di riferimento storico e strategico, pur con tutte le contraddizioni venute ad evidenza nel corso del tempo, ma lascia gli Stati Uniti soli ad esercitare, nel panorama internazionale e geopolitico, il ruolo di superpotenza globale, una funzione presunta di leadership “imperiale”, un compito autoassegnato di “gendarme” del mondo. 

Il capitalismo come sistema e modello e il neoliberalismo come pensiero unico e cornice ideologica paiono affermarsi in tutte le direzioni: lo sfondamento è tale che nel campo stesso della sinistra si abbandona qualunque riferimento residuo al socialismo classico e alla giustizia sociale, per abbracciare le tesi della «terza via» (di Clinton, Blair, Schröder, e delle varie declinazioni del centrosinistra anche italiano), l’orientamento neoliberale, il primato del mercato e la compiuta (per questa parte politica) accettazione del mercato e del capitalismo (eventualmente «moderato» o «temperato») come orizzonte esclusivo, chiuso, di riferimento. 
Il mondo stesso viene radicalmente ridisegnato: a dispetto dei proclami e degli auspici a beneficiare, dopo la stagione della conflittualità bipolare, di un qualche «dividendo della pace», che si sarebbe dovuto manifestare con un rilancio del ruolo delle Nazioni Unite e una rinnovata definizione degli assetti e degli istituti di quello che si riteneva potesse essere un «governo democratico mondiale», si afferma, al contrario, il disegno statunitense del «nuovo ordine globale», a baricentro tra globalizzazione economica e aggressività imperialista. Gli Stati Uniti sono al centro di un sistema di «guerra permanente» di fatto: l’invasione di Panama (1989), la prima guerra in Iraq (1990-1991), la guerra in Somalia (1992), l’intervento in Bosnia (1994), poi ancora gli interventi in Afghanistan e in Sudan (1998), l’aggressione alla Jugoslavia (1999), sino al nuovo intervento nel Medio Oriente all’alba (2001) del nuovo millennio. Proprio nel contesto della guerra in Europa, la NATO ridefinisce il proprio concetto strategico ed espande la propria presenza sino ai confini della Russia. 

Con la ridefinizione del concetto strategico, con il Consiglio Atlantico di Washington (23-25 aprile 1999) nel pieno della guerra di aggressione alla Jugoslavia, si stabilisce per la prima volta che «il principio dell’impegno collettivo nella difesa dell’Alleanza si sostanzia in intese concrete che mettono gli Alleati in condizione di godere dei sostanziali vantaggi politici, militari e di risorse della difesa collettiva [...]. Queste intese mettono altresì le forze della NATO in condizione di portare avanti operazioni d’intervento in caso di crisi non previste dall’art. 5 e costituiscono un prerequisito per una risposta coerente dell’Alleanza a tutte le possibili evenienze». 

Un vero e proprio attore militare globale, che si auto-attribuisce facoltà di intervento e di aggressione ai quattro angoli del pianeta, sotto la direzione degli Stati Uniti. La stessa composizione istituzionale, per servire questo rinnovato quadro strategico, si modifica profondamente: la presenza della NATO si espande a quasi tutta l’Europa, con l’unificazione tedesca e il territorio della ex Germania democratica (DDR) entrato a far parte della NATO sin dal 1990, e poi ancora Ungheria, Polonia e Repubblica Ceca (1999), la messa in pratica della «ingerenza umanitaria» in Kosovo (1999), e quindi Estonia, Lettonia, Lituania, Slovenia, Slovacchia, Bulgaria e Romania (2004), Albania e Croazia (2009), Montenegro (2017) e Macedonia del Nord (2020). 

È proprio nella dinamica del nuovo ordine globale e nella fase storica degli anni Novanta, e cioè nelle modalità e nelle ambizioni dell’imperialismo nella sua odierna declinazione (primato del capitale finanziario, tendenza del capitale alla concentrazione monopolistica, acquisizione di nuovi mercati e sfere di influenza, egemonismo e guerra), che affondano i presupposti dell’attuale configurazione: la piattaforma di Carbis Bay del G7 (2021), ad esempio, prospetta, attraverso l’utilizzo degli strumenti del soft power e dell’hard power, la minaccia della creazione di un «rules-based world order», vale a dire di un ambiguo «ordine mondiale basato sulle regole» nel quale i principi della Carta delle Nazioni Unite sono sostanzialmente bypassati; ma anche il rinnovato sistema militare progettato in chiave anti-cinese, con l’AUKUS, composto da Stati Uniti, Gran Bretagna e Australia, e il QUAD, il Quadrilateral Security Dialogue, che dovrebbe prefigurare un compact militare in stile NATO nella regione indo-pacifica. L’America Latina non è indifferente a questo riposizionamento: in Colombia si trovano sette basi militari USA; a Cuba, Guantanamo è ancora occupata dalla base (oltre che dal famigerato campo di prigionia) USA; e la NATO è tuttora presente nelle Isole Malvinas, occupate dalla Gran Bretagna. 

È molto significativo, allora, il fatto che la prima, tra le più rilevanti, in ordine di tempo, reazioni a questo stato di cose, a questo rinnovato disegno imperialista, venga proprio dall’America Latina; è non meno significativo, poi, che non si sia trattato di una reazione isolata, bensì dell’innesco di un processo sociale e politico di lungo periodo, tuttora, pur avendo attraversato fasi alterne e battute d’arresto, in svolgimento e in evoluzione. In Venezuela, il “Caracazo”, la sollevazione dei lavoratori e delle masse popolari, prima nella capitale, Caracas, poi in tutto il Paese, il 27 febbraio 1989, contro il carovita e le misure di «aggiustamento strutturale» imposte, sulla pelle del popolo, dal Fondo Monetario Internazionale, sarebbe stato il presupposto della successiva sollevazione civico-militare promossa dal movimento rivoluzionario bolivariano del 4 febbraio 1992, che a propria volta costituisce lo sfondo della vittoria del comandante Hugo Chávez, con il Movimento per la Quinta Repubblica, del 6 dicembre 1998, e quindi del processo rivoluzionario bolivariano e socialista. 

In quello stesso periodo, l’«insorgenza zapatista», vale a dire la sollevazione dell’EZLN (Esercito Zapatista di Liberazione Nazionale), in Messico, prende la scena il 1 gennaio 1994, proprio nel giorno dell’entrata in vigore del NAFTA, l’accordo di libero scambio del Nord America tra Stati Uniti, Canada e Messico, con il quale gli USA venivano ad imporre il proprio ruolo dominante nei rapporti economici e commerciali dell’intera regione. La sollevazione zapatista, con il subcomandante Marcos, giungeva esattamente a rivendicare, contro il disegno imperialista, autodeterminazione, giustizia e democrazia per tutti i popoli e tutte le comunità del Messico. 

Esattamente dieci anni dopo, nel 2004, fu sancito il fallimento dell’altro progetto statunitense, l’ALCA, la zona di libero scambio delle Americhe, letteralmente scalzata dalla fondazione dell’ALBA, l’Alleanza Bolivariana per i Popoli della Nostra America, su iniziativa della Cuba socialista di Fidel Castro e del Venezuela bolivariano di Hugo Chávez. A questo progetto avrebbe poi fatto seguito la CELAC, la Comunità degli Stati dell’America Latina e dei Caraibi, costituita a Caracas nel 2011, ora composta da trentatré Paesi dell’intero subcontinente, che incarna i principi della eguaglianza sovrana tra gli Stati membri e della «cooperazione reciproca e solidaria». 

Se guardiamo dunque alla cadenza e alla dinamica di tale evoluzione complessiva, storica e politica, vediamo all’opera una tendenza essenziale: la definizione e la costruzione di un progetto politico e strategico basato sulle istanze e sui bisogni dei lavoratori e delle masse popolari: per un verso, un laboratorio politico istituito proprio in una costante e continua «connessione sentimentale» con le masse popolari; per l’altro verso, una sperimentazione politica impostata a partire dalla base sociale, basata sulla dignità del popolo, orientata dalle istanze e dai diritti dei popoli, tesa a recuperare dignità e sovranità. Si trattava, da una parte, di costruire una rinnovata forza egemonica, nel senso dell’emancipazione e del protagonismo delle masse; dall’altra, di sottrarre l’America Latina alla tradizionale configurazione di «patio trasero», cortile di casa cui l’imperialismo nordamericano, sin dai tempi dell’affermazione della dottrina Monroe (1823), aveva preteso di relegarla. 

È proprio tale connessione il “laboratorio” in cui si sperimentano non solo inediti processi di partecipazione ma anche innovative soluzioni politiche: il processo di trasformazione complessiva che investe l’America Latina costituisce anche, infatti, un potente avanzamento dell’innovazione stessa del socialismo nel senso del «socialismo del XXI secolo», come moderna declinazione del tema delle «vie nazionali al socialismo», basata sul marxismo e il leninismo e sulle caratteristiche e le peculiarità dei rispettivi contesti storici e nazionali. Come disse lo stesso Hugo Chávez, del resto, non un “socialismo democratico”, ma una “democrazia socialista”, basata su tre connotati, la «democrazia partecipativa e protagonistica», la trasformazione generale della società e dello Stato, ed il profondo cambiamento nella struttura economica e produttiva. Ancora con Fidel Castro, d’altra parte, «dire che la Rivoluzione è socialista significa che la Rivoluzione avanza verso un regime economico e sociale socialista, dove non esiste lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo» (1961). 

Su questo e altro torneremo a riflettere e dialogare in occasione di un importante convegno internazionale sul tema: “America Latina: come le rivoluzioni trasformano il continente e cambiano il mondo”, promosso dal Circolo di Pordenone della Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba e dalla Rivista e Associazione politico-culturale nazionale Cumpanis, che si terrà sabato 10 giugno, a partire dalle ore 17.00, presso il Centro di Accoglienza e di Promozione Culturale “Ernesto Balducci”, in Piazza della Chiesa 1, a Zugliano, in provincia di Udine, con la presenza, tra gli altri, di María Elena Uzzo Giannattasio, Incaricata d’Affari dell’Ambasciata della Repubblica Bolivariana del Venezuela in Italia; Monica Robelo Raffone, Ambasciatrice della Repubblica del Nicaragua in Italia; Sonia Brito Sandoval, Ambasciatrice dello Stato Plurinazionale di Bolivia in Italia; e Marcos Hernández Sosa, Console Generale della Repubblica di Cuba in Italia.  


p.s. questa la locandina del convegno

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