90 anni di Sergio Citti, il realista magico

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90 anni di Sergio Citti, il realista magico

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Oggi avrebbe compiuto 90 anni il regista Sergio Citti. È uno di quei pochi casi in cui parole come ‘genio’, ‘poeta’, ‘unico’ con Citti hanno davvero senso. Il suo incontro casuale con Pier Paolo Pasolini è stato per entrambi fondamentale. È possibile definire Citti un realista magico, forse l’unico del nostro cinema. Partendo dai bisogni da lui stessi patiti come la fame, riesce a costruire delle fiabe di poesia unica. Il film ‘Sogni e Bisogni’ sarà il manifesto poetico della cinematografia di Citti. Per celebrare e raccontare Sergio, abbiamo scelto David Grieco, un caro, inseparabile e paziente compagno di viaggio. David, che ci ha accompagnato già in Passione Pasolini, è un giornalista, scrittore, sceneggiatore, regista, ed è stato allievo e amico di Pasolini. Con Citti ha collaborato, in qualità di sceneggiatore, in vari film. Non è stata solo una collaborazione artistica, ma nel suo racconto sincero ci sono aneddoti, veri e proprie avventure, esperienze, racconti che parlano di tempi, migliori o peggiori ognuno la può pensare come vuole, sicuramente dove si era ancora umani nei pregi e nei difetti.

David come nasce l’incontro tra Sergio Citti e Pier Paolo Pasolini?

Fu del tutto casuale. Pasolini, che insegnava in una scuola a Ciampino, era riuscito a comprarsi una vecchia Topolino. Un giorno la macchina si ferma a metà della Via Appia e lui è terrorizzato. Perché lo sopportano poco in questa scuola ed ha paura che lo licenzino se non arriva in tempo. Si ferma una macchina per aiutarlo, esce questo signore bassetto e tozzo ribattezzato “mozzone” diventato il soprannome di Sergio, che in poco tempo gli cambia la gomma della macchina. Pasolini, che non avrebbe mai saputo cambiare una gomma, resta affascinato e gli chiede: ‘Scusi lei un meccanico?’. E lui gli fa: “No, sono un pittore”. Ma per pittore intende imbianchino. A Roma imbianchino si dice pittore. Pasolini non è ancora avvezzo al romanesco, non capisce, e gli dice: “anche io sono un pittore, ma sono anche uno scrittore”. Sergio, a quel punto, anche per metterci il carico, aggiunge: “Anche io sono uno scrittore”. A quel punto Pasolini rilancia: “Dobbiamo scambiarci il numero di telefono, perché dobbiamo vederci e voglio leggere le cose che lei scrive”. Si scambiano il numero di telefono e Sergio se ne dimentica completamente. Pasolini lo bombarda di telefonate, finché Sergio si rende conto che dovrà incontrarlo. Però pensa: “che gli faccio vedere, cosa gli faccio leggere?”. Siccome Sergio aveva l’abitudine di fare sogni e aveva sempre la carta e la matita accanto al letto sul comodino per ricordarli, prende tutti questi fogli dove sono annotati questi sogni e ne sceglie uno, lo integra con qualche parola, e glielo porta. Quel sogno, tempo dopo, diventerà il film Accattone.

A Pasolini, che incomincia ad introdursi nell’ambiente letterario e cinematografico romano, Fellini chiede di scrivere delle parti de La Dolce vita. Pasolini ingaggia Sergio. Alcune scene saranno scritte a braccio da Sergio. I dialoghi, l’incontro tra Marcello Mastroianni e Anouk Aimée sono farina di Sergio. Poi sceneggia anche il bell’Antonio e altri con Pasolini. Finché Pasolini gli dà la possibilità di fare il suo primo film, Ostia. Solo che il produttore lo obbliga a scrivere sul manifesto “un Film di Pier Paolo Pasolini. Regia di Sergio Citti”. Pasolini gli fa conoscere Laurent Terzieff e nel film c’è anche il fratello di Sergio, Franco Citti.

Hai nominato Franco Citti. Come era il loro rapporto artistico?

Franco e Sergio erano come due fratelli gemelli, inseparabili. Quando vide Franco, che aveva una faccia incredibile come Marlon Brando, Pasolini decise subito che sarebbe stato lui il protagonista di Accattone. Il rapporto tra loro continua attraverso il cinema con una grande unione, ma anche con grande conflittualità. Spesso facevano a botte. Una volta a Cannes, hanno fatto a botte insieme ad un altro fratello, Silvio, che morì prima di loro, che compare anche in una scena di Accattone. Scatenano una rissa nell’albergo. Sergio, non so come, butta dalla finestra Franco, per fortuna stavano ad un piano basso. Franco si aggrappa alla mascella di Sergio, lasciandogli una cicatrice. Gli ultimi anni della loro vita Franco e Sergio li vivono insieme con uno strano destino. Franco ha un ictus e non può più parlare. Sergio ha un infarto e non può più sentire. Uno era muto e l’altro era sordo. Una grande storia d’amore con l’eterno problema: Franco Citti è un nome che è passato. Sergio Citti è un nome che è rimasto fuori.

Nel senso che a Sergio lo chiamavano Franco e lui rispondeva: “Vabbè ce so’ abituato”.

Nel Cinema italiano quanto hanno influito i dialoghi e il linguaggio di Sergio?

L’uso del romanesco nasce da sceneggiatori che romani non sono. Ma che sono affascinati dal romanesco. Sergio diventa un consulente. Lui ha collaborato molto anche con Lina Wertmüller. Sempre in modo anonimo, purché lo pagassero. Il romanesco di Sergio si vede poco al cinema, lo vedi solo nei film di Pasolini. È un romanesco arcaico e plebeo, ma vero, che parlava la gente di Torpignattara dove era nato lui. Diverso dal romanesco addolcito dal centro storico, Parioli e Roma nord. È stato forse il più bravo dialoghista del cinema italiano. Lo sapeva Pasolini, lo sapeva Fellini, e lo sapevo anch’io. Riusciva a far parlare i personaggi con una naturalezza totale. Se il cinema italiano avesse mai avuto un dialoghista (come Michel Audiard per il cinema francese), sarebbe stato certamente Sergio Citti. Ed è un peccato che Sergio abbia sempre visto il teatro come una trappola borghese quando forse sarebbe stato proprio il teatro, fatto principalmente di parole, il mezzo a lui più congeniale in assoluto.

Invece, il tuo incontro, rapporto con Sergio, non solo di scrittura come è avvenuto?

L’ho conosciuto in un modo buffo, a Milano nel ’68. Stavo nella hall del Grand Hotel et de Milan dove alloggiavano tutti mentre giravamo Teorema. Facevo l’assistente a Pasolini alla regia. Io stavo chiacchierando con Peppino De Filippo che era lì per il primo spettacolo del figlio Luigi. Entra questo signore vestito con un gessato, sembrava un gangster da operetta, va dal concierge e gli chiede di Pasolini. Il concierge indica me, come dire: “Lo sa lui dove sta”. Era domenica, non si lavorava. Quindi viene dritto da me e mi fa: “’Ndo sta Pasolini?”. Peppino De Filippo lo guarda atterrito. E io accompagno Sergio in un ristorante in Via dei fiori chiari a Brera, dove Pasolini stava cenando con Ninetto Davoli. Pasolini lo guarda, ma non gli fa piacere vederlo, me ne rendo conto. In realtà, Sergio era andato in Svizzera a testimoniare a favore di un ladro che aveva rapinato una gioielleria. Chiaramente a dare una falsa testimonianza. Fermato all’aeroporto, gli avevano dato il foglio di via. Pasolini gli chiede come è andata. E lui: “male, mi hanno cacciato, mi hanno dato il foglio di via”. Pasolini fa: “Meglio così”, ma lui ribatte: “Ma adesso non posso andare più in Svizzera”. Con Ninetto che aggiunge: “Ma che ci vai a fa’ in Svizzera?”. Lui restò qualche giorno a Milano. Dopo mesi mi telefona e mi dice: “M’ha detto Paolo che sai scrivere. Io ho bisogno di uno che sa scrivere. Vieni a Fiumicino alle 8 al Ristorante Il Pescatore. Però prima mi chiese: “Ce l’hai la macchina?…” Gli risposi che viaggiavo in motorino. “So’ cazzi tua, se piove te fracichi. Te verrei pure a pia’ ma ormai odio Roma. Ce vengo solo quanno me pagano le produzioni”, disse lapidario.

Cominciammo a scrivere il film Mortacci. Quando riesco a mettere a punto il trattamento di Mortacci sono a Caserta vecchia sul set del Decameron dove c’è pure Sergio. Faccio leggere questo trattamento anche a Pasolini, gli piace tantissimo. A cena, ne parliamo e Pasolini mi dice: “Vedi com’è Sergio? È totalmente illetterato, poi è capace di partorire una storia straordinaria come l’Antologia di Spoon River di Lee Master che è molto simile a Mortacci.” Però, gli ricordo: “Non abbiamo il titolo”. E Pasolini fece un balzo sulla sedia: “Come, non riuscite a trovarlo? Il titolo non può che essere Mortacci. È regalato!”. Titolo che ci diede dei problemi. Ci furono persone che mi dissero che un film con un titolo così non sarebbero andati a vederlo. Un film che faremo quasi venti anni dopo.

In una intervista che Sergio Citti rilasciò ai registi Daniele Ciprì e Franco Moresco, nel raccontare Pasolini, emerge un rapporto particolare fra i due. Offre anche un’immagine diversa da quella che conosciamo di Pasolini

Sergio è il confidente di Pasolini. Se Pasolini aveva un problema, un cruccio, un’angoscia ne parlava con Sergio. Era un rapporto stranissimo. Pasolini lo chiamava “il filosofo” e quando ha sofferto le pene d’amore per Ninetto Davoli, si è confidato solo con Sergio, nemmeno con Laura Betti.

Come avviene il passaggio alla regia di Sergio?

Doveva avvenire già molto prima. Il film di Bernardo Bertolucci La comare secca, lo doveva fare Sergio. Gli rimase il rimpianto di non averlo fatto lui. Pasolini con Accattone creò un gruppo di lavoro. Successivamente girò Ostia.

Riguardo i suoi film, Citti raccontò, con grande stupore, che un critico lo definì “Pasolinoide”. Come nacque questa definizione?

Tullio Kezich lo disse. Ma lo disse per Franco Citti e Ninetto Davoli, li chiamò i “pasolinoidi”. Poi si pentì di questa etichetta.

Al di là delle etichette, tu, da uomo di cinema, sei d’accordo che Sergio Citti avesse un proprio stile? Secondo te, lo possiamo definire il realista magico del cinema italiano?

La definizione l’hai centrata. Il realismo magico di Sergio è un modo perfetto di definirlo. Quelle di Sergio poi sono sempre delle fiabe. Sono delle fiabe iperrealistiche che parlano di bisogni basilari come la fame. Una fame atavica quella di Sergio. Non mangiava moltissimo, ma lui guadagnava per poter andare al ristorante. Era felice quando stava al ristorante. Infatti, a Fiumicino, in vent’anni, abbiamo bruciato tutti i ristoranti. Perché si andava fissi da uno, finché Sergio si stufava e diceva: “perché andiamo sempre lì? Se magna male” e lo cambiava. Il ristorante era il lusso che si voleva concedere.

C’è un film di Sergio, unico, particolare: Casotto del 1976. Come nasce l’idea, da cosa fu ispirato di questo film dove si rispettano tutte le unità di tempo, luogo e d’azione?

Era una cosa di Sergio. Ricordava questi casotti che c’erano quando lui era bambino, sono delle cabine degli stabilimenti balneari. Un tempo erano enormi e collettive, entravano 20, 30 persone con un via vai infernale. Non c’era la cabina singola.  Lui fece un film tutto in teatro, al chiuso, tranne la scena di Ninetto sulla spiaggia. Lì si sperimenta la curiosità del cinema italiano per Sergio Citti. Viene considerato un poeta naif. Viene considerato un poeta e gli attori aderiscono alla sua idea. C’è un cast che non finisce mai. E questa sarà la chiave per fare altri film di Sergio, grazie alla partecipazione amichevole o con compensi ridotti.

Appunto, ne cast ci sono Franco suo fratello, Ninetto Davoli, Gigi Proietti, Carlo Croccolo, Ugo Tognazzi, Paolo Stoppa, Catherine Deneuve, Michele Placido, Anna e Mariangela Melato e, soprattutto, Jodie Foster. Come fu possibile la sua partecipazione al film?

Per quanto riguarda la partecipazione di Jodie Foster, all’epoca già una piccola star che aveva girato Taxi Driver, io non feci altro, visto che Sergio la voleva nel film anche se per me sembrava una follia, che scrivere una lettera. La madre, che era la sua agente, rispose di sì e Jodie Foster venne. Jodie Foster non capiva né l’italiano, né il romanesco di Sergio Citti e io stavo sul set il primo giorno per tradurre le indicazioni. A Sergio dava fastidio la mia presenza. In una scena, lei doveva uscire dal casotto e Sergio disse: “Jodie sorti!”. No, esci. Jodie “sortì” in romanesco. A quel punto mi disse: “Vedi? Non capisci un cazzo, lei capisce tutto, non ci sono problemi”. Joide Foster non gli diede nessun problema e riusciva sempre a capire cosa chiedesse Sergio. Un’intesa fatta di gesti, brontolii, perché con gli attori era di poche parole, era intimidito, non gli sapeva spiegare esattamente cosa voleva. Pensa che accoppiata Jodie Foster con Michele Placido, con la scena della “palla de fori” con Paolo Stoppa. Il segreto della partecipazione di tutti questi attori era che in fondo facevano poche cose, se la cavavano in quattro, cinque pose.

Qualche anno dopo la tua collaborazione con Sergio diede vita a Sogni e Bisogni per la Rai. Per una personalità come Sergio, la televisione non era un mondo un mondo lontano da lui?

Sergio non aveva nessun amore per la televisione. Eravamo fuori dall’idea di fare qualcosa per la televisione. Solo che quando cominciammo a scrivere queste storie, in realtà non ce ne rendemmo nemmeno conto, ma a furia di scriverle, che erano sempre sogni che mi raccontava la mattina, mi resi conto che poche potevano essere sviluppate. Era raro che gli si potesse dare la lunghezza giusta per un film. A Sergio proposi di fare una serie televisiva fatta di storie di 15, 20 minuti. Lui mi disse: “La intitoliamo Sogni e Bisogni”. Trovammo un produttore facoltoso, Achille Manzotti, incuriosito da queste storie, ma che non ci fa realizzare la serie, ma tre episodi: quelli con Montesano, Proietti e Pozzetto. Con questi episodi facciamo un film e andiamo alla mostra di Venezia. Come accadeva in quegli anni, vedendo una commedia, per quanto folle, poetica, ebbe un successo incredibile, applausi, recensioni bellissime. Questo ci consente, anche grazie a Federico Fellini che parla con Sergio Zavoli, all’epoca Presidente della RAI, di fare Sogni e Bisogni, tutte queste storie le mettiamo lì dentro con il nostro modo di fare cinema molto folle, ma ebbe molto successo. Sogni e Bisogni resta il film più amato di Sergio.

 C’è un altro film iconico di Sergio Citti,  Il Minestrone che non ebbe lo stesso successo di Sogni e Bisogni

Questo film Sergio voleva intitolarlo La fame interamente prodotto dalla RAI. Alla Rai gli dissero subito: “Un titolo così te lo scordi, mandiamo ad ora di cena un film sulla fame?”. Questo film in sala va malissimo, nonostante nel cast ci fosse Roberto Benigni che stava emergendo. A quel punto lui si trova a pezzi, anche perché i produttori gli avevano offerto cento milioni di lire per tagliare il film, ma lui non aveva voluto. Lui si ritrova sconfitto, viene da me, e mi raccontò: “Non ho più una lira, il film è andato malissimo. Sono andato al cinema il giorno della prima, avevo davanti a me un gruppo di romoletti, di ragazzini di borgata, che dopo un quarto d’ora si sono alzati dicendo: ‘Annamosene tanto questi non magneranno mai’. Io mi chiedevo: “Ma cosa gli frega a questi se magneranno mai?”. Una sera, ospite da me, mi propose: “Qui fanno i soldi con Pierino, facciamo un film sulle barzellette, ce pagano sicuro”. Io risposi: “Io però le barzellette non le so. Quando me le raccontano, non so perché, non le ricordo mai.” Compriamo tutti questi libri di barzellette, di cui le edicole, a quel tempo, erano piene e cominciamo a lavorare e in 15 giorni scriviamo un film assurdo. Lo intitoliamo in un modo altrettanto assurdo: Ci mandi al manicomio. Portiamo questo film ai produttori che impazziscono. Si vogliono addirittura associare tre produttori per farlo. Ci danno i soldi, ma a quel punto Sergio mi dice: “Ma io il film non lo voglio fare.” Gli rispondo: “Come ne usciamo fuori?”. Ecco, che mi viene in mente Mortacci, me lo portavo appresso da anni nello zaino. Vado da Massimo Troisi, Carlo Verdone e Roberto Benigni, siccome avevo un rapporto di amicizia con tutti e tre, gli dico: “Ragazzi, aiutiamo Sergio a fare questo film. È il film della vita per Sergio.” Tutti e tre mi dicono di sì. A quel punto dico ai produttori di Ci mandi al manicomio che ci sono Troisi, Benigni e Verdone che devono girare Mortacci con Sergio Citti. I produttori: “Allora Ci mandi al manicomio si fa dopo, ubi maior minor cessat”. Cominciamo a lavorare con Troisi, Verdone e Benigni. Con Verdone va tutto bene, con Benigni così e così, con Troisi non va bene. Perché le sfumature di Massimo a Sergio lo irritano. Gliele tronca spesso. Era un periodo in cui Troisi e Benigni erano molto legati, faranno Non ci resta che piangere e sotto sotto non gli andava di fare un film con Verdone che era troppo commerciale. Quindi, il film salta, così come pure Ci mandi al manicomio.

Massimo Troisi amava molto Pasolini. Fare un film con Sergio sarebbe stata un’occasione in qualche modo per toccare il mondo di Pasolini. È stata un’occasione mancata Mortacci?

Sergio non capiva Massimo. Non lo capiva quando parlava. Poi sono rimasto io a lavorare solo con Massimo. Le sfumature di Massimo erano straordinarie. È stato un incontro mancato, purtroppo. La modernità di Troisi spiazzava Sergio che adorava, ad esempio, Eduardo de Filippo. Troisi che aveva sconvolto tutti con la sua modernità aveva sconvolto anche Sergio. Io ridevo da morire quando Massimo cambiava le battute o le diceva in un certo modo o non le diceva e le sostituiva con un’espressione. Massimo doveva fare nel film il personaggio, poi interpretato da Malcolm McDowell, di un attore falsissimo che va sulla tomba della donna amata a piangere e disperarsi. Ma è falsissimo. Tu pensa come lo avrebbe fatto Troisi rispetto a McDowell, il quale fece questo ruolo, con sfumature shakespeariane. Malcolm aveva sempre me accanto, non capendo una parola di italiano, e non capendo quello che gli chiedeva Sergio. Infatti, non la ricorda come una bella esperienza se non per un lavoro che abbiamo fatto insieme.

 Verdone e Benigni che personaggi avrebbe dovuto interpretare?

Verdone avrebbe fatto il guardiano del cimitero che poi fece Vittorio Gassmann. Verdone lo avrebbe fatto in maniera molto disincantato il ruolo. Roberto Benigni la storia del soldato che poi fece Sergio Rubini.

Come si arrivò a Gassmann?

Ci fu tutta una storia. Perché per quel ruolo avevo Alberto Sordi. Gli avevo fatto conoscere Sergio, apparentemente gli stava pure simpatico. Poi, una volta, nel cuore della notte mi chiama Alberto e mi dice: “Io non lo posso più fare”. “Perché no lo puoi fare?”, rispondo. Lui fa: “Perché io quando vado lassù e incontro San Pietro mi dice ‘tu sei quello che ha fatto Mortacci?’ Vai giù all’inferno’. Perché doveva fare il guardiano del cimitero. “Ma dai, Alberto. Non può essere questo il motivo”, gli dissi io. “Lo so, tu non ce credi a Dio, al Paradiso e all’Inferno, ma io sì… E poi ‘sto Citti è un po’ troppo borgataro per me, va bene così?”, così concluse.

Perso Sordi provai con Gassmann che aveva fatto già un film con Sergio: Due pezzi di pane. Gassmann non amava molto Sergio. Scrissi una lettera a Gassmann, che in quel periodo era in piena depressione, e gliela portai a Cortina. Arrivato a Cortina alle cinque della mattina mi addormentai in macchina davanti all’albergo dove alloggiava. Mi bussò al vetro della macchina dicendomi: “che cazzo stai a fare qua?”. Gli risposi: “Sono venuto a portarti una lettera”. Facemmo colazione insieme. La sua risposta fu: “Vabbè lo faccio”.

Durante le riprese ci fu un momento in cui Gassmann si incazzò con Sergio, cominciò a inseguirlo in mezzo alle tombe perché lo voleva picchiare. Gridando: “sarai pure un poeta, ma sei un poeta stronzo!”. Perché Sergio dava ordini a Gassmann, il quale gli faceva osservare che certe cose per il personaggio non andavano bene. Ma Sergio ad un certo punto gli disse: “A Vitto’, tu avrai un milione di film da fare, io ho solo questo. Quindi, fai quello che te dico.” E a Gassmann partì la brocca.

Mortacci è stato anche stare 29 notti in questo cimitero che avevamo costruito a Cinecittà dove venivano i produttori la notte a chiedermelo, ero anche il produttore esecutivo, perché volevano fare film di zombies. Poi avevo le comparse che andavano a scopa’ dietro gli alberi durante la notte, gente che tirava cocaina sulle lapidi, una situazione allucinante ma questo film alla fine riuscimmo a portarlo a casa.

L’aiuto regista del film era Ferzan Ozpetek. Sergio non gli rivolgeva neanche la parola. Quando lo congedai, affranto, dissi a Ferzan che secondo me non doveva fare l’aiuto regista ma direttamente il regista. Sono particolarmente contento di aver avuto ragione.

Come proseguì in seguito la vostra collaborazione?

Anche “Mortacci” non fu un successo, ma Sergio Citti ed io continuammo a scrivere sceneggiature e ad incassare acconti dai produttori anche se i film non si facevano. Si campa anche così, e la nostra era ormai una sorta di movimentata convivenza. Si litigava, si rideva, si sceglieva il ristorante (mai mangiato a casa), si vagava per cimiteri, si giocava a carte in qualche bisca, si andava a dar da mangiare ai gatti e ai cani randagi, insomma non ci si annoiava. I momenti più belli erano sul lavoro, quando si facevano i dialoghi delle sceneggiature. Sergio apriva bocca e andava come un treno.

Ma a un certo punto, a Sergio Citti venne un’idea malsana. Voleva fare l’ultimo film di Pasolini: Pornoteokolossal. Lì mi incazzai: “E’ una rovina, non fare una cosa del genere. Ritorniamo ad ‘Ostia un Film di Pier Paolo Pasolini’”. Gli proposi un film sulla falsariga di Pornoteokolossal ma che fosse un film suo. Lì cominciò l’avventura dei Magi randagi che scrissi più di dieci volte. L’ho detestato, ma rivendendolo lo trovo il più bel film di Sergio ed ho il rammarico in quanto lui aveva scritturato per uno dei tre re magi, Rowan Atkinson, Mister Bean, che già si vedeva quanto fosse strepitoso. Siccome c’era una produzione italo-franco tedesca, i tedeschi gli imposero un attore, Rolf Zacher, anche bravo, ma è il più debole dei tre re magi. È stato un film amato che ha avuto premi. Con questo film si è conclusa la mia avventura con Sergio.

C’è stata un’appendice con il documentario Borgata America. Tu e Sergio a San Francisco in un’altra straordinaria avventura

Era un invito a un Festival dove c’era una retrospettiva sul cinema di Pasolini e la sua vita. Lo invitano, lui me lo dice, in quel periodo facevo su e giù con gli Stati Uniti perché giravo dei documentari per Canal+ insieme a due operatori, nonché fonici. “Perfetto, vengo pure io, a spese mie”, gli dico. Andiamo tutti e quattro e vediamo cosa riusciamo a fare. Sergio a San Francisco sembrava un bambino. Avevamo pure un accompagnatore autista romano, ma lui voleva camminare a piedi, cosa che nelle città americane non vai da nessuna parte. A piedi, con lui, ho visto tanti angoletti di San Francisco molti curiosi. Vederlo camminare a piedi per San Francisco era come vedere Pasolini a New York quando lo intervistò Oriana Fallaci. Poi c’era questa cosa tremenda, parlo io che sono come lui, ma Sergio fumava come un turco. Non si poteva fumare in camera, ma fumavamo lo stesso. Sergio un giorno si accende una sigaretta nell’ascensore dell’albergo e ci fecero pagare una penale terrificante. Poi lo portai a City Lights alla libreria di Lawrence Ferlinghetti che aveva tradotto le poesie di Pasolini. Sergio rimase affascinato da Ferlinghetti, Successivamente andammo a Berkley, all’università dove ha raccontato Pasolini. È stata una bella vacanza americana. Gli ho fatto fare pure una canna. C’è un’immagine fissa di lui davanti alla televisione. All’inizio imbronciato e taciturno come era lui. Poi ride e dice:” Come cazzo fate a fuma’ sta roba.” Dopo si rivede lui con occhi sgranati come un bambino mentre guarda la televisione dove passano delle cose assurde. Perché chiaramente gli aveva fatto effetto. Alle due di notte gli chiesi: “Allora come ti è sembrata?”. E lui: “Non mi ha fatto nessun effetto”.

La vita di Sergio è stata in parte anche dedicata alla verità sulla morte di Pasolini?

Lui voleva raccontare tutto quello che sapeva sulla morte di Pasolini. Fece anche un filmato con Mario Martone, Gianni Borgna, Guido Calvi, dove si ricostruiva il Delitto Pasolini all’idroscalo, e raccontò alcune cose.

Più che dedicare, la morte di Pasolini era un fantasma nelle nostre serate. Lui diceva sempre: “Paolo ce porterà tutti al camposanto.”

A proposito, c’è la storia della lapide. 

Lui ha voluto questa lapide a Fiumicino che è un blocco di granito. Questa lapide è copiata da quella di Jim Morrison, che sta al cimitero Père-Lachaise a Parigi, dove c’è scritto il nome, data di nascita e di morte. Io gliela feci vedere in foto, lui impazzì per questa foto, la volle anche lui, ma che sulla sua lapide ci fosse scritto: “NIENTE”.

Ogni tanto viene fuori al comune di Fiumicino qualcuno che vorrebbe sostituire questa lapide con una sfarzosa, convenzionale. La proposta è a fin di bene, per carità. Ma se qualcuno ci dovesse provare, sappia che dovrà passare sul mio cadavere e su quello di qualche altro amico di Sergio Citti.

Con la critica come si confrontava?

Lui se ne fotteva della critica. Sergio aveva un certo disprezzo, scetticismo per gli intellettuali. C’è un episodio.

Un giorno c’erano Moravia, Dacia Maraini, Pasolini, Sergio, Ninetto Davoli e stavano viaggiando in Africa. Erano accompagnati da una guida su un gippone. Ad un certo punto sentono nella giungla tutto un rullare di tamburi, si vedono delle luci. La guida spiega che è una festa. Pasolini immediatamente: “Andiamo subito lì”, con tutti gli altri un po’ preoccupati. Una volta arrivati, vengono guardati come si guardano dei marziani. Ninetto Davoli ha paura e dice a Sergio: “A Se’ questi ce se magnano”. Sergio gli risponde: “Non te sta a preoccupa’, questi se magnano il cuore delle persone importanti per acquisirne il coraggio, la forza. Qui ce sta Moravia, Pasolini, Dacia Maraini, io e te semo gli ultimi che se ponno magna’. Questo episodio la dice lunga sulla considerazione di Sergio per gli intellettuali. Meno che mai per i critici, li considerava dei parassiti. Io facevo il critico e mi diceva: “Ma come cazzo se fa a fa’ il critico, non fai un cazzo e stai lì a giudicare le cose che fa un altro. Che ne sai dei problemi? Che ne sai se quel giorno che dovevo girare quella scena pioveva, non pioveva, se è andato storto qualcosa, il cinema è così. Come fa un critico a capirlo?”

Sergio Citti è un regista unico nel cinema italiano. Perché è giusto ricordarlo?

È bello ricordarlo perché è esistito per una serie di combinazioni. Per la benedizione di Pasolini che gli doveva tanto. Per la benedizione di tanti attori che hanno voluto lavorare con lui, incuriositi da questo personaggio. Per esempio, quando andò a Parigi per incontrare Philippe Noiret per il film Due pezzi di pane, lui si presentò all’aeroporto con gli zoccoli, indossava una specie di montone come giacca con tutti ricami, qualcosa di inguardabile. Il produttore Gianfranco Piccioli gli disse: “Ti presenti così? Andiamo a Parigi ad incontrare Philippe Noiret, non ti puoi presentare così.” Lui rispose: “con chi deve parlare con me o con il vestito?” Noiret impazzì per Sergio, al punto che nell’incontro a Parigi disse: “Del film non ho capito niente, ma il film con questo qua lo faccio”, e proprio perché era vestito in quel modo. Era unico.

Sono gli attori che hanno fatto Sergio Citti. Prima, Pasolini è stato fatto anche da Sergio Citti. 

Quindi Sergio Citti è stato anche un maestro di Pasolini?

È stato come dicevamo prima il glottologo, è stato quello che gli ha aperto le porte della romanità, di questo mondo dove Pasolini ha ambientato i suoi primi film, i suoi primi romanzi. In questo mondo Pasolini è rinato, lui veniva dal Friuli, catapultato a Roma. Immagino con delle nozioni convenzionali di Roma, e scopre il sottoproletariato romano che era un mondo a sé. Un mondo che è morto. Pasolini quando rispose ad Italo Calvino sul massacro del Circeo ne certificò la morte.

 

 

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