Quali prospettive dopo l’ennesimo taglio dei tassi della BCE?
di Gigi Sartorelli - Contropiano
La BCE ha da poco deciso il quinto taglio da giugno dei tassi di riferimento, di nuovo di 25 punti. Il tasso di deposito è arrivato al 2,75%, mentre quello sulle operazioni di rifinanziamento principali è al 2,90% e su quelle di rifinanziamento marginale al 3,15%.
La decisione era abbastanza attesa, e sono previsti effetti positivi sui prestiti. Il sindacato bancario FABI ha indicato che i “tassi sui mutui sono già diminuiti a una media del 3,23% a novembre, rispetto a livelli medi superiori al 5% del 2023 e potrebbero calare sotto quota 3%: una riduzione che comporterà, nel caso di un prestito immobiliare di 25 anni da 200 mila euro, un risparmio complessivo di quasi 83 mila euro (-22,8%)“.
Stando alle dichiarazioni di Christine Lagarde, gli operatori economici sono convinti che non sarà l’ultimo dei tagli, anche se la BCE continua a navigare a vista. Ma l’aver fatto presente che la politica monetaria di Francoforte è “ancora restrittiva” e che è “prematuro” parlare di tasso neutrale (quello che viene considerato né espansivo né restrittivo rispetto all’economia) lascia poco spazio a dubbi.
Tale tasso era stato indicato in una forchetta tra 1,75% e 2,5%, mentre Lagarde ha ridotto il secondo valore a 2,25% nel suo discorso al World Economic Forum a Davos. Perciò in molti scommettono su di un’altra sforbiciata a marzo, anche se è possibile che a quel punto i falchi che siedono nella BCE – la tedesca Isabel Schnabel in primis – spingano per rallentare il ritmo dei tagli.
Possibile, perché i responsabili dell’euro potrebbero decidere di mantenere basso il costo del denaro per tentare di far fronte a una serie di fattori che mettono in serio pericolo la UE. In primis, proprio il fatto che l’Eurostat ha certificato che nel quarto trimestre del 2024 la stessa Germania della Schnabel è andata in decrescita, e l’Eurozona è rimasta ferma.
Ci sono poi una serie di preoccupazioni sugli effetti delle decisioni di Trump. Il tycoon da una parte inasprisce la guerra commerciale, dall’altra ha chiesto al presidente della FED di tagliare ampiamente i tassi, per dare impulso all’economia stelle-e-strisce.
Eppure, i dati statunitensi viaggiano ufficialmente su livelli di gran lunga migliori di quelli europei, e questo fin qui ha spinto a non assecondare la politica monetaria voluta da Trump. Il 29 gennaio la FED ha deciso di fermare i tagli e di lasciare i tassi nella forchetta tra il 4,25% e il 4,5%, con Powell che ha detto esplicitamente che “non dobbiamo avere fretta di modificare l’orientamento monetario“.
Le due strade non sono necessariamente in contrapposizione, come potrebbe sembrare dalla dialettica politica tra i due vertici statunitensi. I tassi di interesse più alti negli States potrebbero spingere i capitali a migrare dall’altra parte dell’Atlantico, più di quanto già non facciano, in cerca dei benefici di un dollaro forte.
Questo porta però all’apprezzamento del dollaro sull’euro, che ha cambiato marcia proprio a partire dalla vittoria di Trump a novembre – il 4 novembre un euro valeva 1,09 dollari, al 3 febbraio ne vale 1,03. Il rialzo del prezzo dei beni energetici – scambiati in dollari – colpirà dunque in maniera ancora più pesante i paesi del Vecchio Continente.
Certo, anche la minaccia dei dazi fa il proprio lavoro, perché l’impegno a riequilibrare la bilancia commerciale statunitense, sul lungo periodo, tende già di per sé a indebolire la moneta dell’esportatore netto (cioè dei paesi UE, che vantano un surplus commerciale verso l’altra sponda dell’Atlantico).
Ma i dazi servono innanzitutto all’economia interna degli Stati Uniti, che gira abbastanza bene da potersi permettere il tentativo di riequilibro pur mantenendo alti tassi di interesse, compensati dal forte afflusso di capitali attratti da maggiori profitti. Il pericolo più concreto che i dazi pongono alla UE è quindi il fallimento definitivo del modello export-oriented.
Se crollano ancora le esportazioni – in un’economia di mercato come la nostra – la conseguenza ‘naturale’ è la stagnazione, l’aumento dei licenziamenti, la riduzione ulteriore della domanda interna, l’incancrenirsi della crisi. Dinamiche che di per sé hanno un effetto deflattivo, compensato però dall’aumento dei prezzi che a cascata passa dai beni energetici a tutti gli altri, per i motivi già spiegati.
Insomma, la prospettiva è la stagflazione, cioè tassi di crescita irrisori o persino nulli, e un’inflazione ancora non domata, non fluttuante stabilmente intorno al 2%. E i vertici comunitari, oltre ad evitare di instillare questo spauracchio nella gente, non possono dichiarare che è il mantenimento di politiche di austerità uno dei fattori principali che ci porta verso questo scenario.
La BCE sta ancora tentando di supplire con le politiche monetarie alla mancanza di politiche fiscali espansive. Lo ha fatto con Draghi – la spesa pubblica è aumentata con la pandemia – ma ora che la “seconda globalizzazione” è agli sgoccioli, è il modello produttivo e di sviluppo segnatamente mercantilista che mostra i suoi limiti.
Dirlo significherebbe però vanificare i sacrifici imposti a milioni di lavoratori, propagandati come “necessari” in cambio di conquiste future che sarebbero dovute venire col salto di qualità imperialistico della borghesia continentale, organizzata nelle istituzioni comunitarie. E rendere chiaro che la classe dirigente europea non ha altre idee, ora che quella propugnata per decenni è fallita.
Certo, tutti gli operatori navigano a vista in questa congiuntura complessa, gli sbocchi sono difficili da prevedere, data anche la complessità degli scenari geopolitici. Ma i governanti europei, in più, navigano secondo un “pilota automatico” ormai rotto ma che non può essere ancora bypassato.
Per questo il tentativo di un Musk di solleticare le forze che meno si adeguano a Bruxelles funziona. Gli interessi nazionali vanno divergendo, e chi sognava gli Stati Uniti d’Europa si dimena nella crisi. In molti sono disposti a essere vassalli, per guadagnarne qualche dividendo: comincia il “si salvi chi può“…