Motivazioni strategiche dietro la tregua di Gaza
di Maurizio Brignoli
Nonostante le affermazioni del presidente statunitense Donald Trump (2017-2021; 2025-) – che a un intervistatore, che gli chiedeva cosa pensasse di quanto detto dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu (1996-1999; 2009-2021; 2022-) sul fatto che la campagna militare sarebbe proseguita nonostante gli accordi del 19 gennaio, rispondeva con queste parole: «La guerra è finita. È finita. Okay? Lo capite?»1, che evidenziano un comprensibile nervosismo visto che Netanyahu ha fatto già saltare ripetuti tentativi di interrompere la strage – siamo riluttanti a usare la parola “pace”, prima di tutto perché quella in atto non è una guerra, ma un’operazione coloniale di sterminio con intenti genocidi condotta contro un popolo colonizzato in seguito alla rivolta iniziata il 7 ottobre 2023 (la storia degli imperialismi occidentali abbonda di operazioni di questo tipo)2, in secondo luogo c’è il rischio che questo “cessate il fuoco”, per altro violato ripetutamente da Tel Aviv, in meno di un mese, più di 280 volte con l’uccisione di 242 palestinesi e centellinando le consegne di aiuti umanitari a Gaza3, sia solo una pausa imposta da Trump, dato che gli Usa iniziavano a subire ripercussioni negative dal genocidio sia sul piano interno che esterno.
Quali sono dunque gli elementi che dopo due anni hanno portato alla sospensione dello sterminio dei palestinesi?
L’intervento dell’imperialismo dominante
Metteremmo al primo posto l’intervento dell’unica entità che ha la forza per costringere Israele a interrompere il genocidio e cioè gli Usa. È necessaria una puntualizzazione preliminare: non sono gli Usa al servizio di Israele, ma il rapporto di forze è inverso, gli Usa costituiscono una potenza imperialistica con proiezione a livello mondiale (ben esemplificato dal progetto di “unipolarismo” delineato dopo la fine dell’Urss), Israele è, dalla Guerra dei 6 giorni del 1967, un prezioso alleato in una regione cruciale che persegue un progetto di imperialismo regionale ben coordinato con i disegni liberal-neocon di ridisegnare le mappe mediorientali utilizzando come testa d’ariete proprio lo stato sionista. Sono gli Usa che garantiscono armi e denaro a Israele e non il contrario. Rapporto di stretta alleanza che non esclude che in presenza di interessi divergenti possano svilupparsi frizioni come nel caso dell’accordo sul nucleare iraniano o sull’opportunità di proseguire il genocidio dei palestinesi.
Ci sono alcuni precedenti storici che ci aiutano a chiarire il rapporto Usa-Israele e a ricordare che quando il dominus vuole imporre la propria volontà ha tutti gli strumenti per farlo e ciò a prescindere dal pur significativo peso della lobby israeliana4.
Nel 1982, nel corso della guerra di aggressione israeliana al Libano denominata “Pace in Galilea” (1982-1985) il presidente Ronald Reagan (1981-1989), dopo dieci settimane di assedio su Beirut culminate con un bombardamento ininterrotto di 14 ore sulla capitale libanese, il 12 agosto intimò al primo ministro israeliano Menachem Begin (1977-1983) di por fine a quello che definì un “olocausto”: «Ho usato deliberatamente la parola “olocausto” e ho detto che il simbolo della sua guerra stava diventando l’immagine di un bambino di sette mesi con le braccia amputate. [Begin] Mi ha detto di aver ordinato la cessazione dei bombardamenti»5, Begin fu costretto a ordinare al generale Ariel Sharon, allora ministro della difesa (1981-1983), di por fine al massacro. Lo strumento per fare pressione su Israele fu interrompere la fornitura di munizioni a grappolo e la vendita degli F16.
Nel 1991 fu George H. W. Bush (1989-1993) a costringere Israele a interrompere la costruzione degli insediamenti in Cisgiordania e a Gaza, ponendo le premesse per la convocazione della conferenza di Madrid (30 ottobre-1 novembre 1991), usando la minaccia economica rinviando l’approvazione delle garanzie sui prestiti a Israele di 10 miliardi di dollari, destinati a favorire l’insediamento degli ebrei proveniente dall’Urss, fino a che il primo ministro Yitzhak Shamir (1983-1984; 1986-1992) non avesse sottostato ai diktat di Washington: «È nell’interesse del processo di pace e della pace stessa che la questione degli aiuti per l’incorporazione [degli ebrei sovietici] di Israele venga rinviata di soli 120 giorni. E credo che il popolo americano mi sosterrà fermamente in questo»6; Shamir interruppe obbediente la costruzione degli insediamenti. Prima ancora, quando scoppiò la prima guerra del Golfo (1990-1991), Bush sr. ordinò a Shamir di non partecipare all’attacco all’Iraq per non compromettere i rapporti con gli alleati arabi.
Si potrebbe citare anche il caso di Dwight D. Eisenhower (1953-1961) che, nel corso della crisi del Canale di Suez (1956) quando Israele attaccò l’Egitto insieme a Francia e Regno Unito, con il segretario di stato John Foster Dulles (1953-1959) stabilì che, se gli israeliani non avessero obbedito all’ordine di ritiro, gli Usa avrebbero interrotto il flusso di tutti gli aiuti inclusi non solo quelli destinati allo sviluppo, ma anche l’assistenza tecnica e le spedizioni di prodotti agricoli e avrebbero ritardato l’erogazione di un prestito già concordato. Eisenhower inoltre revocò le licenze di esportazione per la spedizione di munizioni o altri beni militari e ordinò al dipartimento del tesoro di redigere una modifica alla normativa fiscale statunitense in modo che i benefattori dell’Organizzazione ebraica americana non avessero più diritto a una detrazione fiscale federale per i contributi a beneficio di Israele7. Foster Dulles dichiarò: «Non possiamo far sì che tutte le nostre politiche vengano adottate a Gerusalemme […]. Innanzitutto, sarebbero state necessarie sanzioni per costringere Israele al ritiro, e un ritiro era necessario per mantenere la posizione americana tra gli arabi. [In secondo luogo] Sono consapevole di quanto sia quasi impossibile in questo Paese attuare una politica estera non approvata dagli ebrei. […]. Ciò non significa che io sia antiebraico, ma credo in ciò che George Washington disse nel suo discorso di addio, ovvero che un attaccamento emotivo a un altro Paese non dovrebbe interferire»8. Ma allora Israele non era ancora stato individuato come prezioso alleato da usare per il controllo del Medioriente dato che ai tempi Washington puntava a mantenere buoni rapporti con i paesi arabi produttori di petrolio (allora gli Usa erano grandi importatori di greggio) e a rimettere al loro posto le velleità imperialistiche dei subordinati europei.
In tutti gli altri casi vi è stata diretta collaborazione e complicità di Washington con le politiche israeliane, in particolare quelle rivolte alla pulizia etnica e allo sterminio del popolo palestinese.
Il fronte esterno
Tornando a Trump nella pressione esercitata su Tel Aviv scarso peso hanno avuto le sofferenze dei palestinesi, se non per le conseguenze politiche che potrebbero produrre, ancor meno ha avuto peso una qualsiasi forma di riconoscimento delle loro aspirazioni nazionali, ma hanno probabilmente ricoperto un ruolo decisivo alcuni elementi rilevanti relativi al peso strategico degli Usa e ai rapporti con gli alleati arabi.
In particolare l’attacco condotto il 9 settembre da Israele sul territorio del Qatar, nel tentativo di eliminare qualsiasi possibilità di trattativa uccidendo i rappresentanti di Hamas lì convenuti per interloquire con Washington, ha avuto delle conseguenze pericolose perché sono stati messi in discussione alcuni elementi su cui si fonda il proficuo rapporto fra Washington e gli stati del Golfo: gli Usa garantiscono protezione militare in cambio di ingenti acquisti di armi, buoni del tesoro statunitense, investimenti negli Usa, valutazione del petrolio in dollari. A maggio Trump aveva compiuto visite di stato nelle petromonarchie (Arabia Saudita, Eau e Qatar) firmando contratti per oltre 4.000 miliardi di dollari. Israele finora non aveva mai attaccato un alleato statunitense e l’operazione che ha violato il territorio del Qatar ha danneggiato gli Usa e non solo nelle relazioni con Doha, dato che ciò che è capitato al Qatar potrebbe tranquillamente ripetersi in altri luoghi. Nel momento in cui viene meno il rapporto (simil mafioso) per cui si paga per avere in cambio protezione e la protezione viene meno – i sistemi di difesa aerea statunitensi sono rimasti inattivi, resta da stabilire se sia trattato di inefficienza, tacito assenso o, meglio ancora, conferma che all’interno dell’amministrazione Usa il presidente non ha tutto sotto controllo e c’è chi agisce per favorire il progetto grandeisraeliano e di genocidio – la credibilità del protettore svanisce aprendo le porte a pericolose evoluzioni capaci di portare le petromonarchie a volgere lo sguardo in modo sempre più insistente verso altri referenti, alcuni dei quali fortemente concorrenziali nei confronti degli Usa e che potrebbero accentuare alcune tendenze già delineate come una stretta collaborazione tra Russia e petromonarchie nell’Opec plus, la vendita del petrolio in yuan, l’acquisto di armamenti su altri mercati.
Per rabbonire Doha Trump ha imposto a Netanyahu la presentazione di scuse al Qatar9, a ottobre è stata annunciata una base militare congiunta statunitense-qatariota dell’aeronautica militare in Idaho dove si terranno addestramenti volti ad aumentare l’interoperabilità fra piloti di Usa e Qatar10 e, soprattutto, Trump ha firmato un ordine esecutivo in cui si garantisce al Qatar un intervento militare degli Usa in sua difesa in caso di aggressione11 in modo da inviare un chiaro messaggio a Tel Aviv. Una sorta di rassicurazione sul fatto che i clienti degli Usa non vanno toccati. Anche i sauditi, che ospitano tre basi dell’aeronautica militare statunitense sul versante occidentale volto a controllare il mar Rosso, vorrebbero siglare un accordo simile all’ordine esecutivo di Trump relativo al Qatar12. Il 18 novembre l’Arabia Saudita è stata designata dagli Usa “importante alleato non membro della NATO” (mentre i sauditi promettevano investimenti negli Usa per 1.000 miliardi di dollari)13.
Il problema nei rapporti fra gli alleati arabi e Washington è costituito dal progetto del Grande Israele che sta portando sempre più Tel Aviv ad ampliare il raggio delle sue operazioni militari e a rischiare il tutto per tutto, in alcuni casi anche venendo meno agli ordini di Washington. Altra questione rilevante è che le garanzie di sicurezza statunitense sembrano essere valide esclusivamente contro l’Iran e non contro Israele14, cosa di cui sembra iniziare a esserci una presa di coscienza da parte delle petromonarchie che stanno gradualmente ricalibrando la loro politica estera guardando con attenzione a ciò che Russia e Cina possono offrire sul piano militare ed economico. Parallelamente all’ampliarsi dei fronti di guerra israeliani aumenta l’esposizione statunitense sia con interventi militari diretti (bombardamento dei siti nucleari iraniani nella guerra dei 12 giorni, coalizione militare contro Ansarallah nello Yemen) che con pressioni diplomatiche (sul Libano per disarmare Hizballah, in Siria offrendo riduzioni delle sanzioni per condizionare il governo jihadista di al-Jolani in funzione filoisraeliana, in Iraq per disarmare le Forze di mobilitazione popolare filoiraniane), un impegno militare e diplomatico che rischia di indebolire il progetto trumpiano degli Accordi di Abramo15.
Ma ancor più preoccupante deve essere apparso agli occhi di Washington il trattato di mutua difesa strategica stipulato il 17 settembre, pochi giorni dopo l’attacco al Qatar, fra Arabia Saudita e Pakistan che garantisce ai sauditi un ombrello atomico e al Pakistan forti investimenti di cui ha disperato bisogno. Ricordiamo che il Pakistan negli ultimi anni si è avvicinato sempre più alla Cina dando vita a uno dei corridoi fondamentali della Via della seta. Di fatto avvicinandosi al Pakistan Riad si avvicina per via indiretta al complesso militar-industriale cinese che copre l’80% dei rifornimenti militari pachistani.
C’è un altro elemento importante da considerare nel contesto dei rapporti di forza e diplomatici mediorientali ed è l’esito della guerra dei 12 giorni. A luglio un diplomatico arabo affermava: «Questa guerra ha segnato una svolta nel pensiero saudita. Riad ora comprende che l’Iran è una potenza militare matura, immune alla coercizione. La pressione tradizionale non funziona più. La sicurezza saudita ora dipende da un impegno diretto con l’Iran, non da Israele, e certamente non dal declinante ombrello di sicurezza americano»16, mentre un atro diplomatico arabo rincarava la dose: «Riad sta abbandonando le illusioni. Il dialogo con i vicini, non l’alleanza con Washington e Tel Aviv, è ora la via per salvaguardare gli interessi sauditi. Si tratta di fatti, non di vecchie lealtà. L’Iran è ormai una componente fissa dell’equazione di sicurezza del Golfo»17. Il mutamento degli equilibri mondiali sembrerebbe portare a una situazione in cui Riad, in un processo che la porta a essere sempre meno soggetta ai diktat statunitensi (e israeliani) non vede più Teheran come una minaccia da neutralizzare, ma come una potenza da coinvolgere18.
Insomma le petromonarchie, pur senza abbandonare i rapporti di alleanza con gli Usa, sembrano interessate quantomeno a un processo di diversificazione per quanto riguarda le questioni di sicurezza, con interessanti prospettive per Cina, Russia, Iran, Turchia e India.
Altro campanello d’allarme è dato dal fatto che prima di incontrare il primo ministro pachistano per siglare l’accordo di mutua difesa, il primo ministro saudita (2022-) e principe ereditario (2017-) Mohammed bin Salman abbia incontrato il 16 settembre Ali Larjani, segretario del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale iraniano (2025-) per concordare l’espansione dei legami economici e della cooperazione nell’ambito della difesa e per rafforzare la stabilità regionale. All’incontro con bin Salman è seguito quello di Larjani con il ministro della difesa saudita per discutere misure di difesa bilaterali e di sicurezza regionale. Incontri avvenuti il giorno dopo l’incontro tra bin-Salman e il presidente iraniano Masoud Pezeshkian (2024-) a Doha a margine del vertice arabo-islamico di emergenza convocato in seguito all’attacco al Qatar a cui hanno partecipato i membri della Lega Araba e dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci) a cui partecipa anche l’Iran.
Durante il vertice di emergenza della Lega araba si è parlato della necessità di un’alleanza fra paesi islamici (a cui si sono però opposti gli Eau che hanno strette relazioni con Israele), quella sorta di Nato araba spesso invocata da Washington in funzione antiraniana e che rischia ora di assumere una latente posizione antisraeliana. Pericolo remoto visto che comunque gli stati arabi hanno continuato a mantenere i contatti con Israele durante tutto il genocidio palestinese, dato che ciò garantisce la possibilità di entrare in possesso delle avanzate tecnologie militari israeliane e garantisce il favore politico e militare degli Stati Uniti, ma che una potenziale alleanza non sia più vista tanto contro l’Iran – da questo punto di vista la mediazione fra Teheran e Riad orchestrata da Pechino del marzo 2023 ha avuto grande importanza con la Cina che aspira a prendere il posto degli Usa quale tradizionale detentore di una sorta di monopolio sugli equilibri mediorientali sia sul piano diplomatico che della sicurezza regionale e ormai Teheran è sempre più considerata un membro paritario degli equilibri del Golfo con cui si deve trattare e trovare accordi – quanto per proteggersi da Israele rischia di diventare un pericoloso dato di fatto, danneggiando così il progetto statunitense basato sugli accordi di Abramo destinato a realizzare una forte alleanza araboisraeliana contro l’Iran: «Questa “alleanza del destino” non preannuncia un’alleanza militare o strategica, ma indica una frattura sempre più profonda nella posizione degli Stati Uniti nella regione. Dopotutto, se il Paese più potente del mondo non riesce a garantire il benessere dei suoi alleati e a fornire un ritorno politico per i loro “servizi” e investimenti, potrebbe dover elaborare una nuova strategia di difesa. Nello scenario migliore, la nuova strategia richiederà a Trump di adottare una politica volta a contenere la minaccia israeliana. Nel caso estremo, la nuova strategia marchierà Israele come un paese ostile che minaccia la sicurezza di tutti i paesi della regione. L’asse anti-Iran verrà quindi sostituito da un asse anti-Israele»19.
L’attacco di Doha va a indebolire l’egemonia statunitense nel Golfo e ne indebolisce il ruolo di affidabile “protettore”. In questo modo Israele sembra considerare di secondaria importanza le ipotesi statunitensi di una grande alleanza mediorientale fra stati arabi e Israele rispetto al progetto genocida nei confronti dei palestinesi e alla realizzazione del Grande Israele. La pace imposta da Trump, sommata all’intervento nella guerra dei 12 giorni (di fatto concordato con Teheran attraverso reciproci attacchi che non hanno prodotto vittime e fatto danni limitati), mira a delineare accordi coinvolgendo i paesi islamici onde evitare un ulteriore logoramento della posizione statunitense in Medioriente.
Il Consiglio di cooperazione del Golfo (Ccg), dopo l’attacco su Doha, si è accordato in modo unanime per creare un sistema di allerta precoce contro i missili balistici e per organizzare esercitazioni congiunte tra i centri operativi e per la difesa aerea fra i paesi membri20.
Trump sta tentando, con un piano che non prevede più di espellere i palestinesi da Gaza e impedendo l’annessione della Cisgiordania, di facilitare la normalizzazione dei rapporti fra petromonarchie (Arabia Saudita in testa), in modo da strapparle da una prossimità alla Cina sempre più accentuata, e Israele (processo che prima del 7 ottobre era a buon punto) e riproporre quel progetto di coalizione araba antiraniana con supporto israeliano. Al massimo Trump potrebbe arrivare a offrire qualche forma di pseudoautonomia e autogoverno palestinese, una sorta di Oslo 2, fornendo così un’apparenza di soluzione per tentare di compattare un fronte anti-iraniano che capace di isolare Teheran21.
Il fronte interno
Al fronte esterno si somma il fronte interno, dove un ruolo importante viene rivestito dalla base elettorale di Trump, costituita dal movimento Maga, che, oltre ad accusare Israele, nei suoi membri più avvertiti, di sterminare i palestinesi, denuncia un’indebita influenza di uno stato straniero sulle decisioni di Washington – ma complessivamente fra tutti gli elettori statunitensi l’idea che sia interesse nazionale sostenere Israele è scesa dal 69% del dicembre 2023 al 47% del settembre 2025, mentre chi non crede che sia interesse degli Usa è passato dal 23 al 41%22 –, ma soprattutto vuole la non ingerenza, con relativo e ingente esborso economico (dagli anni ‘50 gli aiuti militari a Israele ammontano a oltre 260 miliardi di dollari e attualmente a lucrare sull’aumento delle spese militari e sulla vendita degli armamenti sono i grandi fondi Vanguard, BlackRock e State Street) nelle faccende mediorientali, cosa di per sé non possibile per una potenza come gli Usa ed elemento di contraddizione della campagna elettorale di Trump che vorrebbe invece appaltare a israeliani e petromonarchie la regione per il tramite degli Accordi di Abramo.
Alcuni eventi come l’uccisione di Charlie Kirk, che pur definendosi sostenitore di Israele aveva messo in dubbio le ricostruzioni relative al 7 ottobre e denunciato la pulizia etnica dei palestinesi, hanno accelerato il distacco fra la base trumpiana e le politiche filoisraeliane, Tel Aviv è stata né più né meno accusata dalla base Maga di essere il mandante dell’omicidio Kirk23 – le indagini condotte da Joe Kent capo del National Counterterrorism Center (2025-) e fedelissimo della trumpiana Tulsi Gabbard, direttrice dell’intelligence nazionale (2025-), che seguivano la pista di un possibile coinvolgimento straniero nell’omicidio sono state bloccate dal direttore dell’Fbi Kash Patel (2025-)24 – al punto che Netanyahu si è trovato nella necessità di smentire (excusatio non petita secondo i maligni) quelle definite come “teorie della cospirazione”25.
Trump si ritrova con una situazione in cui meno di un quarto dei giovani repubblicani (il 24% fra i 18 e i 34 anni) palesa simpatie per Israele, mentre se si considera la totalità dei giovani fra i 18 e i 29 anni il 61% simpatizza per i palestinesi e solo il 19% per Israele26.
Intanto la scelta di Trump di favorire una tregua lo ha portato ad avere la percentuale più alta (38%) del sostegno degli elettori alla sua politica estera conseguito negli ultimi mesi27.
Il tutto rende comunque Trump già meno peggio del suo predecessore Joseph Biden (2021-2025) che aveva meritato il nomignolo spregevole di “Genocide Joe”. Questo non cancella le responsabilità di Trump e la sua complicità nel genocidio (complessivamente dall’inizio del massacro gli Usa di Biden e Trump hanno posto il veto a 6 bozze di proposte di cessate il fuoco al Consiglio di sicurezza), anche se bisogna sempre ricordare che il presidente degli Usa non è una figura onnipotente e nell’amministrazione statunitense la componente liberal-neocon che vede in Israele la punta di diamante del riordino del Medioriente è ancora molto forte, soprattutto nel dipartimento di stato ma anche alcuni settori importanti dei servizi segreti come il direttore della Cia John Ratcliffe (2025-), ma la soluzione finale dei palestinesi è stata (almeno temporaneamente) arrestata da Trump.
Fin a ora Trump ha cercato di mantenere in vita la tregua nonostante i tentativi israeliani di riprendere il massacro adducendo le più svariate motivazioni: dalla mancata riconsegna degli ostaggi morti seppelliti sotto tonnellate di macerie, con un consigliere senior del presidente che replicava alle accuse israeliane: «Abbiamo sentito molte persone dire: “Hamas ha violato l’accordo, perché non tutti i corpi sono stati restituiti”. L’accordo che avevamo con loro era che avremmo liberato tutti gli ostaggi vivi, e loro hanno rispettato l’accordo»28; un altro consigliere presidenziale sottolineava: «Hamas ha fatto la cosa giusta quando ha consegnato tutti i 20 ostaggi vivi contemporaneamente […]. Oltre a tutti quei detriti ci sono molti ordigni inesplosi e, presumibilmente, sotto di essi ci sono molti cadaveri. Sarebbe stato quasi impossibile per Hamas, anche se avesse saputo dove si trovavano tutti i 28 corpi, mobilitarsi e recuperarli tutti»29, all’eliminazione dei collaborazionisti con Trump che diceva che Hamas aveva eliminato individui pericolosi: «Hanno fatto fuori un paio di bande che erano bande molto cattive, molto, molto cattive. E li hanno fatti fuori, e hanno ucciso un certo numero di membri, e questo non mi ha infastidito molto a essere onesto. Va bene»30, salvo poi rimangiarsi il tutto, su pressione israeliana, pochi giorni dopo: « Se Hamas continua a uccidere persone a Gaza, cosa che non era prevista dall’accordo, non avremo altra scelta che entrare e ucciderli»31, dato che Tel Aviv punta proprio su queste bande di collaborazionisti (fra cui le formazioni jihadiste a libro paga israeliano già utilizzate per saccheggiare i pochi aiuti di cui Israele permetteva il transito)32 che hanno il compito di combattere Hamas e si candidano al governo di ciò che di Gaza resterà in mani palestinesi33, per intenderci un’operazione tipo Siria dove i jihadisti filoisraeliani sono stati messi al governo. Ancora Trump, di fronte al nuovo tentativo sionista di riprendere la strage, dopo la morte di due soldati israeliani (19 ottobre), morte dovuta probabilmente, come ricostruito dal giornalista investigativo Ryan Grim, a un bulldozer di coloni che ha urtato un ordigno inesploso (di cui Gaza è disseminata)34, di cui veniva accusato Hamas, affermava che il partito palestinese non era coinvolto e attribuiva la responsabilità a generici “ribelli”35 ribadendo che la tregua continuava a restare in vigore (con le puntuali violazioni di Israele). Allo stesso tempo Trump annunciava che i tempi per il disarmo di Hamas non sarebbero stati rigidi: «Non è una linea temporale dura, ma è una linea nella mia mente. A un certo punto, se non fanno quello che dovrebbero fare, allora dovremo farlo per loro»36, togliendo così altri pretesti a Israele. L’esercito statunitense ha predisposto un monitoraggio costante della Striscia attraverso i droni, controllati da un centro di comando statunitense, per evitare che la tregua venga interrotta, è evidente che la preoccupazione principale è che venga rotta da Israele, come puntualmente avvenuto in quelle che il vicepresidente Vance ha definito “schermaglie” (leggasi bombardamenti con vittime): «Il cessate il fuoco regge. Questo non significa che non ci saranno piccole schermaglie qua e là […]. Sappiamo che Hamas o qualcun altro all’interno di Gaza ha attaccato un soldato dell’Idf […]. Ci aspettiamo che gli israeliani rispondano, ma penso che la pace del presidente rimarrà nonostante ciò»37, il “qualcun altro” evita di incolpare in modo definitivo Hamas. Quella dei droni è un’operazione descritta da Daniel Shapiro, ex ambasciatore statunitense in Israele (2011-2017), in questo modo: «Questa è una versione molto invadente del monitoraggio degli Stati Uniti su un fronte in cui Israele percepisce una minaccia attiva […]. Se ci fosse totale trasparenza e totale fiducia tra Israele e gli Stati Uniti, non ci sarebbe bisogno di questo»38. Infine il 7 novembre il controllo degli aiuti destinati alla Striscia è stato sottratto a Israele e trasferito al Centro di coordinamento civile-militare creato dagli Usa per controllare il cessate il fuoco39. L’11 novembre gli Usa hanno annunciato l’intenzione di costruire una base militare nei pressi della Striscia per ospitare le forze internazionali incaricate di mantenere la tregua, una novità assoluta dato che Israele si è sempre opposto al coinvolgimento straniero nei territori occupati, il che conferma la volontà di Washington di assumere il controllo diretto delle operazioni a Gaza.
Tutto ciò non toglie che a muovere Trump sia probabilmente l’obiettivo di trarre Israele da una situazione sempre più difficile, sia sul piano militare, che economico, che di prestigio internazionale.
Hussein Agha e Robert Malley, da anni coinvolti nei processi di pace mediorientali, hanno analizzato acutamente la situazione: «Il piano di pace di Donald Trump esige l’espiazione dei palestinesi per gli orribili atti del 7 ottobre, non di Israele per la barbarie che ne è seguita. Chiede la deradicalizzazione di Gaza, ma non la fine del messianismo israeliano. Gestisce in modo minuzioso il futuro del governo palestinese, senza dire nulla sul futuro dell’occupazione israeliana. È pieno di ambiguità, privo di calendari, arbitri o conseguenze per le inevitabili violazioni finali. Se tutto procede secondo i piani […] la vita per gli abitanti di Gaza passerà dall’inferno assoluto a un mero incubo. La loro condizione passerà da prede indifese a rifugiati espropriati due volte nella loro stessa terra. E tuttavia, sarebbe un risultato epocale. Israele raramente ha goduto di un predominio militare regionale così ineguagliabile e non è mai stato così isolato. I palestinesi hanno raramente beneficiato di un sostegno così ampio e il loro movimento nazionale non è mai stato così alla deriva»40.
D’altro canto, sic stantibus rebus, quella di Trump è anche l’unica azione che abbia almeno interrotto, per quanto in modo intermittente, e abbia almeno posto degli ostacoli al genocidio palestinese (ricordiamo che le stesse condizioni erano state accettate da Hamas a settembre 2024 ma l’amministrazione liberal-neocon di Biden preferì continuare a lasciare carta bianca a Tel Aviv per continuare il genocidio)41, a prescindere dalle motivazioni che hanno portato a tale risultato e che non hanno certo particolarmente a cuore la sorte dei palestinesi che si vedono imporre un patto favorevole a Israele che non elimina l’occupazione e non riconosce alcun diritto all’autodeterminazione, anzi il destino palestinese è quello di forza-lavoro sottopagata in casa propria, e impone un governo esterno espressione degli interessi dell’imperialismo occidental-sionista.
La situazione di Israele
Cosa abbia portato i combattenti palestinesi ad accettare le dure condizioni per una tregua che offre loro pochissime garanzie, consegna di tutti gli ostaggi ancora vivi con gli israeliani che continuano a occupare più della metà di Gaza e senza alcuna garanzia sulla ricostruzione e sulla gestione di ciò che della Striscia eventualmente resterà in mani palestinesi, è evidente: due anni di genocidio. Cosa invece ha portato Israele alla firma, al di là delle imposizioni trumpiane?
Netanyahu incassa la liberazione degli ostaggi, che non sono mai stato l’obiettivo dell’operazione israeliana che, ribadiamo, aveva come fine l’espulsione/genocidio palestinese, del resto non esisterebbe la “direttiva Annibale” se Israele avesse a cuore la liberazione di ostaggi, e allenta la pressione interna dato che le manifestazioni per la liberazione dei prigionieri e le critiche alla politica di bombardamenti indiscriminati – non certo per pietà verso i palestinesi dato che un sondaggio condotto dall’Università ebraica ad agosto 2025, dopo quasi due anni di sterminio, ha mostrato che il 62% degli israeliani ritiene che “non ci siano persone innocenti a Gaza” percentuale che sale al 76% fra gli ebrei israeliani42 – continuavano ininterrotte danneggiando il prestigio del governo. Sul piano internazionale Israele è ormai percepito come uno “stato canaglia”, anche i più fedeli alleati europei, che hanno continuato e continuano a vendere armi a Israele, sono stati costretti a qualche biasimo di facciata e a ricorrere alla minaccia retorica del riconoscimento di uno stato palestinese, che date le condizioni attuali non può nascere in alcun modo, per cercare di tenere a bada la propria opinione pubblica, pertanto un primo importante risultato, come sottolineato da un prestigioso think tank israeliano come l’Institute for National Security Studies (Inss, fondato nel 1977 da Aharon Yariv capo dell’intelligence militare dell’IDF dal 1964 al 1972), è, data la posizione di Israele definita “sull’orlo dell’abisso” a livello economico e internazionale, aver avviato un processo di ripristino della reputazione di Israele: «Questa è una giornata storica. L’accordo firmato è molto buono, molto meglio del previsto. In primo luogo, Hamas ha accettato di separare l’accordo sugli ostaggi dal piano di ricostruzione di Gaza. Se avesse insistito nel collegare la ricostruzione come precondizione per la firma dell’accordo, come aveva fatto finora, ciò non sarebbe avvenuto. In secondo luogo, tutti gli ostaggi stanno tornando contemporaneamente. Questo è importante dal punto di vista morale ed etico, ma anche strategico: qualunque cosa accada, Israele avrà ora maggiore libertà d’azione […]. In terzo luogo, è iniziato il processo di ripristino della reputazione di Israele; economicamente e a livello internazionale, eravamo sull’orlo dell’abisso. E forse, cosa più importante, sta iniziando un processo di guarigione: la guarigione delle ferite lasciate dalla lunga guerra tra coloro che ne hanno sopportato il peso e nella società israeliana nel suo complesso. Tuttavia, è importante ricordare che ci sono anche degli svantaggi: - Non sappiamo ancora quali garanzie di sicurezza siano state fornite e in che modo potrebbero limitare la nostra libertà d’azione. - Terroristi pericolosi e assassini vengono rilasciati. La Turchia e il Qatar sono diventati potenze regionali e stretti alleati degli Stati Uniti. Ciò che conta in futuro è attuare la Fase B dell’accordo: garantire il disarmo di Hamas e la sua rimozione dal potere a Gaza. Senza questa fase, ci troveremo di nuovo di fronte a una Gaza controllata da Hamas e il problema rimarrà irrisolto»43.
La pressione di Trump sul governo israeliano può essere vista come un’azione volta a ridurre, per quanto attraverso una temporanea sconfitta del progetto messianico sionista, i danni di immagine per Israele (e per gli Usa stessi complici del genocidio), lasciar svanire le imponenti manifestazioni in difesa dei palestinesi e riprendere il filo interrotto degli Accordi di Abramo utili anche per riaffermare l’egemonia statunitense in Medioriente44. A novembre il Kazakistan ha aderito agli Accordi e comunque, nonostante il genocidio israeliano, le relazioni economiche dei paesi aderenti al patto con Tel Aviv sono continuate imperterrite. Si può dire insomma che l’intervento degli Usa sia volto a salvare la reputazione e le difficoltà militari di Israele e in subordine (come premessa necessaria per gli scopi predetti) la vita dei palestinesi, palestinesi che come abbiamo visto continuano a morire, col vantaggio però che la notizia è pressoché scomparsa dai principali organi d’informazione45. Ma leggiamo le parole di Trump che sono cristalline in merito agli obiettivi perseguiti: «Quindi, vedi, il mondo era stanco dei nostri attacchi – dirò noi, sai, Israele e noi […]. E ho detto a Bibi: “Bibi, non puoi combattere il mondo. Puoi combattere battaglie individuali, ma il mondo è contro di te. E Israele è un posto molto piccolo rispetto al mondo”. Sapete, l’ho fermato, perché avrebbe continuato a insistere. Sarebbe andato avanti per anni. E l’ho fermato, e tutti si sono uniti quando mi sono fermato, è stato incredibile. E quando ha commesso quell’errore tattico, quello sul Qatar, ed è stato terribile, ma in realtà, e l’ho detto all’emiro, questa è stata una delle cose che ci ha uniti tutti, perché era così fuori controllo che ha in qualche modo costretto tutti a fare ciò che dovevano fare […]. Doveva fermarsi perché il mondo intero lo avrebbe fermato. Sapete, potevo vedere cosa stava succedendo. Voi potevate vedere cosa stava succedendo. E Israele stava diventando molto impopolare. Ed è questo che intendevo quando ho detto “il mondo”»46.
Che risultato hanno ottenuto le campagne militari israeliane sui molteplici fronti?
Gaza. Su Gaza sono state sganciate 200.000 tonnellate di esplosivi che hanno distrutto il 90% delle abitazioni, l’80% degli edifici (ospedali, scuole, università, moschee, chiese, monumenti, siti storici) l’80% delle terre coltivabili (un più recente documento della Fao spiega come meno del 5% dei terreni rimanga coltivabile)47, ma Hamas (e le altre formazioni alleate) non è stato distrutto e, per quanto duramente colpito, ha rimpinguato i propri ranghi militari con nuovi membri, cosa non difficile considerando cosa devono provare nei confronti di Israele le persone che hanno assistito a un genocidio perdendo familiari, persone care e tutto ciò che possedevano, e non sembra disposto a deporre le armi oltre a mantenere intatta la sua forza politica potendo contare su una dimensione popolare della resistenza a Israele: secondo un sondaggio del Palestinian Center for Policy and Survey Research, condotto tra il 22 e il 25 ottobre, emerge che il 69% dei palestinesi (78% in Cisgiordania e 55% nella Striscia di Gaza) è fortemente contrario al disarmo di Hamas, mentre i favorevoli sono al 18% in Cisgiordania e al 44% nella Striscia di Gaza)48, un sostegno popolare che sta permettendo ad Hamas di riprendere il controllo amministrativo e svolgere le funzioni di governo e di protezione civile di quella parte della Striscia non occupata dagli israeliani e garantire la sicurezza interna, anche attraverso l’eliminazione dei collaborazionisti al soldo di Israele49, ma soprattutto è (per ora) fallito il progetto di svuotare la Striscia dai palestinesi dato che le ultime direttive trumpiane non parlano più di trasferimento dei gazawi (che nelle intenzioni di chi ha elaborato i piani per il futuro di Gaza dovranno svolgere il ruolo di forza-lavoro sottopagata e sottomessi servitori per i futuri padroni della Riviera).
Dal punto di vista degli obiettivi militari dichiarati, a parte la distruzione di Gaza, Israele non ha ottenuto ciò che voleva: la deportazione dei palestinesi non è riuscita; il genocidio è stato interrotto (per quanto a singhiozzo); gli ostaggi sono stati liberati solo in seguito a diverse trattative e molti di questi sono stati uccisi dai bombardamenti israeliani e dai gas tossici riversati nei tunnel (ma la vita degli ostaggi sappiamo non essere mai stato l’obiettivo principale del governo israeliano); la forza militare palestinese non è stata distrutta, avendo puntualmente sostituito i miliziani caduti; l’infrastruttura sotterranea di tunnel è stimata dall’esercito israeliano per la maggior parte ancora funzionale, mentre l’operazione “Tempesta di al-Aqsa” ha comunque raggiunto alcuni obiettivi politici (pagati a carissimo prezzo per la strategia genocida messa in atto da Tel Aviv): dimostrare che la resistenza palestinese è viva, che Israele non è invincibile, che le mura di quel campo di concentramento che è Gaza potevano essere abbattute (anche se permane il dubbio di una “Pearl Harbor” in salsa israeliana per poter apparire come vittime e scatenare il genocidio godendo dello status di “vittime innocenti” di un progrom, ma questo è un discorso che non possiamo approfondire qui)50. Infine Israele, mano a mano che il piano genocida diventava sempre più palese, ha perso il sostegno internazionale, per lo meno quello dei popoli dato che i governi Usa e Ue rimangono saldamente filosionisti.
Cisgiordania. Al di là dei disegni di legge approvati in prima lettura dal parlamento israeliano il 23 ottobre, col voto favorevole dei partiti di estrema destra insieme all’opposizione centrista liberal a riprova che il disegno sionista è unitario a prescindere dalle diverse formazioni politiche e dai rispettivi giochi tattici, che promuovono anche legislativamente l’annessione della Cisgiordania – il primo progetto di legge prevede l’annessione di tutte le colonie della Cisgiordania occupata ed è stato approvato con un solo voto di scarto; il secondo limitato all’annessione dell’insediamento di Maale Adumim a est di Gerusalemme ha invece ottenuto una larga maggioranza a confermare che è preferita la strategia dell’annessione della Cisgiordania un pezzo alla volta in modo meno clamoroso ed evidente51 –, e che Netanyahu si è trovato costretto a non appoggiare per non suscitare l’irritazione statunitense dato che Trump aveva promesso agli alleati arabi che non avrebbe permesso l’annessione: «Non accadrà. Non accadrà. Non accadrà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi. E non potete farlo ora. Abbiamo avuto un grande sostegno arabo. Non accadrà perché ho dato la mia parola ai paesi arabi. Non accadrà. Israele perderebbe tutto il sostegno degli Stati Uniti se ciò accadesse»52, minaccia che mai un presidente Usa aveva profferito in questi termini nei confronti di Israele, anche se quel “non potete farlo ora”, sembri sottintendere un “potrete farlo più avanti” e questa è sicuramente la posizione del segretario di Stato neocon Marco Rubio (2025-) quando ha dichiarato: «Penso che il presidente abbia chiarito che non è una cosa che sosterremmo in questo momento. E pensiamo che sia addirittura una minaccia per l’accordo di pace»53, ricordiamo inoltre che nel “piano di pace” di Trump la Cisgiordania non è citata, il che può anche far sorgere il sospetto che possa costituire merce di scambio per la (più redditizia) Riviera di Gaza.
Sulle affermazioni del presidente statunitense pesa anche la paura di perdere ulteriore appeal verso i paesi arabi sui quali gli Usa cercano di mantenere la presa ed estendere gli Accordi di Abramo e che vedono un’annessione della Cisgiordania come linea invalicabile, anche perché comprometterebbe l’ordine interno a questi paesi data la simpatia che la causa palestinese raccoglie fra i popoli arabi e islamici, ma molto meno presso i loro governanti.
Il vicepresidente Vance ha definito il voto del parlamento israeliano una “trovata politica molto stupida” e “un insulto”54. D’altro canto Netanyahu, appena dopo l’arrivo di Vance in Israele, si è sentito in obbligo di chiarire durante la conferenza stampa col vicepresidente Usa: «Non siamo un protettorato americano. Spetterà a Israele l’ultima parola sulla nostra sicurezza»55, cosa che la Knesset (letteralmente “assemblea”) ha cercato di mettere immediatamente in chiaro con il voto sull’annessione della Cisgiordania.
Di fatto l’annessione della Cisgiordania sta avvenendo senza bisogno di sanzioni giuridiche ufficiali, non ha più nemmeno senso parlare di “annessione strisciante” dato che il progetto di acquisizione risponde a un programma amministrativo, completo di strumenti legali, linee di bilancio e tutori burocratici56. Il governo di Netanyahu ha incrementato esponenzialmente le confische e ha espropriato terre in Cisgiordania più di quanto avesse fatto qualsiasi altro governo israeliano dal 1967. Dal 7 ottobre 2023 in avanti si sono moltiplicati gli assassinii a opera dell’esercito sionista e dei coloni – oltre un migliaio di palestinesi uccisi57, nel solo mese di ottobre 2025 si sono contati 2.350 attacchi contro i palestinesi58 e si sono moltiplicati gli insediamenti illegali: «Dal 7 ottobre 2023 in Cisgiordania esercito, polizia e coloni israeliani hanno effettuato 38.359 attacchi a terre, proprietà e vite palestinesi. I coloni hanno creato 114 nuovi insediamenti, cacciando dai loro centri abitati 33 comunità autoctone. Sono stati sequestrati circa 5.500 ettari di terreno agricolo di cui 2000 costituenti riserva naturale. Vi sono state costruite strade riservate agli ebrei, torrette militari, zone militari cuscinetto attorno alle colonie. Sono in corso di costruzione per coloni 37.415 nuove unità abitative. Il totale dei posti di blocco e barriere sale a 916, delle quali 243 eretti dal 7 ottobre 2023. In quello stesso periodo i coloni hanno appiccato 767 incendi su terreni agricoli, effettuato 1.014 demolizioni con la distruzione di 3.679 strutture palestinesi. A inizio settembre i palestinesi uccisi sono 1.079, i feriti 8.015, gli arrestati 22.633, le case distrutte 7.712, i luoghi sacri violati 1.034, gli attacchi a personale medico 314. 10.945 strade di comunicazione sono state sbarrate, 73.000 sono gli sfollati, il 90% dei campi profughi è stato obliterato»59; «A volte sembra che il capo del Comando Centrale delle Idf, Avi Bluth, essendo leale e obbediente al suo superiore – il ministro delle Finanze Bezalel Smotrich […] – stia conducendo un esperimento umano, insieme ai coloni e alla polizia: vediamo quanto possiamo tormentarli prima che esplodano. La speranza che la loro sete di violenza si placasse insieme agli scontri di Gaza è stata infranta. La guerra nella Striscia era solo una scusa. Dal momento che i media evitano la Cisgiordania e alla maggior parte degli israeliani – e degli americani – non importa davvero cosa vi succede, il tormento può continuare. Il 7 ottobre è stata davvero un’occasione storica per i coloni e i loro complici per fare ciò che non osavano fare da tempo […]. Circa 120 nuovi insediamenti, quasi tutti violenti, sono stati eretti da quel maledetto 7 ottobre, occupando decine di migliaia di acri, tutti con il sostegno dello Stato. Non passa settimana senza che vengano creati nuovi insediamenti; senza precedenti è anche la portata della pulizia etnica, che poi è l’obiettivo di tutto questo […]. Il volto della Cisgiordania cambia ogni giorno […]. Trump può vantarsi di aver fermato l’annessione, ma l’annessione è diventata più radicata che mai […]. La Cisgiordania, non meno della Striscia, invoca un urgente intervento internazionale. Soldati – americani, europei, emiratini o persino turchi – qualcuno deve proteggere i loro indifesi residenti. Qualcuno deve salvarli dalle grinfie dell’Idf e dei coloni. Immaginate un soldato straniero a un posto di blocco che ferma i coloni criminali diretti a un pogrom. Un sogno»60.
Appena siglata la “tregua”, che ha avuto anche il voluto pregio di distogliere l’attenzione internazionale dal genocidio, Israele ha scatenato un’offensiva in Cisgiordania. Di fronte agli attacchi di esercito e coloni altre decine di migliaia di palestinesi sono stati costretti alla fuga da case e campi profughi, nella più vasta operazione di sfollamento forzato dai tempi della guerra del 1967. Gli attaccanti hanno anche sigillato città e villaggi, impedendo anche i soccorsi umanitari con conseguenze umanitarie devastanti61.
Libano. Hizballah è stato duramente colpito, ma quando l’esercito israeliano nel settembre 2024 – dopo l’attentato terroristico con i cercapersone esplosi il 17 settembre, dopo l’uccisione il 27 settembre 2024 del segretario generale Hassan Nasrallah (1992-2024) e il 3 ottobre di Hashem Safieddine, presidente del consiglio esecutivo di Hizballah (2001-2024), la seconda carica del partito – ha cercato di penetrare nel territorio controllato dagli sciiti libanesi non è riuscito ad avanzare molto (un paio di chilometri) e ad avere ragione della resistenza libanese con l’esercito israeliano costretto a subire numerose perdite e soprattutto fallendo nell’obiettivo principale di costringere Hizballah a ritirarsi oltre il fiume Litani (una trentina di chilometri dal confine) e infatti (dopo la tregua fittizia mediata dagli Usa per togliere Israele dalle difficoltà e da una nuovo sconfitta) Tel Aviv, pur mantenendo il controllo di alcune zone strategiche nel sud del Libano62 ricorre a puntuali bombardamenti sulla popolazione libanese. Israele e gli Usa vorrebbero il disarmo completo di Hizballah, la tregua, violata da Israele quotidianamente, prevede solamente un disarmo nel sud del Libano fino al fiume Litani e non il disarmo totale che priverebbe il Libano del suo principale strumento di difesa e permetterebbe a Tel Aviv di conquistare un altro tassello del Grande Israele. L’obiettivo statunitense, apertamente dichiarato dall’inviato presidenziale Usa e ambasciatore in Turchia Tom Barrack (2025-), è quello di far fare il lavoro sporco all’esercito libanese (armato dagli Usa): «Chi combatteranno? Li armeremo perché possano combattere Israele? Non credo. Quindi, li armiamo perché possano combattere il loro stesso popolo. Hizballah»63. L’obiettivo finale è quello di disarmare Hizballah in modo da trasformare il Libano – col pericolo più che concreto di scatenare in questo modo una nuova guerra civile che garantirebbe comunque a Israele, nel caso non si riuscisse a disarmare il partito sciita, di ottenere comunque grandi vantaggi – in uno stato cliente alla mercé di Israele. Non vanno poi trascurate le mire israeliane sui giacimenti di gas nelle acque libanesi che Israele aveva già tentato di arraffare venendo fermato da Hizballah nel 2022. In caso di fallimento del progetto di disarmo del Partito di Dio, difficile da realizzare anche per l’opposizione della popolazione libanese, si dà per imminente un nuovo attacco israeliano su grande scala: «Se Beirut non interviene, l’ala militare di Hizballah dovrà inevitabilmente affrontare un duro scontro con Israele, in un momento in cui Israele è al culmine della sua forza e il sostegno iraniano a Hizballah è al minimo»64 le minacce pronunciate da Barrack il 20 ottobre.
Siria. In Siria un’importante vittoria è stata ottenuta appoggiando i qaidisti di al-Jolani che hanno rovesciato Assad. Israele si è impadronito di un’altra porzione di Siria (oltre alla parte di Golan illegalmente occupato dal 1967) e ha distrutto l’infrastruttura militare siriana, ma soprattutto ha raggiunto l’obiettivo che si proponeva di realizzare da tempo e cioè por fine all’esistenza stessa della Siria quale stato unitario e sovrano. Israele punta a una divisione della Siria su basi settarie in modo da garantirsene la debolezza, un divide et impera con cui si tratta di contrapporre le minoranze alla maggioranza sunnita puntando ad alimentare le spinte separatiste delle diverse etnie siriane. Israele punta a realizzare il progetto denominato “Corridoio di Davide”, un piano inserito nel disegno grandeisraeliano che mira a collegare i territori siriani controllati dai curdi a Israele attraverso una rotta terrestre continua che unisca il Golan occupato con l’Eufrate fornendo a Tel Aviv una connessione strategica nel cuore del Medioriente. Un progetto che punta a sfruttare le minoranze come quelle druse e curde in funzione antiaraba. Il Corridoio di Davide tornerebbe utile anche agli Usa nell’ottica di un indebolimento di Teheran. I progetti di balcanizzazione della Siria (già delineati nel “piano Yinon” del 1982)65 sono però osteggiati dalla Turchia che punta a sviluppare un’egemonia su uno stato cliente ma unitario e non frammentato in una molteplicità di entità etniche che finirebbero per avvantaggiare i curdi con pericolose ripercussioni sulla tenuta della stessa Turchia.
Yemen. Lo Yemen si è rivelato essere uno dei fronti più difficili per Tel Aviv. Ansarallah ha creato grossi danni all’economia israeliana bloccando con i suoi attacchi il porto di Eilat e determinandone la bancarotta e ha resistito agli attacchi di sionisti e alleati statunitensi ed europei che sono dovuti intervenire ad aiutare Israele in difficoltà e che, dopo aver consumato ingenti scorte di missili, sono stati costretti a firmare un cessate il fuoco con gli yemeniti.
Iran. L’Iran non solo ha resistito all’attacco subito nella cosiddetta guerra dei 12 giorni (13-24 giugno 2025), che nelle intenzioni doveva portare a un cambio di regime o, meglio ancora, a una frantumazione dello stato su modello siriano con una suddivisione in molteplici microentità più facili da sottomettere, ma ha risposto colpo su colpo, ha mantenuto le sue scorte di uranio al punto che sono dovuti intervenire gli Usa, non per cercare di portare a termine il lavoro iniziato da Israele ma fondamentalmente per salvare Israele stessa dal fallimento con un attacco concordato con Teheran, e seguente replica sulla base statunitense in Qatar, per impedire che la situazione di Israele diventasse insostenibile (con relativo pericolo di uso dell’atomica da parte sionista). L’Iran sul piano della coesione interna è uscito rafforzato dall’attacco che ha suscitato un forte sentimento di unità nazionale, anche in chi critica il regime degli ayatollah, e sul piano internazionale ha rafforzato la collaborazione con Russia e Cina che costituiscono l’unica garanzia di sicurezza per Teheran: «L’attacco israeliano all’Iran non è stato solo una mossa militare: è stato il tentativo di riaffermare una supremazia strategica in declino. Israele e Stati Uniti si muovono dentro una logica che considera il controllo della regione mediorientale come una condizione imprescindibile per mantenere la propria centralità geopolitica. Ma questa logica si scontra oggi con la crescente assertività di potenze come Russia e Cina, decise a non lasciare campo libero all’Occidente […]. Per Washington la posta in gioco è enorme. L’Iran non rappresenta solo una minaccia regionale, ma una sfida sistemica: è uno dei pilastri dell’asse con Russia e Cina, un blocco che si propone come alternativa politica, economica e strategica all’Occidente. Questa alleanza si inserisce nei corridoi di connettività che uniscono l’Eurasia, creando un tessuto infrastrutturale e commerciale che riduce la centralità americana e europea. In questo contesto, Israele è usato come punta di lancia per contenere l’espansione di questo asse. Ma l’operazione militare non ha fatto che rafforzare il legame tra Teheran, Mosca e Pechino, consolidando il fronte opposto. La risposta iraniana ha dimostrato che questo triangolo non è un’alleanza di facciata, ma una vera e propria architettura di resistenza globale […]. In un mondo multipolare, ogni attacco diventa un acceleratore di alleanze alternative. La risposta iraniana ha reso evidente che il costo politico e militare per l’Occidente sarà altissimo, e che la vittoria rapida è ormai un’illusione […]. L’escalation tra Israele e Iran non è solo un conflitto bilaterale. È un tassello di un confronto globale tra potenze, in cui si giocano i futuri equilibri strategici. L’attacco israeliano, lungi dall’aprire la strada a una “vittoria preventiva”, ha rivelato l’esaurimento di un paradigma geopolitico: quello in cui l’Occidente decideva unilateralmente, e gli altri subivano […]. E la vera domanda, a questo punto, non è se Israele vincerà, ma quanto a lungo l’Occidente sarà disposto a sostenere una guerra che ha perso la capacità di decidere da sola l’esito finale»66.
A parte la vittoria in Siria, peraltro per interposta persona jihadista, gli altri fronti non hanno portato ai risultati sperati, ma sono stati in alcuni casi (Iran) molto vicini a trasformarsi in una pericolosa debacle. Ma oltre alla sconfitta militare vi è anche una pericolosa sconfitta politica e morale perché la realtà di uno stato aggressore e genocida è sempre più di dominio pubblico e ha distrutto la reputazione di Israele, perlomeno dove restava ancora positiva come in Occidente.
Ma veniamo all’“abisso economico” di cui parlava l’Inss. Piccolo stato (22.000 kmq) con popolazione scarsa (10 milioni, di cui il 73% ebrei) che se viene impegnata a fare la guerra non può produrre, con un’economia fortemente terziarizzata e con forti contraddizioni sociali al suo interno: «oltre il 20 per cento degli israeliani vive sotto la soglia di povertà, mentre il 77 per cento delle 500 persone più ricche del Paese rientra tra i miliardari. È una delle nazioni più diseguali al mondo. C’è una grave crisi abitativa, con oltre 20.000 persone che stentano a pagare l’affitto e una lunga lista d’attesa per gli alloggi popolari»67. La crisi descritta da Ilian Pappé è quindi complessiva e profonda, toccando anche ambiti prima considerati pilastri della forza israeliana, come l’efficienza dell’esercito e dello stato.
Le spese militari dell’ultimo biennio, la sola guerra con l’Iran è costata intorno ai 9 miliardi di dollari e a Gaza sono stati spesi fra i 59 e i 67 miliardi, hanno aperto voragini, per quanto colmate in parte dagli Usa, nei bilanci statali68.
Il progetto di Netanyahu di trasformare Israele in una “super Sparta”, quale conseguenza del sempre più grande isolamento del paese sulla scena mondiale, sembra non tenere conto che una società isolata e militarista, fondata su un’estrema stratificazione sociale, sulla stagnazione economica è in contraddizione con la realtà economica israeliana, dato che i principali successi economici di Israele (innovazione tecnologica, scoperte scientifiche) derivano dalla sua integrazione nel sistema capitalistico mondiale, non dal suo isolamento. Quella che è stata definita “startup nation”69, che ha reso Israele un polo tecnologico globale, si basa interamente su partnership internazionali, investimenti esteri e mercati aperti. Anche potenze come Cina e Usa dipendono fortemente dalle catene di approvvigionamento globali e dal commercio internazionale, figuriamoci un paese è privo di risorse naturali significative, ha un mercato interno limitato e dipende fortemente dalle importazioni di materie prime ed energia70.
Il progetto della “super Sparta” va di pari passo con quello del Grande Israele, a questo punto l’obiettivo potrebbe essere quello del raggiungimento di status di grande potenza imperialistica regionale – ma per fare ciò bisogna sconfiggere tutti i nemici, Iran in testa, e conquistare le loro risorse, energetiche prima di tutto, non è forse un caso che uno dei prossimi obiettivi delle mire militari israeliane potrebbe essere l’Iraq – sufficientemente forte e autonoma da poter diventare indipendente anche dagli Usa.
Altro elemento che ha favorito la realizzazione di una tregua temporanea è il tentativo, attraverso la sospensione del genocidio, di disinnescare qualsiasi pressione su Israele, e magari anche il rischio di sanzioni, fornendo così un comodo alibi ai complici di Israele fra i quali spicca l’Ue che ha immediatamente sospeso il processo che ipotizzava la revoca dei privilegi commerciali conseguenti al Trattato di associazione tra Ue e Israele (2000)71.
Conclusioni: verso nuova guerra con l’Iran?
Resta il problema fondamentale: il governo in carica, coi suoi componenti di sionismo messianico, deve continuare la sua politica espansionistica volta alla realizzazione del Grande Israele, ma il discorso varrebbe pari pari anche per un eventuale nuovo governo che coinvolgesse l’opposizione liberale, dato che gli obiettivi espansionistici accomunano il sionismo di ogni genere e tipo, e quel che più conta questa politica, genocidio palestinese compreso, è condivisa da una parte nettamente maggioritaria della popolazione (oscillante fra i due terzi e i tre quarti nei vari sondaggi). La fine della guerra permanente potrebbe accelerare la crisi interna israeliana e, nei suoi esiti estremi, aprire le porte alla guerra civile fomentata dalla crisi economica, politica e militare di Israele, del resto molti israeliani stanno abbandonando da tempo il paese: «Trump è accorso per evitare il peggio, salvare il salvabile, estrarre Israele da un isolamento fatale e dalla perdita di qualsiasi credibilità politica e autorità morale: un paria tra le nazioni. Ciò su cui, tuttavia, non ha potere di intervenire è il rischio di implosione dello Stato. Che oggi non è più solo la massima espressione dell’apartheid, vituperata dall’opinione pubblica mondiale, ma soffre di profonde lacerazioni interne e di un abissale distacco della società dalla sua classe politica. Una popolazione che ha vissuto per due anni il trauma dell’indifferenza del suo governo per il destino dei concittadini prigionieri della Resistenza. Che vede milioni di suoi cittadini, gli haredim, ribellarsi al servizio militare. Che subisce l’ostracismo dei popoli un tempo solidali, che vive un’insicurezza snervante per gli attacchi che subisce da nemici vari e che la costringono a una vita nei bunker. Si aggiungano le difficoltà causate dal trasferimento di professionisti dai luoghi di lavoro alla riserva militare impegnata in guerre che non finiscono mai, dalla rottura di rapporti commerciali e accademici con l’esterno e, soprattutto con il dato drammatico che i palestinesi tornano, mentre gli israeliani partono. Il rapporto tra chi arriva nello Stato ebraico e chi ne parte si è invertito a detrimento dell’immigrazione, condizione di sopravvivenza per Israele. Mancano i dati dal 2024 a oggi, quando comunque si sa di interi insediamenti, specialmente in Galilea e ai margini di Gaza, abbandonati da coloni non più rientrati. Un’informativa del parlamento, pubblicato il 20 ottobre, registra 145.000 abbandoni tra il 2020 e il 2024, con un forte aumento, fino al 44%, di anno in anno. La maggioranza di costoro ha alle spalle 13 e più anni di istruzione e il 26% ha una formazione accademica completa. Il parlamentare Gilad Kariv l’ha chiamata, non un’ondata di emigranti, ma uno tsunami di abbandoni»72.
Da questo punto di vista c’è anche da considerare come la tregua (per quanto fittizia possa essere), oltre alla necessità di far tirare il fiato all’esausta economia israeliana e al suo esercito, possa rispondere alla necessità di chiudere un fronte per preparare un nuovo attacco all’Iran, attacco che dai vertici iraniani viene dato per scontato come sostenuto dal presidente della repubblica islamica: «Non c’è dubbio che attaccheranno l’Iran. E noi ci difenderemo con vigore […]. L’Iran non è Gaza. L’Iran non è il Libano. L’Iran non è la Siria. L’Iran è qualcosa di diverso»73. L’Iran e l’Asse della resistenza (indebolito con la caduta della Siria e i colpi subiti da Hizballah e il genocidio di Gaza) rimangono l’obiettivo prioritario dell’asse liberal-neocon-sionista (più che di Trump). Si tratta di ridisegnare le mappe mediorientali per garantire l’egemonia dell’imperialismo regionale israeliano e il controllo dell’imperialismo mondiale statunitense delle rotte energetiche e commerciali dell’Asia occidentale danneggiando la Bri cinese.
La sospensione del genocidio a Gaza imposta da Trump potrebbe essere compensata con il via libera per l’annessione della Cisgiordania e/o con un nuovo tentativo di rovesciare l’Iran? I liberal-neocon spingono Israele a sfruttare l’indebolimento dell’Asse della resistenza per sferrare un nuovo attacco, che auspicano evidentemente decisivo, a Teheran. Con un attacco all’Iran, e meglio ancora con un suo rovesciamento, Israele potrebbe recuperare parte del credito perso con lo sterminio dei palestinesi e presentarsi di nuovo come alfiere degli interessi dell’Occidente, o per dirla più brutalmente, ma sinceramente, si troverebbe a fare il lavoro sporco per l’Occidente com’ebbe a dire il cancelliere tedesco Friedrich Merz (2025-) in occasione della guerra dei 12 giorni74: il 22 settembre «Il primo ministro Benjamin Netanyahu ha dichiarato, in un brindisi con il General Staff Forum, il capo di stato maggiore, il tenente generale Eyal Zamir, e il ministro della Difesa Yisrael Katz, che “dobbiamo distruggere l’asse iraniano, e questo è in nostro potere”. Netanyahu, che ha annunciato la continuazione della guerra nel capodanno ebraico, ha aggiunto: “Questo è ciò che ci aspetta nel prossimo anno, che potrebbe essere un anno storico per la sicurezza di Israele”»75, progetto che è condiviso anche dall’opposizione israeliana a Netanyahu.
Maurizio Brìgnoli (Milano, 1966) ha collaborato con la Contraddizione, l’AntiDiplomatico, la Città futura, Il Calendario del Popolo, Informazione filosofica, Recensioni filosofiche. Ha pubblicato Breve storia dell’imperialismo, La Città del Sole, Napoli 2010; Jihad e imperialismo, L.A.D., Roma 2023.
1 “Medioriente, Trump dall’Air Force One: ‘La guerra è finita’”, RaiNews, 13 ottobre 2025.
2 Sulla base degli studi pubblicati da The Lancet sui primi 9 mesi di uccisioni a Gaza le proiezioni ad aprile 2025 raggiungevano le 136.000 morti violente, considerato che sulla base dei conflitti studiati il rapporto fra morti dirette e indirette per privazioni imposte è di 1 a 4 si arriva alla cifra di 680.000 ad aprile 2025 (cfr. Richard Hill, “Gaza Death Toll Far Worse than Reported in Western Media”, Independent Australia, 12 agosto 2025, tr. it., “Le vittime a Gaza: ‘non 60.000, ma oltre mezzo milione’”, Contropiano, 20 agosto 2025).
3 Cfr. Davide Malacaria, “Gaza: l’ingegneria della fame”, Piccole note, 14 novembre 2025.
4 Cfr. John M. Mearsheimer – Stephen M. Walt, La Israel lobby e la politica estera americana, Mondadori, Milano 2007, pp. 407-32. Per un’analisi critica dei rapporti fra Usa e Israele interna agli apparati di potere statunitensi e agli ambienti conservatori cfr. Trita Parsi – Marcus Stanley, “Unquestioning Support for Israel Will Only Deepen America’s Problems in the Middle East”, Quincy Institute for Responsible Statecraft, 11 settembre 2025; Roberto Vivaldelli, “L’intervista Carlson-Fuentes divide i Maga: lo scontro totale sull’alleanza Usa-Israele”, InsideOver, 4 novembre 2025.
5 The Diary of Ronald Reagan, Casa Bianca, 12 agosto 1982, The Ronald Reagan Presidential Foundation & Institute. Cfr. anche Lou Cannon, The Reagan Paradox. The Conservative Icon and Today’s GOP, Time Books, New York 2014, p. 41.
6 Cit. in Thomas L. Friedman, “Israel, Ignoring Bush, Presses for Loan Guarantees”, The New York Times, 7 settembre 1991.
7 Cfr. Philip Weiss, “Why I’m voting for Eisenhower over Obama”, Mondoweiss, 13 luglio 2010.
8 Ibidem.
9 Cfr. Jacob Magid – Lazar Berman, “Netanyahu Apologizes to Qatar for Violating Its Territory with Strike on Hamas Chiefs”, The Times of Israel, 29 settembre 2025.
10 Cfr. Kathryn Watson, “Hegseth Announces Qatar Will Build Air Force Facility at U.S. Base in Idaho, Cbs, 10 ottobre 2025
11 Cfr. Donald J. Trump, “Assuring the Security of the State of Qatar”, Casa Bianca, 29 settembre 2025.
12 Cfr. “Saudi Arabia in Talks for US Defence Pact”, Financial Times, 17 ottobre 2025; Sean Mathews, “From Nukes To AI-Powered Drones: Saudi Arabia’s Sophisticated Wishlist for Washington”, Middle East Eye, 14 novembre 2025.
13 Cfr. “Trump Declares KSA ‘Major Non-NATO Ally’ As Mbs Pledges $1 Trillion in Investments”, The Cradle, 19 novembre 2025.
14 Cfr. Taut Bataut, “Trump’s Push for the Abraham Accords Is a Threat to Global Peace and Stability”, New Eastern Outlook, 21 ottobre 2025.
15 Cfr. Alexandr Svaranc, “Israel’s Aggressive Behavior Threatens the U.S.-Backed Middle East Alliance Strategy”, New Eastern Outlook, 10 ottobre 2025.
16 Cit. in “Riyadh Realigns: Tehran over Tel Aviv”, The Cradle, 8 luglio 2025.
17 Ibidem.
18 Cfr. Giacomo Gabellini, “Le prospettive dell’accordo nel settore della Difesa tra Arabia Saudita e Pakistan”, Analisi Difesa, 24 ottobre 2025.
19 Cfr. Zvi Bar’el, “Quietly Watching from the Sidelines as Israel Strikes in Neighboring Qatar: Iran”, Haaretz, 12 settembre 2025.
20 Cfr. “L’organismo congiunto di difesa del Consiglio di cooperazione del Golfo decide di accelerare l’attuazione del sistema di allerta precoce contro i missili balistici” (originale in arabo), Al Arabiya, 18 settembre 2025
21 Cfr. Dennis Ross, “Yitzhak Rabin Knew What Netanyahu Doesn’t”, The Washington Institute for Near East Policy, 4 novembre 2025; Roberto Iannuzzi, “Il progetto mediorientale di Israele e Stati Uniti: egemonia o collasso?”, Intelligence for the People, 7 novembre 2025.
22 Cfr. “Nearly 8 In 10 Voters Say the United States Is in a Political Crisis, Quinnipiac University National Poll Finds; Optimism Sinks for Freedom of Speech Being Protected in the U.S.”, Quinnipiac University Poll, 24 settembre 2025.
23 Cfr. Taylor Herzlich, “Over 10K Posts Tie Charlie Kirk’s Murder to Israel as Conspiracy Theories Explode Online: ADL Report”, New York Post, 12 settembre 2025. Sulle minacce ricevute da Kirk dagli ambienti filoisreliani cfr. Max Blumenthal – Anja Parampil, “Charlie Kirk Refused Netanyahu Funding Offer, Was ‘Frightened’ by Pro-Israel Forces Before Death, Friend Reveals”, The GrayZone, 12 settembre 2025.
24 Cfr. Roberto Vivaldelli, “‘Una potenza straniera coinvolta’: scontro tra Fbi e antiterrorismo sull’omicidio di Charlie Kirk”, InsideOver, 30 ottobre 2025.
25 Cfr. Lazar Berman, “Netanyahu Pans ‘Insane’ Conspiracy Theories Blaming Israel for Charlie Kirk Killing”, The Times of Israel, 12 settembre 2025.
26 Cfr. “Cross-Tabs: September 2025 Times/Siena National Poll of Registered Voters”, The New York Times, 29 settembre 2025; Lisa Lerer – Ruth Igielnik, “Americans’ Support for Israel Dramatically Declines, Times/Siena Poll Finds”, The New York Times, 29 settembre 2025.
27 Cfr. Jason Lange, “Most Americans Support US Recognition of Palestinian State, Reuters/Ipsos Poll Shows”, Reuters, 23 ottobre 2025.
28 Cit. in Jacob Magid, “US Denies Hamas Violating Deal, Is Aiming to Set Up Safe Zone for Gazans Fleeing Group”, The Times of Israel, 16 ottobre 2025.
29 Ibidem.
30 Cit. in, “Hamas Did Take Out ‘A Couple of’ Gangs: Trump”, Middle East Monitor, 14 ottobre 2025.
31 Cit. in Adam Cancryn, “Trump Threatens To ‘Go in and Kill’ Hamas If Group Doesn’t Stop Killing in Gaza”, Cnn, 16 ottobre 2025.
32 Cfr. Robert Inlakesh, “Israel-Backed Militias Linked to Isis Loot Gaza Aid Under Idf Watch”, MintPress, 29 maggio 2025; Raffaele Riccardo Buccolo, “Israele protegge l’Isis a Gaza: il caso di Yasser Abu Shabab”, InsideOver, 31 maggio 2025.
33 Cfr. “Four Militias Backed by Israel, Arab States Plan ‘Project New Gaza’ To Dismantle Hamas: Report”, The Cradle, 26 ottobre 2025.
34 Cfr. Ryan Grim, X, 19 ottobre 2025, 8.12 p.m., https://x.com/ryangrim.
35 Cfr. Ben Samuels, “Trump: Hamas Probably ‘Not Involved’ in Gaza Militant Attack on IDF, ‘Maybe Some Rebels’”, Haaretz, 20 ottobre 2025.
36 Cit. in Jacob Magid, “Trump Says Hamas ‘Promised’ To Disarm But ‘No Hard Timeline’ For When”, The Times of Israel, 19 ottobre 2025.
37 Cit. in Jacob Magid, “Vance Downplays Current Israel-Hamas Flareup, Says Ceasefire Will Hold”, The Times of Israel, 28 ottobre 2025.
38 Cit. in Natan Odenheimer – Eric Schmitt “U.S. Flies Drones Over Gaza to Monitor Cease-Fire, Officials Say”, The New York Times, 24 ottobre 2025.
39 Cfr. Karen DeYoung et al., “U.S. Steps Up Gaza Aid Role to Support Fragile Ceasefire”, The Washington Post, 8 novembre 2025.
40 Hussein Agha – Robert Malley, “Life in Gaza May Go from Utter Hell to Mere Nightmare. What Happens Now?”, The Guardian, 14 ottobre 2025.
41 Cfr. Gershon Baskin, “We Can Begin to Breathe Again: Initial Thoughts on This Morning’s Developments”, The Times of Israel, 9 ottobre 2025; Davide Malacaria, “Gaza: l’accordo attuale era stato rigettato da Biden”, Piccole note, 13 ottobre 2025.
42 Cfr. Alex MacDonald, “Vast Majority of Israelis Believe There Are ‘No Innocents’ in Gaza, Says Poll”, Middle East Eye, 26 agosto 2025; “Poll: 62% Of Israelis Say ‘There Are No Innocent People in Gaza’”, i24News, 25 agosto 2025.
43 Tamir Hayman, “The Historic Deal—and the Day After”, The Institute for National Security Studies, 9 ottobre 2025.
44 Cfr. Roberto Iannuzzi, “A Gaza Trump tenta di porre un argine a Israele, ma il futuro è fosco”, Intelligence for the People, 17 ottobre 2025.
45 Cfr. Forum Palestina, “Il genocidio dei palestinesi si è fermato solo sui mass media”, Contropiano, 12 novembre 2025.
46 “Read the Full Transcript of Donald Trump’s Interview on the Gaza Ceasefire With TIME”, Time, 23 ottobre 2025.
47 Cfr. “These Numbers Show How 2 Years of War Have Devastated Palestinian Lives in Gaza”, Npr, 7 ottobre 2025.
48 Cfr. “A Dual Crisis- Palestinian Public Opinion Amidst Occupation and a Leadership Vacuum”, Palestinian Center for Policy and Survey Research – Press Release: Public Opinion Poll No (96), 28 ottobre 2025.
49 Cfr. Radio Gaza. Cronache della resistenza (canale YouTube dell’AntiDiplomatico); Michelangelo Severgnini, “‘Il Governo della Striscia appartiene ancora ad Hamas’ - Nuove testimonianze esclusive da Gaza”, l’AntiDiplomatico, 13 novembre 2025.
50 Sui molti elementi poco chiari da parte israeliana relativi all’attacco del 7 ottobre cfr. Roberto Iannuzzi, Il 7 ottobre tra verità e propaganda. L’attacco di Hamas e i punti oscuri della narrazione israeliana, Fazi, Roma 2025.
51 Cfr. Alessandro Avvisato, “Da una parte l’annessione della Cisgiordania, dall’altra la divisione di Gaza”, Contropiano, 24 ottobre 2025.
52 “Read the Full Transcript of Donald Trump’s Interview on the Gaza Ceasefire With TIME”, Time, 23 ottobre 2025.
53 Cit. in Yolande Knell – David Gritten, “Vance and Rubio Criticise Israeli Parliament’s Vote on West Bank Annexation”, Bbc, 23 ottobre 2025.
54 Cfr. “Vance Slams Israel’s Parliament Vote on West Bank Annexation, Calling It an ‘Insult’”, Npr, 23 ottobre 2025.
55 Cit. in “PM Benjamin Netanyahu Stresses Israel Not a US Protectorate, JD Vance Responds: ‘We Don’t Want One’”; The Jerusalem Post, 22 ottobre 2025.
56 Cfr. Gil Murciano, “Israel: From Creeping to Decisive Annexation”, in Erwin van Veen (a cura di), The Future of the Occupation of the Palestinian Territories after Gaza. Scenarios, Stakeholders and “Solutions”, Palgrave MacMillan, L’Aia-Londra 2025, pp. 71-84; “Sovereignty in All but Name: Israel’s Quickening Annexation of the West Bank”, International Crisis Group, Report n. 252, 9 ottobre 2025.
57 Cfr. United Nations, “The Question of Palestine”, 17 ottobre 2025.
58 Cfr. “Israeli Army, Settlers Strike 2,350 Times in West Bank Last Month: Report”, Al Jazeera, 5 novembre 2025.
59 Fulvio Grimaldi, “Stato palestinese, dove? “Piano di pace”: Gaza a me, Cisgiordania a te?”, l’AntiDiplomatico, 14 ottobre 2025.
60 Gideon Levy, “It’s No Longer Possible to Be a Palestinian in the West Bank”, Haaretz, 26 ottobre 2025.
61 Cfr. Lavinia Marchetti, “La rimozione del genocidio palestinese dopo il cessate il fuoco, come prevedibile”, Contropiano, 9 novembre 2025.
62 Cfr. “‘A dead zone’: Why is Israel still occupying these five positions in Lebanon?”, The New Arab, 18 febbraio 2025.
63 Cit. in “US Envoy Confirms Washington Helping Lebanese Army To ‘Fight Its Own People’”, The Cradle, 23 settembre 2025 (video dell’intervista di Barrack: https://www.youtube.com/watch?v=1qM3i0sGl0U). Cfr. anche “US Approves $230m for Lebanese Army, Security Forces: Report”, The Cradle, 3 ottobre 2025.
64 Cit. in. “Large-Scale Israeli War on Lebanon ‘A Matter of Time’: Report”, The Cradle, 24 ottobre 2025.
65 Israel Shahak (a cura di), The Zionist Plan for the Middle East. From Oded Yinon’s “A Strategy for Israel in the Nineteen Eighties”, § 22 e 23, Association of Arab-American University Graduates, Belmont, Massachussets 1982. Cfr. anche Michel Chossudovsky, “‘Greater Israel’: The Zionist Plan for the Middle East”, Global Research, 22 giugno 2017.
66 Giuseppe Gagliano, “La guerra che non finisce mai”, Analisi Difesa, 18 ottobre 2025.
67 Cfr. Ilian Pappé, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina, Fazi, Roma 2025, p. 66.
68 Cfr. Andrea Muratore, “Il costo della guerra: Israele verso il 2026 si aspetta alto deficit e molte spese”, InsideOver, 25 ottobre 2025.
69 Cfr. Dan Senor – Saul Singer, Start-up Nation: The Story of Israel’s Economic Miracle, Twelve, New York 2009.
70 Cfr. Leon Hadar, “Netanyahu’s ‘Super-Sparta’ Delusion Risks National Self-Destruction”, Asia Times, 22 settembre 2025.
71 Cfr. Forum Palestina, “L’Unione Europea sospende la proposta di sanzioni contro Israele”, Contropiano, 22 ottobre 2025.
72 Fulvio Grimaldi, “Il 7 ottobre come Rashomon – Il giorno e la storia”, l’AntiDiplomatico, 4 novembre 2025.
73 Cit. in Max Blumenthal, “‘No Doubt They Will Attack’: Max Blumenthal Meets Iran’s President in NYC”, The GrayZone, 27 settembre 2025.
74 Cfr. Girogio Cremaschi, “Merz ammette che Israele fa il lavoro sporco per noi: com’era la storia dell’aggressore e dell’aggredito?”, Il Fatto Quotidiano, 18 giugno 2025.
75 Itamar Eichner, “Netanyahu annuncia la continuazione della guerra: quest’anno l’asse iraniano deve essere distrutto” (originale in ebraico), Ynet, 22 settembre 2025.

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