Logiche securitarie contro il lavoro pubblico

Logiche securitarie contro il lavoro pubblico

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di Federico Giusti

Nel giugno scorso, sotto il solleone di inizio estate, veniva approvato l’aggiornamento del nuovo codice di comportamento dei dipendenti pubblici nel silenzio assenso della stragrande maggioranza del sindacato italiano, concertativo e non.

Su Lentepubblica.it scrivevano espressamente che le linee guida di questa revisione rientravano tra gli obiettivi del PNRR per la Pubblica amministrazione come se l’efficientamento e l’ammodernamento della macchina pubblica passassero non da investimenti reali, da dotazioni organiche adeguate e strumenti di lavoro moderni ed efficienti ma solo dal processo repressivo atto a chiudere la bocca alla forza lavoro.

Il testo, già presentato in Parlamento venne poi bloccato dal Consiglio di Stato con alcune motivazioni degne di attenzione, ad esempio, laddove si criticava la indeterminatezza delle condotte sanzionabili anche in virtù di espressioni linguistiche di dubbio significato. Sempre il Consiglio di Stato chiese all’Esecutivo una revisione del testo in base a un’analisi che dia conto degli sprechi intervenuti nelle risorse e nei materiali e di quanto essi siano addebitabili a comportamenti individuali anziché a carenze di sistema ed al regime di finanziamento in consolidamento di bilancio (che, notoriamente, contraddice la raggiungibilità di standard ambientali virtuosi in assenza di investimenti nelle strutture fisiche della stessa p.a., oltre che, in generale, per tutti i cittadini destinatari di tali standard).

Osservazioni intelligenti ma anche scontate se ricondotte a un pensiero critico che da sempre evidenzia le criticità, e i limiti, della Pubblica amministrazione attraverso processi decisionali subiti dalla forza lavoro come dimostra l’assenza di investimenti, i 9 anni di blocco della contrattazione e delle assunzioni fino alla campagna denigratoria condotta contro il personale della Pa alimentata per altro dalla politica.

 Il testo promuove il divieto di ogni forma di discriminazione legata alle “condizioni personali del dipendente”, dall’orientamento sessuale al genere, passando per disabilità e differenze etniche e religiose. Fin qui nulla di nuovo se non la mera constatazione che per rendere meno amaro un provvedimento di solito si costruisce una cortina fumogena atta a deviare la attenzione pubblica dai problemi reali che non sono la lotta alle discriminazioni di vario genere ma costruire invece un clima da caserma impedendo nei fatti anche l’esercizio di critica.

Non ci riferiamo alle invettive social dettate spesso dalla impotenza e dalla assenza di fondate ragioni per esprimere una critica o anche un semplice punto di vista, del resto veniamo da anni nei quali l’applicazione dei codici comportamentali e dell’obbligo di fedeltà aziendale è stata funzionale a reprimere, sanzionare e licenziare anche le voci scomode come negli anni pandemici. Ma il clima da social viene alimentato anche dalla politica nella sua somma incoerenza tra le dichiarazioni rese in campagna elettorale e una prassi incoerente una volta raggiunto il potere.

E’ veramente discutibile il dovere dei dipendenti di contribuire direttamente alla promozione e al mantenimento di un ambiente e di una organizzazione del lavoro in base a principi ispirati e fondati su  correttezza, libertà, dignità ed uguaglianza. Le disuguaglianze in seno alla Pa sono molteplici a partire da quelle salariali e contrattuali (sia a livello nazionale che decentrato) eppure questi principi improntati alla correttezza vengono scaricati sul singolo dipendente come se fosse lui, o lei, il responsabile dei problemi annosi che affliggono il settore pubblico.

Come avvenuto da tempo nelle imprese private si raccomanda il corretto utilizzo degli strumenti informatici, dei mezzi di informazione e dei media che poi equivale a non fare alcun ricorso agli stessi se non nell’ottica della cieca , e sovente acritica, obbedienza.

E’ scontato il divieto di pubblicare dichiarazioni offensive nei confronti dell’amministrazione, dei colleghi e collaboratori ma qual è il confine che separa una presa di posizione dettata dalla libertà di espressione da una critica ritenuta invece offensiva? Vengono bandite e censurate perfino le opinioni del dipendente e questo ci sembra in palese contrasto perfino con le norme costituzionali.

E qui subentra la nozione di decoro utilizzata in taluni casi, il cosiddetto decoro urbano, per far passare i pacchetti sicurezza come norme atte a migliorare le città quando poi si sono rivelati strumenti contro gli ultimi, migranti o senza fissa dimora che fossero, provvedimenti funzionali alle logiche securitarie delle città vetrina. Non è casuale che questa stretta repressiva si leghi alla misurazione della performance dei dipendenti sulla quale è uscito da poco il ministro Zangrillo che nel giugno scorso diceva. “Dobbiamo passare da una logica del controllo a quella della responsabilità e della misurazione dei risultati: la performance non deve più essere un tabù, perché per migliorare bisogna prima valutare dove insistere e cosa rafforzare”.

Peccato che oggi si voglia riproporre la cultura del merito come antidoto di tutti i mali della Pubblica amministrazione quando proprio la performance palesa i suoi obiettivi reali ossia mettere le mani in tasca del personale con erogazioni diseguali e inique del salario accessorio

Gazzetta Ufficiale

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