Le ipotesi in campo sul futuro dell'Ucraina post Maidan

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Le ipotesi in campo sul futuro dell'Ucraina post Maidan

 

di Fabrizio Poggi per l'AntiDiplomatico

 

A Bruxelles vogliono la guerra. Non si preoccupano più nemmeno di nasconderlo. «Non possiamo parlare di fare di meno quando dovremmo fare di più» per alimentare il conflitto in Ucraina, ha proclamato una degli eredi di quei komplizen che ottant'anni fa marciavano compatti dietro le schiere hitleriane nel Baltico e oggi sproloquiano di “valori europeisti” e “resilienza democratica”, esigendo più soldi per la guerra sottraendoli alle spese sociali.

Dettando la “linea” della “diplomazia” europeista, Kaja Kallas è sicura che «l'Ucraina dovrebbe essere la principale priorità» della UE che, tradotto, suona come “la guerra con la Russia ha la precedenza assoluta su tutto il resto”. Dunque, ben venga il 5% del PIL per le spese di guerra, secondo gli ordini impartiti da Donald Trump, per rimpolpare le entrate del complesso militare-industriale USA.

Ma, quanto conta davvero l'Europa? Secondo l'americano “Politico”, Trump e Putin sono d'accordo su una cosa: togliere di mezzo il beniamino dell'Europa, Vladimir Zelenskij, indicendo le elezioni presidenziali. Nei giorni scorsi, il rappresentante speciale yankee per l'Ucraina, Keith Kellogg, aveva anticipato che «nella maggior parte delle democrazie, le elezioni si tengono anche in tempo di guerra», in riferimento all'annullamento del voto decretato dal jefe de la junta golpista la scorsa primavera col pretesto della guerra. Poi il colpo di grazia: «la forza di una democrazia stabile è data dalla presenza di più di un candidato»: ad esempio l'ex Capo di SM Valerij Zalužnij o il capo dei Servizi Kirill Budanov. Da Mosca, dove si considera Zelenskij illegittimo, proprio in ragione dell'annullamento del voto, pieno appoggio alle parole di Kellogg e la precisazione che, fino a che non sarà stabilita la legittimità di qualche altro soggetto ucraino, il Cremlino non concluderà alcun accordo. A detta di Kellogg, le elezioni potrebbero tenersi entro la fine dell'anno, soprattutto se verrà raggiunto il cessate il fuoco.

In questo senso, il politologo ucraino Ruslan Bortnik nota come il regime di Zelenskij sia riuscito nell'impresa di farsi dare da Trump il “cartellino giallo”: uomo avvisato, come si dice. Lo stesso Bortnik parla della perdita di legittimità del jefe, che ora ciancia della possibilità di una pace a breve scadenza, ma solo per abbassare il grado di tensione nella società ucraina, stanca del conflitto. La maggioranza degli ucraini, afferma Bortnik, «tra il 60 e il 70%, vuole la fine della guerra. Il Presidente comprende che bisogna dirlo, perché questo è ciò che la società vuole sentire», ma la sua non è altro che «retorica politica», perché nelle reali intenzioni e piani della junta non c'è veramente la pace e non è nemmeno «disposta a compromessi».

Dunque, a ben guardare, tra i reali soggetti della soluzione del conflitto non ci sono né UE, né Ucraina, ma solo USA e Russia; lo ha dichiarato Dmitrij Poljanskij, vice rappresentante russo all'ONU: «A mio parere, gli attori chiave sono solo due: Russia e Stati Uniti. Perché questa crisi è iniziata con l'intervento USA negli affari ucraini. Si può citare l'Europa, ma cos'è l'Europa? Ha perso il 90% del suo potere politico e militare ed è incapace di fare qualcosa da sola, anche insieme alla Gran Bretagna. Allora, perché dobbiamo coinvolgere gli europei? Ci abbiamo già provato con gli accordi di Minsk, e tutti sanno com'è finita».

Per quanto riguarda l'Ucraina, la domanda è: con chi si dovrebbe trattare? «Zelenskij è illegittimo... In questo momento è difficile dire chi sia legittimo in Ucraina. Forse il parlamento, ma anche in questo caso si tratta di un'affermazione dubbia», dice Poljanskij; per trattare, «ci devono essere persone legittime. L'Ucraina non è oggettivamente un soggetto in questa fase, finché non si terranno le elezioni, prima cioè che ci sia un leader che rifletta la volontà del popolo ucraino». Punto.

Ma a Bruxelles fanno sfoggio di “potenza” e sicurezza, come hanno fatto ieri, per esempio, il segretario della NATO Mark Rutte e il premier britannico Keir Starmer, ribadendo la necessità di fornire ancora miliardi e miliardi a Kiev, così che, «quando sarà il momento, l'Ucraina possa sedersi al tavolo dei negoziati da una posizione di forza», ha detto Rutte. E il suo degno compare di sventure, Starmer: «la pace arriverà, ma attraverso la forza, e faremo tutto il possibile per sostenere l'Ucraina. Ciò significa stabilizzare la linea del fronte, fornire le attrezzature e l'addestramento necessari. Ecco perché quest'anno la Gran Bretagna fornirà all'Ucraina un sostegno militare più consistente che mai».

Quindi, facendo la “voce grossa”, ha sentenziato che le sanzioni minacciate da Trump hanno «spaventato Putin... Ecco perché sono qui, per lavorare con i nostri partner europei per aumentare la pressione, tagliare le entrate energetiche che alimentano le sue fabbriche militari e fermare così la macchina da guerra di Putin». Nel quadro della NATO, hanno detto i due “appiedati” dell'Apocalisse, l'Europa dovrebbe assumersi maggiori responsabilità e aumentare più in fretta possibile le spese per la guerra. Non riescono proprio a cambiar musica. Vogliono la guerra a tutti i costi: i costi per i lavoratori, ovviamente.

«Il mondo sta diventando sempre più pericoloso» ci dicono i due profeti di sventure; quindi, si deve «essere più preparati alle minacce e alle campagne di destabilizzazione russe nei paesi alleati... e, per fermarle, una volta per tutte, dobbiamo rafforzare la nostra deterrenza al di là di ogni dubbio, investendo di più nella difesa», cioè nella preparazione della guerra. Ma, in «un mondo così pericoloso, il 2% non è sufficiente per la sicurezza, abbiamo bisogno di molto di più, dobbiamo rinfoltire in fretta le scorte» ha rimproverato Rutte a Starmer, il quale ultimo si è prontamente offerto di portare la spesa militare dal 2,3% al 2,5% del PIL.

Tempo, ma soprattutto denaro, sprecati: l'Europa non sarà comunque in grado di sostituire il sostegno militare USA a Kiev: lo ha dichiarato al Atlantic Council Jan Techau, direttore del team europeo dell'Eurasia Group USA: credo che «gli europei siano determinati a continuare a sostenere l'Ucraina» ha detto. Il fatto è che, se gli americani riducono il loro sostegno, gli europei non saranno in grado di sostituirli: né con mezzi e munizioni, né in termini di gestione dei flussi di dati, capacità di intelligence e comunicazioni satellitari, ecc.». L'Europa, ha detto Techau, è in ritardo nello sviluppo della produzione militare e le truppe europee sarebbero inefficaci sul campo. Ma, ugualmente, a Bruxelles si vuole la guerra. Criminali tagliagole.

E da Mosca, cosa rispondono? La Russia «deve proporre la propria versione delle garanzie di sicurezza sull'Ucraina, che consiste nella completa liquidazione del regime nazista e nel riconoscimento dei diritti della maggioranza russa», dice il politologo Sergej Markov. A parte l'illegittimità di Zelenskij e la pretesa di Kiev che i negoziati siano un “crimine”, dato che Zelenskij stesso li ha proibiti per “decreto”, el jefe «non può abrogare l'ordinanza, data la sua illegittimità. E anche se dicesse di cancellarla, noi diremmo: mi dispiace, caro, può essere annullata dallo speaker della Rada, ma solo quando verrà riconosciuto come presidente in carica. Zelenskij deve prima accettare di non essere più presidente e solo dopo sarà possibile annullare il decreto e avviare i negoziati».

E però, dice Markov, in ogni caso il problema principale non sono i territori. Dal punto di vista occidentale, la cosa principale è garantire la sicurezza dell'Ucraina. Pertanto, la prima opzione è l'adesione dell'Ucraina alla NATO, la seconda è il dispiegamento di forze di pace NATO e la terza è l'accettazione dell'Ucraina nella UE. Detto in modo soft, a Mosca questo non va a genio; ma forse lo dice in modo troppo velato: «dovremmo porre la questione con fermezza: non ci può essere alcuna adesione dell'Ucraina alla UE, che è un'unione politica e se l'Ucraina attacca la Russia, è la UE ad attaccare. E questo non ci va affatto bene», ha detto Markov. Le uniche garanzie di sicurezza da accettarsi sono «denazificazione, smilitarizzazione e de-derussificazione dell'Ucraina, con l'abolizione di tutte le leggi che limitano i diritti dei russi e della Chiesa ortodossa. E non sarà la NATO a fare da garante, ma la liquidazione del regime nazionalista».

Tra l'altro, osserva uno degli ex consiglieri della junta golpista, il fuggiasco russofobo Aleksej Arestovic, a questo punto Putin «non ha motivo di fermarsi. L'unico motivo ragionevole sarebbe contrattare dei bonus che superino i vantaggi di continuare la guerra e tali bonus possono essere solo un accordo sul futuro ordine mondiale e sulla divisione del mondo tra Trump, Xi Jinping e Putin. Un tale incontro è già in preparazione... per stabilire regole comuni del gioco mondiale, questioni dell'Artico e rapporti con la Cina, relazioni con gli USA e divisione del cosmo... tutto ciò è molto più importante che non la conquista di Pokrovsk, Kharkov, Poltava, ecc.,».

Ma, come già accennato altre volte, non può non essere considerata la presenza al processo di pace dei paesi vicini all'Ucraina, alleati o meno di Mosca. Secondo il politologo Semën Uralov, il punto di transizione da questa crisi dovrebbe essere costituito da azioni congiunte per la sua localizzazione. Tra i paesi che circondano il “dopo-Ucraina”, alcuni sono pienamente «assuefatti a Washington, come i polacchi», ha detto Uralov; altri meno, «come gli ungheresi. La Romania sta attraversando processi interessanti. La Bielorussia è nostra alleata. Quando la pacificazione di quel territorio non sarà più solo affare della Russia, ma anche dei suoi vicini, allora potranno verificarsi cambiamenti qualitativi nella crisi».

E, a quel punto, potrebbe verificarsi una spartizione dell'Ucraina in tre parti: «una fetta diventerà parte della Russia; un'altra diventerà uno stato dell'Unione, come è oggi la Bielorussia. La parte occidentale diventerà uno stato il più possibile neutrale», dice Uralov, il quale prevede un processo da completarsi non prima del 2050, per cui considera l'attuale tentativo di negoziazione come una “pausa tattica”. Nel migliore dei casi, vorremmo aggiungere.

Fabrizio Poggi

Fabrizio Poggi

Ha collaborato con “Novoe Vremja” (“Tempi nuovi”), Radio Mosca, “il manifesto”, “Avvenimenti”, “Liberazione”. Oggi scrive per L’Antidiplomatico, Contropiano e la rivista Nuova Unità.  Autore di "Falsi storici" (L.A.D Gruppo editoriale)

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