La "riforma Meloni" del Reddito di Cittadinanza: perché è un chiaro messaggio ai lavoratori
La recente campagna elettorale, conclusasi con la netta affermazione di Fratelli d’Italia, è stata caratterizzata da feroci attacchi al Reddito di cittadinanza (RdC) da parte della compagine guidata dall’attuale premier Giorgia Meloni. Oggi che i figli (non troppo putativi) del Movimento Sociale Italiano occupano gli scranni dell’esecutivo, si apprestano, attraverso la prossima legge di bilancio, a mettere mano al RdC con un draconiano restyling. La stretta prevede, nella prima fase, una riduzione della platea dei potenziali beneficiari e il conseguente taglio delle risorse ad esso destinate. Dopo questa fase, si passa a una ben più radicale “riforma”: la cancellazione del RdC. Un misto tra un rigurgito di odio di classe e una risposta ai desiderata dei padroni.
Ricordiamo, prima di addentrarci nei dettagli dell’intervento, che il RdC, nonostante i suoi limiti, ha rappresentato un argine alla povertà durante gli scorsi anni, e in particolar modo nei mesi più duri della crisi pandemica, caratterizzati da un crollo del PIL e dell’occupazione. Si stima che il RdC abbia permesso a circa un milione di persone di sfuggire alla povertà assoluta, garantendo un livello minimo di accesso a beni e servizi essenziali. Un importante risultato per quanto riguarda le condizioni materiali di vita di lavoratori a basso reddito e disoccupati, che, come vedremo, rischia di essere messo a repentaglio dalle modifiche che vi apporterà l’attuale esecutivo.
I dettagli della stretta sono contenuti nel disegno di legge di bilancio recentemente “bollinato” dalla Ragioneria dello Stato e presentato alla Camera. La principale modifica, nel brevissimo termine, riguarda la riduzione dei mesi di beneficio per i percettori considerati ‘occupabili’: se, fino a oggi, qualora una richiesta di RdC fosse stata accettata, si sarebbero percepite 12 mensilità in un anno (in un importo variabile in base alla propria condizione familiare), la nuova formula prevede per il 2023 un massimo di 8 mensilità per determinati soggetti. Si tratta di coloro che sono stati definiti dalla vulgata giornalistica e dal governo come “occupabili”, ma in sostanza sono semplicemente coloro che hanno tra i 18 e i 59 anni. Si salvano (per il momento) e, quindi, continueranno a percepire fino a un massimo di 12 mensilità l’anno, le famiglie con minorenni, disabili e anziani con almeno 60 anni d’età.
Ma non finisce qui, perché il RdC, in base al disegno di legge, sarà cancellato dal 2024. A parziale compensazione, si accenna all’introduzione di una nuova forma di sostegno, destinata solo a coloro che saranno ritenuti “non occupabili”. Per ora, però, di questo nuovo strumento non si sa nulla. Di certo, per ora, c’è soltanto che il RdC sarà abolito dal 1° gennaio 2024.
Si stima che il taglio previsto per il 2023 coinvolgerà circa un milione di persone, pari a circa 404 mila nuclei (attualmente – dati da gennaio a ottobre 2022 – a beneficiare di almeno una mensilità di RdC sono state circa 3,6 milioni di persone, pari a circa 1,7 milioni di famiglie). Da un lato, l’esistenza di inoccupabili rappresenta un limite naturale al taglio, in quanto si calcola che circa 2/3 degli attuali percettori non abbiano i requisiti di occupabilità (persone anziane o comunque inabili al lavoro). Tuttavia, limitare la platea di potenziali percettori delle 12 mensilità ai soli “inoccupabili” ha un significato politico ben preciso: di fatto, significa sposare l’idea balzana che un cinquantottenne sia occupabile quanto un ventenne e pensare che coloro che possiedono i requisiti anagrafici per lavorare potranno ‘risolvere’ i loro problemi (ossia trovare un reddito) vendendosi sul mercato del lavoro per un salario dignitoso. Nei fatti, invece, l’obiettivo è un altro: far sì che queste persone siano costrette ad accontentarsi di un salario indegno pur di sopravvivere.
La narrazione del Governo, infatti, cozza con la realtà dei fatti, in quanto il mercato del lavoro in Italia è ad oggi caratterizzato dalla presenza di circa 2 milioni di disoccupati, a cui si aggiungono gli scoraggiati, una significativa fetta di part-time involontari (ossia coloro che lavorano a tempo parziale ma che vorrebbero lavorare a tempo pieno) e circa 5 milioni di lavoratori poveri (spesso legati a contratti atipici) a testimonianza del fatto che non ci sono sufficienti caselle occupazionali da riempire.
Ma c’è di più: garantire un reddito a coloro che un lavoro non ce l’hanno, pur avendo le capacità di svolgerlo e cercarlo attivamente, significa dare al mercato del lavoro un segnale di quella che può essere una soglia minima salariale in assenza di una legge sul salario minimo. Togliere il sussidio ai disoccupati ‘occupabili’ significa di fatto togliere dal mercato l’indicazione di un pavimento inferiore nella retribuzione per il lavoratore medio. Si tratta di una misura, questa, che sottende un’idea ben specifica circa il funzionamento del mercato del lavoro: l’esistenza di disoccupati, in questa visione, dipenderebbe dalla prevalenza di salari reali troppo elevati, mentre a salari più bassi le imprese sarebbero incentivate ad assumere più lavoratori. Una concezione che, come abbiamo più volte osservato, è tipica dell’economia dominante. Una visione che è stata smentita dall’evidenza empirica, oltre che dalla logica e dell’analisi economica.
Oltre a queste considerazioni, gli esponenti della maggioranza ne paventano altre, di carattere ancor più classista, che si aggiungono al già ripugnante criterio della residenza nel Paese da almeno dieci anni introdotto su richiesta della Lega agli albori del RdC e accettato dal Movimento 5 Stelle. Tra queste, ne sottolineiamo due. La prima, contenuta nella legge di bilancio, riguarda la decadenza dal beneficio alla prima offerta rifiutata, mentre al momento il RdC sarebbe sospeso al secondo rifiuto: se la congruità dell’offerta fosse considerata su tutto il territorio nazionale, ciò significherebbe che basterebbe declinare un’offerta a 500km da casa per perdere il diritto al sussidio. La seconda, per ora soltanto ipotizzata dal ministro dell’Istruzione (e del merito!) Valditara, concerne la malsana idea di depennare punitivamente dai potenziali beneficiari coloro che non hanno completato gli studi dell’obbligo, come se la loro decisione di abbandonare precocemente gli studi fosse stata dettata da qualcosa di diverso dalle condizioni economiche e sociali che li hanno costretti a cercarsi da campare a 12 anni.
Un’ulteriore modifica presente nel ddl di bilancio riguarda l’obbligo dei percettori di prestare dei lavori socialmente utili presso i Comuni. Una scelta che delinea con ancora più forza il tratto della ‘condizionalità’ del reddito (se non lavori, non prendi il sussidio).
Dalle prime stime, la riduzione della platea dei beneficiari comporterà un risparmio di 743 milioni di euro per le casse dello Stato. Si tratta di un risparmio risibile in termini sia assoluti che relativi (per avere un ordine di grandezza, la spesa pubblica complessiva si aggira attorno ai 1000 miliardi di euro annui, di cui circa 600 per il welfare e, tra questi, circa 9 per il RdC). Un risparmio, dunque, neanche utile, se non in minima parte, a creare un tesoretto da offrire in sacrificio sull’altare dell’austerità. Per questo, come abbiamo avuto modo di vedere, i tagli più pesanti sono rivolti altrove (attraverso, tra l’altro, misure drammatiche alla voce sanità): il Governo Meloni si appresta a fare più austerità del Governo Draghi.
Ma l’obiettivo, stavolta, non è (solo) fare cassa, bensì dare il segnale che ‘la pacchia è finita’, con un atto che non comporta alcun beneficio per le casse dello Stato ma che fa molto, moltissimo danno a un gran numero di persone. È un segnale lanciato a pezzi di elettorato che da sempre hanno in odio il RdC. Un segnale che dice: ecco la manodopera di cui avete bisogno, a cui potrete ora offrire un salario da fame perché non ci sarà più neanche la tutela minima del RdC. Un regalo a padroni e padroncini italici. Una strenna natalizia affiancata all’allargamento del campo di applicazione dei voucher. In una logica, si noti bene, condivisa anche da una parte del cosiddetto centrosinistra, come ci ha ricordato il sempre illuminato Pietro Ichino.
Il Reddito di cittadinanza, così come originariamente congetturato, rappresentava uno strumento di assistenza minimale, e già di per sé con condizioni piuttosto stringenti, finalizzato a garantire un reddito ai meno facoltosi. L’attacco a questa forma di sussidio, già messa alla prova dalle revisioni apportate dal Governo Draghi, rappresenta un ulteriore tentativo di portare a zero gli strumenti di sostegno al reddito. Si tratta di un piano non troppo celato dell’attuale esecutivo, che, oltre agli attacchi mediatici e alle misure di riduzione del parterre dei beneficiari, ne ha infatti previsto la completa abrogazione a partire dal 2024. Un provvedimento che rappresenta la cifra dell’esecutivo Meloni e che più di ogni altra sparata o commento di colore deve farci tenere alta la guardia sulle reali intenzioni dell’attuale compagine governativa.